Per la prima volta mi imbattei nell'”impotenza verbale”

Arhtur RImbaud, Ernest Pignon

Il termine “impotenza” può svilupparsi in differenti significati. Una delle sfumature di significato che la parola contiene è “impotenza verbale”, ossia la condizione di chi o di ciò che non ha la forza o la possibilità o i mezzi necessari e adeguati per esprimersi. Un esempio calzante lo si può trovare nella Divina Commedia di Dante Alighieri; in più occasioni, nel paradiso, il Sommo Poeta dovette ammettere di avere delle difficoltà e infine, di fronte all’esperienza del trasumanare, si arrese: «Trasumanar significar per verba / non si poria» (Paradiso I, vv. 70-71).

Tuttavia l’impotenza verbale non può e non deve avere una connotazione totalmente negativa, in quanto avvia alla ricerca di altri modi di esprimersi. L’emblema, o meglio la prova, che conferma la teoria, è riscontrabile in un movimento letterario della fine dell’Ottocento, il simbolismo, precisamente nell’accezione francese, che vede tra i propri esponenti Arthur Rimbaud e Charles Baudelaire.

Il Simbolismo fu una reazione al materialismo dell’epoca positiva, dunque diede voce al sentimento del mistero, sotteso alla realtà (Baudelaire, Inno alla bellezza: «Vieni dal cielo profondo / o l’abisso t’esprime, Bellezza?»), e considerava che il senso del mondo non si potesse attingere tramite la ragione, bensì solo attraverso l’arte (Baudelaire, Corrispondenze: «La Natura è un tempio dove colonne viventi / talvolta lasciano uscire confuse parole; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli / che l’osservano con sguardi famigliari» ).

Nadar, Ritratto di Charles Baudelaire
Nadar, Ritratto di Charles Baudelaire

La verità veniva mostrata però solamente al poeta che divenne dunque un poeta veggente e proprio a lui veniva affidato il compito di tradurre il messaggio, che non aveva più a che fare con parole:

Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente.

Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di follia; egli cerca se stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non serbarne che la quintessenza. Ineffabile tortura in cui ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande malato, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Poiché giunge all’ignoto! Avendo coltivato la sua anima, già ricca, più di ogni altro! Egli giunge all’ignoto, e anche se, sconvolto, dovesse finire per perdere l’intelligenza delle sue visioni, le avrebbe pur sempre viste!

(Rimbaud, Lettera del Veggente, 15 maggio 1871)

Dunque ogni chiarezza svaniva non appena egli cercasse di riportarne il significato nei limiti di una lingua umana o di un’esperienza comune. Il poeta simbolista non poteva permettersi di tessere un discorso o di raccontare un episodio, poiché egli doveva esprimere la voce divina che era risuonata nella sua anima, una voce che non è traducibile attraverso il linguaggio umano. Ed ecco l’impotenza verbale. Ed ecco “per verba/non si poria”. Ed ecco i mezzi inadeguati. Però il messaggio aveva l’ordine di dover essere proferito e di venire compreso…dunque? Dunque il poeta simbolista sperimentò una nuova forma di comunicazione: il messaggio venne affidato ai suoni, il linguaggio si fece oscuro e simbolico e la poesia divenne fonosimbolica.

Arthur Rimbaud

La poesia si piega a flusso melodico e si scioglie in canto.

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
io dirò un giorno i vostri ascosi nascimenti:
A, nero vello al corpo delle mosche lucenti
che ronzano al di sopra dei crudeli fetori,

golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende,
lance di ghiaccio, bianchi re, brividi di umbelle;
I, porpore, rigurgito di sangue, labbra belle
Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti;

U, cicli, vibrazioni sacre dei mari verdi,
quiete di bestie ai campi, e quiete di ampie rughe
che l’alchimia imprime alle fronti studiose.

O, la suprema Tromba piena di stridi strani,
silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi:
– O, l’Omega, ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!

versione originale:

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes:
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,

golfes d’ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes,
lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d’ombelles;
I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles
dans la colère ou les ivresses pénitentes;

U, cycles, vibrement divins des mers virides,
paix des pâtis semés d’animaux, paix des rides
que l’alchimie imprime aux grands fronts studieux;

O, suprême Clairon plein des strideurs étranges,
silences traversés des Mondes et des Anges:
– O l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux!

(Arthur Rimbaud, Vocali, traduzione a opera di “Editori & altro”: è possibile leggerne anche un’analisi dettagliata, che vi consiglio.)

Non è arte? Non ne è valsa la pena di essere “impotenti”?

Non è forse migliore “per verba/non si poria” se abbiamo la fortuna di leggere la “Divina Commedia”?

Eleviamo l’impotenza verbale dunque, sfatiamo il mito del successo: Dante riuscì a vedere il Paradiso!

Rebecca Restante
Rebecca Restante

Sono nata a Roma nel 1999. Diplomata al liceo linguistico e studentessa dell'università La Sapienza. Sono in cerca della mia manifestazione tramite la letteratura