William Saroyan e La commedia umana: un Omero a Ithaca

Edward Hopper Houses of squam light

Era una professoressa di quelle autorevoli, con due occhialoni tondi e il naso spiovente; quando interrogava ti guardava fisso negli occhi: «deambula puer!». “Puer”, ragazzo, eri tu, e non ti rimaneva che deambulare verso la cattedra, rassegnato. Aveva l’abitudine di presentarsi in classe con un libro in più del solito, e te lo piazzava lì davanti agli occhi: «leggilo; dimmi cosa ne pensi». Quella volta, tanti anni fa ormai, mi aveva messo in mano un libro giallino: La commedia umana di un certo William Saroyan. Ringrazi, te lo metti nello zaino; prima sbrici qualche pagina:

Quel bambino, di nome Ulysses Macauley, un giorno se ne stava a guardare il buco della talpa nel giardino dietro casa, in Santa Clara Avenue a Ithaca, California. La talpa ammucchiava terra fuori dalla nuova tana e spiava il bambino, un estraneo per lei, anche se non un nemico vero e proprio. Prima che l’incantesimo svanisse, uno degli uccelli di Ithaca era volato verso il vecchio noce, nel boschetto, e dopo essersi posato su un ramo si era messo a far baccano, a modo suo, spostando l’attenzione del bambino dalla terra all’albero. Un treno merci, la cosa più notevole, sbuffava e sferragliava in lontananza.

(William Saroyan, La commedia umana, 1943, 2010 Marcos y Marcos, Milano, p.9)

Parole semplici, elementari; spicca l’ironia dell’autore con i grandi maestri, Balzac e Omero; e poi questo mondo di animali quasi da favola. Anche in traduzione, avvertiamo chiaramente la personificazione degli elementi naturali. Gli uccelli sono di Ithaca, come se avessero nome e indirizzo anche loro; siamo sulla porta d’ingresso della poesia, ed è solo l’incipit.

Siamo, inoltre, nell’anticamera di un linguaggio, se non proprio “dei bambini”, almeno che sia loro familiare; Saroyan si avvicina al loro mondo, costruisce una lingua a misura di bambino, o di ragazzino, in modo da poter filmare le loro azioni dalla loro angolatura. Come nei Peanuts, in cui i “grandi” non sono mai presenti. Forse oggi ci siamo abituati, siamo lettori smaliziati, avvezzi alle maggiori stranezze, e non ci rendiamo conto di quanto poteva essere rivoluzionario nell’epoca in cui è stato scritto. Rapida controllatina al copyright: 1943.

Edward Hopper, Casa di Adam, 1928
Edward Hopper, Casa di Adam, 1928

1943. Prima di Salinger dunque, prima della Beat Generation; prima di Charles Schultz, tra l’altro. Suggendo a piene mani da Steinbeck, riesce a ricreare, con la sua penna, un intero mondo. Andiamo avanti a leggere, esattamente dal punto in cui l’abbiamo lasciato:

Il bambino rimase ad ascoltare, sentiva la terra tremare sotto di lui per il movimento del treno. Poi si era messo a correre, sempre più svelto: più veloce di chiunque altro al mondo anzi, ne era convinto. Raggiunto l’incrocio fece appena in tempo a vedere il treno tutto intero che passava, dalla locomotiva all’ultima carrozza. Fece un saluto al macchinista, ma il macchinista non rispose. Salutò altri cinque tizi, sul treno, e non uno di loro gli rispose. Avrebbero potuto ricambiarlo, ma non lo degnarono nemmeno di un cenno. Alla fine apparve un nero che si sporgeva sul fianco di un carro merci. In mezzo al frastuono del treno, Ulysses sentì l’uomo che cantava:

Amore mio non piangere, oggi non pianger più
Un canto noi cantiamo per la casa del Kentucky
Cantiam la vecchia casa, lontana, laggiù

Ulysses provò a salutare anche lui, e a quel punto accadde un fatto inatteso e sorprendente. Quell’uomo, nero, diverso da tutti gli altri, rispose al saluto di Ulysses: «Toorno a caasaa, proprio a caasaa mia!»

(William Saroyan, op. cit., pp. 9,10)

Ecco, dalle mani di Saroyan esce uno schizzo di vita degli anni quaranta, apparentemente edulcorato perché possa divenire poetico, perché così può averlo visto un bambino come Ulysses. Dietro un inizio così poetico c’è sicuramente un maestro come James Joyce. L’incipit di Dedalus dev’essere stato sicuramente illuminante per il nostro romanziere:

Edward Hopper, Casa di Fort, Gloucester, 1924
Edward Hopper, Casa di Fort, Gloucester, 1924

Nel tempo dei tempi, ed erano bei tempi davvero, c’era una muuucca che veniva giù per la strada e questa muuucca che veniva giù per la strada incotrò un ragazzino carino detto grembialino…

Il babbo gli raccontava questa storia: il babbo lo guardava attraverso un monocolo: aveva una faccia pelosa. Grembialino era lui. La muuucca veniva per la strada dove abitava Betty Byrne, che vendeva filato di limone.

Oh, le belle rose di selva
là nel verde giardinetto.

Cantava questa canzone. Era la sua canzone.
Oh, le belle lose veldi.

(James Joyce, Dedalus, Milano, Adelphi, 2005, p. 25)

Saroyan, rispetto a questo incipit, fa ancora un passo in più. Joyce è sì dolcissimo (c’è la canzone, c’è il mondo infantile, rimarcato dall’ortografia sgangherata, c’è l’atmosfera raccolta), ma queste sono ancora righe scritte da un adulto che fa il verso al bambino. È un’imitazione, raffinata e splendida, del mondo infantile, ma ancora un’imitazione. Invece in Saroyan, per la prima volta, vediamo il bambino in presa diretta, qui ed ora, come parlerebbe lui stesso. Come se fosse ripreso di nascosto.

È un’opera neorealista, e nello stesso tempo lieve, ricca di cambiamenti di registro appena accennati. La palla, poche pagine dopo, passa infatti a Homer, il fratello quattordicenne di Ulysses; e si cambia registro. Poco, appena, con levità. Prevalgono i toni pastello, niente svirgolate, niente pennellate grosse: i due protagonisti non le sopporterebbero.

Sopportare. Nonostante tutta la grazia dello stile, La commedia umana mostra però dolore, amarezza. Abbiamo a che fare con ragazzino quattordicenne che lavora, che già deve fare i conti con grandi responsabilità; il padre è mancato, e lui dovrà fare da padre al fratellino, dovrà lui occuparsi di sua madre.

La commedia umana william saroyan

Homer lavora, e ha un lavoro del tutto particolare: consegnare telegrammi. 1943. In piena guerra, quando le madri sono a casa e aspettano.

Aspettano già sapendo, già intuendo che un giorno o l’altro arriverà a casa un ragazzino a porgere il piccolo telegramma. E allora, cercando di evitare le lacrime, lo inviteranno in casa, magari, tanto per fare qualcosa di gentile, per averne po’ di contegno in quel grande dolore, in quella grande assenza. La guerra non si vede, in California. La guerra è uno spettro lontano che risucchia i migliori ragazzi, che incombe con il suo stesso vuoto, con la mancanza. Anche il fratello maggiore di Homer è andato in guerra.

Eppure nel mondo, nel qui e ora del nostro ragazzino c’è il telegrafo, gli amici, ci sono i mille impegni di tutti i giorni, le lotte con gli altri ragazzi a scuola, le gare, il preside e una scuola che non lo capisce; e una bicicletta che va, che vola per quelle strade d’America, per quei sentieri in cui sembra non ci sia nulla, e sembra che si possa finalmente respirare.

Verrebbe voglia di raccontarlo tutto, di carpire il segreto di una penna tanto lieve, che fa pensare a quella di Charles Simic, poeta americano più recente, anche lui poco conosciuto in Italia; viene voglia di tornare in quell’America che non esiste (forse) più, così diversa da quella di cui sentiamo parlare, che vediamo in televisione; viene un po’ di nostalgia, come poteva avere nostalgia della sua infanzia il vecchio Citizen Kane.

Eppure Saroyan è capace, come i veri poeti, di mettere in corpo un desiderio d’osservazione, un desiderio di spazi aperti. Come ogni creatore di mondi, Saroyan è capace, nel tratteggiare questi mini personaggi una dolcezza incredibile, una dolcezza davvero alla Schultz, che traspare proprio nell’usare gli occhi di questi personaggi, nel mettersi al loro posto. 1943: nello stesso anno esce il celeberrimo Piccolo principeForse non è un caso, forse, nel pieno della guerra, è necessario, per ritrovarsi, fissare lo sguardo su quello che, in quel momento, sembra meno importante: la tana di una talpa, un bambino sceso chissà da dove per chiedere il disegno di una pecora; i nidi di ragno.

E forse, seguendo quei sentieri, un po’ della memoria, un po’ dell’osservazione di una vita che si ostina pervicacemente a crescere, a esistere, troveremo il segreto di quella penna.

Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.