Appunti di epistemologia – V
La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero[1].
Così scriveva quel signore tedesco della cui nascita si celebra quest’anno il bicentenario.
Tra le undici tesi su Feuerbach di Marx e i Quaderni del carcere di Gramsci erano passati circa novant’anni. Tuttavia un filo rosso li unisce: il filo rosso – appunto – della prassi.
Ecco che torna la domanda con cui ci siamo lasciati nell’ultimo articolo: in che relazione stanno politica e sapere, prassi e comprensione del mondo? La risposta è contenuta in nuce nella citazione di poco fa. È giunto il momento però di esplicitarla.
Ora, per Gramsci il sapere non è qualcosa che casca dal cielo o nasce dal nulla. È un prodotto umano, intimamente connesso al contesto storico e sociale in cui sorge. La convenzionalità di cui parla, l’abbiamo detto la scorsa volta, esprime esattamente questo punto di vista.
Dire questo – che una teoria è connessa al contesto sociale in cui sorge –, vuol dire affermare che essa è legata alle relazioni che gli esseri umani intessono tra loro. In altri termini, è legata alle attività che gli uomini compiono per sopravvivere.
Non solo nel senso che, per esempio una società primitiva, in cui la lotta per la sopravvivenza coinvolge tutti i suoi componenti, in cui gli strumenti più raffinati di cui si dispone sono l’arco e la freccia, non ha la possibilità di elaborare per esempio una teoria fisica quantistica. Ma anche e soprattutto in un senso più radicale. Teoria e prassi – per usare le parole di Gramsci – «esprimono due fasi […] che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo[2]».
Attenzione. Omogenee ed eterogenee allo stesso tempo significa che non sono perfettamente sovrapponibili. Che una differenza tra queste due “fasi” esiste. Ma qual è?
Rispondiamo in modo ellittico. Gramsci, l’abbiamo ripetuto fino alla nausea, rifiuta l’idea che la prassi verifichi la teoria e ne dimostri la corrispondenza alla realtà.
La prassi è la chiave per uscire dall’impasse rappresentato dal corrispondentismo, perché ci obbliga a prendere atto che conoscere significa modificare e modificare porta con sé la radice della conoscenza (ne è una condizione di possibilità materiale e non solo formale).
Come si nota il rapporto di uguaglianza implica in sé una differenza tra gli uguali: nel primo caso il rapporto è immediato (conoscere è modificare); nel secondo il rapporto rimanda ad un’alterità (modificare porta con sé la potenzialità materiale di conoscere).
L’alterità risiede nel fatto che la conoscenza (che implica un grado di coscienza della conoscenza stessa da parte del soggetto che conosce) è solo potenziale e non già in atto nel momento della modifica.
Però è potenzialità materiale, perché il processo si snoda nella concretezza[3] del darsi mondano e non rimanda ad una mera forma logica di questo processo.
In modo più radicale si potrebbe dire che teoria e prassi non sono altro che due categorie (a modo loro necessarie entrambe) per comprendere il rapporto di compenetrazione uomo-mondo.
Chi le tratta come qualcosa di totalmente diverso, dove addirittura l’una è l’opposto dell’altra, si condanna a non comprendere cosa significhi conoscere. Se infatti si ipotizzasse che esiste un’opposizione tra teoria e prassi, sarebbe infatti necessario chiedersi che tipo di relazione intessono, come è possibile che questi due momenti trapassino l’uno nell’altro. Si dovrebbe cioè concludere che esiste una forma di corrispondenza che garantisca questa traduzione. E così ritorneremmo da dove eravamo partiti: ad una situazione in cui non si capisce bene come l’essere umano possa interagire consapevolmente con il mondo, farlo proprio e capire qualcosa di ciò che lo circonda. Alternerebbe momenti in cui specula a momenti in cui agisce istintivamente.
Invece, per parafrasare Kant: la teoria senza la prassi è vuota e la prassi senza la teoria sarebbe cieca.