Come?
Sta accadendo davvero?
Sto veramente recensendo un libro?
Cioè, vuol dire che sono capace di leggere parole che non siano state incluse in un balloon, ridotte a sottotitoli o incasellate nello slot di testo di un qualche gioco?
Dalla regia sostengono di sì, quindi dev’essere vero.
Lasciate che vi dica una cosa.
Nella mia ridotta, ombrosa camera presso la ridotta, ombrosa Pavia c’è un timbro.
Sul timbro, sotto la raffigurazione estremamente fashion di un veliero, c’è una scritta: “Ex libris Davide”. Una pretenziosa locuzione latina[1] atta a indicare, non so con quale grado di autorevolezza, che le opere cartacee su cui il timbro viene impresso sono di mia proprietà
È una cosa che ho ricevuto in regalo, è una cosa a cui tengo molto, è una cosa che per me riveste un valore speciale. È una cosa che, indeciso su quale libro “marchiare” per primo, non avevo mai usato.
A quale volume concedere l’onore della prima impressione del timbro? Quale splendido esempio di letteratura riconoscere per primo come particolarmente mio?[2]
Sarebbe bellissimo, a questo punto, citare un libro a caso, e poi proseguire senza la minima soluzione di continuità recensendo quello citato nel titolo.
A questo giro, purtroppo, mi toccherà essere coerente.
Stoner di John Williams – che, come il timbro di prima, è sia un regalo che qualcosa a cui tengo particolarmente – si becca la prima impressione.
E con essa l’articolo di oggi.
The greatest American novel you’ve never heard of[3] – Tim Kreider
Pubblicato per la prima volta dalla Viking Press nel 1965, Stoner non vende neppure 2.000 copie.
Un flop assoluto. Anzi, nemmeno un flop: un’accoglienza mostruosamente tiepida. I pochi recensori che mostrano interesse per il libro, di fatto, si dicono più che favorevolmente colpiti.
Notare l’ascot a pois (o, alla nostrana, “puà”) di affermata tradizione universitaria e gli occhiali che anticipano di diverse decadi quelli di moda oggi.
Questo non impedisce al manoscritto di Stoner di abbandonare le stampe dopo un solo anno. E di restarne lontano per quasi quaranta, fino al 2003: quando la Vintage Books, su sollecitazione dello scrittore irlandese John MacGahern, cura una prima ripubblicazione del romanzo. Un’altra edizione ricomincia a circolare soltanto tre anni dopo, nel 2006, grazie alla New York Review Books Classics.
Due ristampe passate, di nuovo, sotto silenzio.
Quattro decadi dopo, e del libro di Williams ancora non si parla.
Stoner deve pazientare ancora. Deve aspettare una spinta decisiva: quella datagli nel 2011 da Anna Gavalda, scrittrice francese di successo che, acquistando i diritti del libro per tradurlo, gli garantisce anche l’attenzione della sua notevole cerchia di fan. Di Stoner si comincia a parlare di più: e, di lì a poco, la casa britannica Waterstones lo dichiara il suo Book of the Year 2012.
È un attimo. Nel 2013 le vendite sono triplicate; già nel 2012 il romanzo si è beccato la sua personalissima edizione italiana a cura della romana Fazi Editore. Con tanto di fascia onoraria di carta in stile sindaco che ne annuncia lo stato di best-seller
Portato finalmente alla ribalta dagli sforzi di scrittori europei e in Europa soprattutto osannato, il libro raggiunge gli scaffali di tutti il mondo.
E, con un po’ di ritardo e per provvidenziale intercessione di un amico, raggiunge me.
In spite of the American setting, the character himself feels more English, or European – opaque, fundamentally decent, …
Perhaps the lack of the novel’s taking hold in the US is because it doesn’t feel like One of Ours? We’re such a country of maximalists, noisy ones[…][4] – Sylvia Brownrig
Romanzo anomalo, Stoner.
Non è la storia di grandi personaggi, di identità destinate a lasciare la loro impronta sul mondo. E non è neppure la storia di fallimenti abissali, di vicende di formazione terminate in tragedia, di emozioni negative che hanno avvelenato generazioni.
È la storia di un uomo normale. Di un uomo mediocre. Banale, perfino.
William Stoner, l’omonimo protagonista, nella sua vita non compie sostanzialmente nulla di memorabile. Diventa professore universitario – da cui la dicitura campus novel, “romanzo di campus” applicata al libro – solo per condurre un’esistenza paragonabile a quella di tanti altri professori universitari. Pubblica studi validi, accolti come tali con accademica indifferenza. Insegna letteratura inglese con caparbietà filologica, senza mai raggiungere nessun traguardo significativo. È un docente severo ma giusto, talvolta animato da qualche scintilla di carisma, ma carente di quei tratti che ne farebbero un personaggio unico nella mente degli studenti.
Lo scorrere della Storia con la S maiuscola c’è, in Stoner, e si percepisce chiaramente: ma è mero background. Le due Guerre Mondiali, la Grande Depressione, la Guerra Civile Spagnola non sono nient’altro che rumore di sottofondo di un’esistenza normalissima; una fra milioni d’altre. Un’esistenza che all’ombra della Storia si muove, con comprensione più o meno apparente, e che sul suo scorrere non è in grado di esercitare la minima forza – ne ha alcun interesse a farlo.
Tali sono le ragioni che conducono alla classificazione di Stoner come “romanzo anomalo”. E, sia ben chiaro, si tratta delle stesse identiche ragioni che concorrono a renderlo un “grande romanzo“.
“[Stoner is] something rarer than a great novel — it is a perfect novel, so well told and beautifully written, so deeply moving, it takes your breath away[5] – Morris Dickstein.
La scrittura di Williams è lineare, metodica, apatica. Voce scorporata – la vicenda è narrata in terza persona – di un protagonista preciso, goffo, taciturno: quasi mai capace di esprimere a parole quella profondità che va a scoprire in tutta la sua travolgente portata nella letteratura.
È una scrittura grazie alla quale i rari momenti di alta poesia, di estasi letteraria e contemplazione estranea al tempo, si palesano per ciò che sono: parti integranti dell’esistenza di tutti, chi più chi meno.
Stoner, forse, è un grande. Ma è un grande afasico, incapace di esternare compiutamente e con continuità ciò che prova dentro, ciò che realmente lo eleva. La sua grandezza resta nascosta, sottocutanea, pressoché invisibile sotto la crosta del suo essere comune: spesso volutamente sopita in favore della routine, del quieto vivere, della paura di mettersi in gioco.
Ma quella grandezza c’è.
Nella ricerca di conoscenza come nell’amore: l’altra polarizzante – e inespressa – passione di Stoner. Un amore di cui, talvolta, egli riesce a godere nella forma assoluta dell’emozione destabilizzante e della pulsione incontrastabile, del grado di felicità più elevato e più vicino alla perfezione. Almeno finché le circostanze o l’abitudine non lo costringono a rinunciare a tali sentimenti, degradandoli a stagnante routine o interiorizzandoli all’inverosimile: fino a renderli invisibili quanto la segreta passione che anima la sua attività lavorativa.
“By turning my body to the side, I am able to obscure my draw from the aggressor, gaining the element of surprise[6]” – Dalai Lama
Stoner – e con lui Stoner – è l’emblema dell’individuo comune, estraneo alle luci della ribalta del Tempo. Dalla nascita al lavoro manuale, dalla contemplazione universitaria al matrimonio fino alla tresca amorosa: tutto, in lui, pulsa di quella meravigliosa mediocrità che anima la maggior parte di noi, meri spettatori della grandezza manifesta di pochi eletti.
Ma non per questo meno grandi.
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