Da un po’ di tempo volevo scrivere di una questione complicata. È uno di quegli argomenti che sgusciano da tutte le parti, che credi di aver afferrato e invece no, di cui fatichi a parlarne perché, alla fine, ha a che fare con la domanda delle domande: che cos’è l’arte? A che cosa serve? Questa è una di quelle domande che si cerca sempre di non fare, e che oggi si tende proprio a evitare, trincerandosi dietro la famosa frase di Dino Formaggio «Arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte». Ma, alla fine, è sempre lì: è impossibile, del resto, eludere la questione del perché si fanno certe cose, e che cosa sia quello che si sta provando a fare, anche se è particolarmente lungo e complesso dare una risposta.
Riavvolgiamo il nastro. Qualche mese fa il poeta Antonio Francesco Perozzi ha pubblicato questo articolo su Lay0ut Magazine. La tesi di Perozzi può essere riassunta così: la letteratura è tutta borghese in quanto nasce e si sviluppa grazie alla borghesia e al suo individualismo, e dunque è da considerarsi essenzialmente intimistica e consolatoria.
Non è tanto la tesi di Perozzi a interessarmi (anche perché storicamente non regge molto, come è stato fatto notare in quest’altro articolo) quanto un aspetto che viene lasciato sottinteso. Si tratta di una polemica che permea gran parte della cultura politica degli ultimi cinquant’anni, e cioè l’idea che l’individualismo in arte sia un male, e porti a un’arte intimistica e dunque consolatoria, entrambi aggettivi turpi e vitandi, che evocano subito il dolce far niente delle classi agiate, che hanno tempo per le mollezze e non si applicano invece alla virtuosa industriosità della classe operaia.
È il vecchio problema dell’impegno politico nell’arte. C’è stato un enorme dibattito sui legami tra arte e politica, che non riprenderò – sarebbe troppo dispersivo – ma il presupposto dell’intellettuale medio di estrema sinistra sembra essere sempre lo stesso: l’artista disimpegnato non va bene. L’artista deve essere impegnato; il suo lavoro è immediatamente collettivo, sociale: il suo dev’essere un lavoro utile, perché se no è un parassita della società, mangia a sbafo e dunque è come i borghesi, anzi, è egli stesso borghese.
A scanso di equivoci, non nutro grande simpatia né per la borghesia, né per il modo di produzione capitalistico. Non c’è tempo di spiegare bene il perché e il percome, ma mi sembra assodato che la borghesia abbia impresso il suo marchio sul mondo in modo indelebile, e che questo, non fosse altro che per l’enorme disparità sociale che rappresenta, non è un bene. Un mondo dove l’1% della popolazione ha più del 50% delle risorse non è un mondo dove è bello vivere, e questo penso che chiunque abbia qualche problema economico possa capirlo.
Non solo: la borghesia ha creato un sistema, un’ideologia e una sua cultura, e anche questo non può essere minimizzato o messo da parte; una cultura talmente pervicace da convincere tutti che la società odierna sia la normalità, e che un mondo senza aziende private e senza banche non sia possibile. Una cultura così permeata nella società che il potere delle grandi aziende, delle industrie, delle banche, non lo vediamo nemmeno: vediamo i governi, vediamo gli Stati, e non le classi sociali che si celano dietro di essi.
Però non credo che combattere tutto questo sia per forza compito dell’artista. È compito di ogni persona in quanto cittadino, ma una seria lotta contro la diseguaglianza sociale è qualcosa che si affronta politicamente, con i mezzi e le armi della politica. Richiede conoscenze specifiche di tipo economico; richiede una conoscenza approfondita della realtà sociale di cui si sta parlando, e un intervento pratico nelle realtà specifiche dove si vuole far sviluppare questa lotta. L’artista, in quanto cittadino, può certamente acquisire queste conoscenze, può certamente essere una persona informata e attiva politicamente, ma questo può avere a che fare con la sua arte, così come può non avere nulla a che fare con essa.
L’arte è sì un prodotto culturale, e dunque è certamente influenzato dalla società in cui viene prodotta, ma ha delle sue specificità. Non è un volantino, non è un trattato, né una manifestazione: possiamo fare un trattato sull’arte, così come una manifestazione, ma l’artisticità non sta in nessuno di questi atti. C’è qualcosa in più. Qualcosa di diverso. Che è proprio quella cosa che continua a sfuggirci, ci sguscia via ovunque e finiamo poi per perdere di vista.
Io non so che cosa sia esattamente questo qualcosa in più; non saprei definirlo. Penso che abbia a che fare con la particolare comunicatività dell’arte: cioè con il fatto che l’arte non è semplicemente trasferire informazioni da una testa all’altra, ma trasferire sentimenti, far vivere situazioni. Se vogliamo far vivere qualcosa a qualcun altro, magari fra cento o duecento anni, c’è bisogno che questo qualcosa ci interessi davvero. Sì, magari possiamo essere talmente bravi da saperlo fare su commissione, così, in modo totalmente finto e insincero: tanti grandi artisti ne erano capaci. Ma per raggiungere quella capacità c’è bisogno di una dedizione assoluta; c’è bisogno che ogni segno, ogni parola fluisca in modo naturale, quasi automatico. C’è bisogno di una confidenza con le tecniche, con la pratica artistica, che si può raggiunge solo se si ha un interesse davvero forte. Non la si raggiunge col semplice senso del dovere.
Non è detto che agli artisti interessi ciò che è più giusto, più morale o più opportuno. Non è detto che lì stia la loro capacità. L’artista può essere un dandy solipsista, interessato solo a se stesso, un intellettuale da salotto o un monomaniaco delle foglie degli alberi. Ciò lo renderà meno amabile, forse, ma non meno artista. Lo sappiamo tutti cosa faceva Monet negli ultimi anni. Non era certo sulle barricate. Ma il punto è proprio questo. Le barricate muoiono, i fiori di Monet sono rimasti. E in fondo è tutto qui: l’arte, anche la più materialista, è un fatto mistico, è una fede nell’impossibile, perché nasce dal pregiudizio di poter abolire la Storia. L’arte è tale, come diceva Goethe, quando rimane nelle generazioni, für ewig, per sempre.
Se amiamo così tanto le barricate, allora possiamo dipingerle in maniera da farle rimanere in eterno. Ma se non le amiamo, se non ci importa, in fondo, e lo facciamo solo per senso del dovere, allora saremo retorici, riempiremo i cinema di spot alle elezioni del 2 giugno, faremo delle grandi letture di poesie contro il genocidio in Palestina al termine delle quali nessuno ricorderà alcuna poesia. Perché la cosa importante, ovviamente, è il genocidio, non la poesia.
E qui veniamo alla seconda parte del problema. Se fino ad adesso abbiamo parlato dell’arte dal punto di vista dell’artista, in realtà la questione si pone molto più dal punto di vista del fruitore. L’artista potrebbe essere chiunque, e può fare l’opera con qualunque intento, da sbronzo, da lucido, per gioco, pure per caso, magari. È anche per questo che un artista insincero può creare un’opera d’arte: perché siamo noi, che guardiamo e ascoltiamo, a conferirle questo status. E qui si apre una domanda interessante: in base a che cosa?
La serpe sguscia via un’altra volta. Dal canto suo, l’intellettuale che teme l’arte intimistica risponde sempre allo stesso modo: il tema. Se infatti l’arte non può essere intimistica, non può riguardare i fatti personali dell’autore, o l’amore, o i soliti sentimenti, perché ritenuti banali e triviali, a questo punto l’argomento diventa dirimente per la valutazione dell’opera. E così, di fatto, l’arte diventa un semplice mezzo, un veicolo per ciò che contiene. Ma allora torniamo al volantino, al trattato, all’arringa della folla.
Certo, magari lo farà in modo emotivo, ma a quel punto l’arte si trasforma in qualcosa di molto inquietante: in uno strumento di propaganda e controllo. Il trattato, infatti, non sarà emotivo, ma ha il pregio di dover essere preciso, circostanziato, scientifico. Se l’arte viene purgata da ogni intimismo, dal “principio del piacere”, per dirla con Adorno, finisce per essere come un trattato, ma più emotivo, rischiando di scadere in un discorso pubblicitario, che usa i sentimenti in modo strumentale, per rendersi più appetibile, per ammaliare, adescare.
L’arte, nella sua storia (anzi, nella storia e nelle storie delle arti, perché stiamo sempre parlando al singolare di arti differenti, che hanno avuto percorsi non sempre simili) non ha mai ricoperto un’unica funzione. È stata strumento di propaganda; è stata una semplice riproduzione della realtà, o, al contrario, una manifestazione dell’invisibile; è stata poi un modo di comunicazione di emozioni, e di ritualità religiosa e sacra. Ha svolto tanti compiti, e non si può sempre dire a priori quale sia quello più auspicabile, tracciando una linea netta tra l’uso e l’abuso. La Venere di Giorgione era la pura pornografia dell’epoca, e assolveva a uno scopo un filo imbarazzante; Fontana di Duchamp è un orinatoio che viene messo in un museo perché lo si possa ammirare. Sta a noi, a chi la fruisce, capire cosa vogliamo farcene.
Su questo, però, non penso che si debba avere un’opinione ecumenica: anche se non possiamo demarcare una linea netta, esistono comunque usi e abusi. La propaganda, il piccolo interesse di parte, la vuota retorica creeranno opere a forma di opera d’arte, che magari possono anche piacere molto, ma non cambiano la vita di nessuno. Quando cambierà il vento verranno sommerse, proprio come è accaduto al realismo sovietico. Così come un’arte che serva solo da intrattenimento, per riposarsi da una giornata di lavoro; l’arte che blandisce il suo pubblico, dicendoci solo ciò che vogliamo sentirci dire. Quell’arte lì dura poco. Un’arte, invece, che ci faccia capire meglio la realtà, che ci emozioni, facendoci vivere tante vite diverse, è l’arte che vorremmo davvero incontrare.
Ma questa è una possibilità che riservano non solo le opere di argomento impegnato, o “di ricerca”: anche il manga commerciale, anche l’arte più farfallinica e borghese può avere qualcosa che ci cambia la vita. E questo dovrebbe ricordarlo proprio Marx, che non solo utilizzò come base della propria filosofia il più reazionario dei filosofi di allora, Hegel, ma amava anche il borghesissimo Balzac, perché era stato in grado di aprirgli un mondo, di scolpirlo davanti ai suoi occhi.
L’artista, dunque, non può essere giudicato a priori sulla base di generi, temi, stili: può essere giudicato a posteriori; possiamo decidere che un’opera valga qualcosa e possa essere ricordata, così come possiamo rifiutarla e considerarla espressione del modello dominante della società, e la critica è importante, fondamentale, proprio perché dovrebbe definire dei criteri per poterlo fare.
Oggi viviamo invece in una realtà fortemente dicotomica, in cui una parte, la parte forse maggioritaria della società, crede che non vi sia un criterio di giudizio dell’opera, se non il “mi piace”, il giudizio emotivo più superficiale, che si trasforma in una grande omologazione: se tutto ha valore, allora niente ha valore. O ha valore semplicemente la somma dei “mi piace”, del successo che ottiene.
Ma la risposta non può essere un moralismo di ritorno, pure condotto con pretese progressiste e rivoluzionarie: il criterio non può essere l’adesione al proprio sistema di idee, che finisce per essere una nuova gabbia, una nuova imposizione da cui scappare. L’arte dovrebbe essere tutto il contrario dell’atto dovuto, dell’imperativo morale. Anche quando quell’imperativo morale è il nostro.
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In copertina: Alexander Rodchenko, Libri (Please)! in Tutti i campi della conoscenza, 1924, poster.