Marx e la dialettica: la logica formale è la fotografia

Karl Marx

La storia della dialettica è lunga e non proprio lineare. Da sempre il dialogo è parte fondamentale della filosofia: anzi, per molti versi possiamo dire che sia la base della filosofia, il suo stesso essere. Platone, come si sa, scriveva attraverso dialoghi; ma anche in epoca ben più recente Galileo ha scritto il suo trattato sul sistema tolemaico e aristotelico in forma di dialogo. Si potrebbe pensare dunque che la disciplina nata dal dialogo, la dialettica, appunto, sia da sempre una delle discipline fondanti della filosofia. Invece non è stato sempre così: la dialettica per molto tempo era una disciplina incentrata sull’uso del linguaggio e non sullo studio della realtà, e non ha goduto di piena legittimità filosofica fino a Settecento inoltrato. Per chi volesse approfondire, ne abbiamo parlato in questo articolo.

Sempre in quell’articolo, abbiamo visto come Kant, e poi Fichte, Hegel e Schelling abbiano sempre di più fatto coincidere lo studio del linguaggio con lo studio della realtà in sé, proponendo una sempre più marcata identificazione tra logica e ontologia. Si incomincia sempre di più a capire, infatti, che non è possibile parlare di una realtà esterna all’uomo senza interrogarsi su come l’uomo percepisce la realtà, e dunque è necessario ricondurre la realtà alle categorie del pensiero umano.

Solo che questo è molto complicato da giustificare: cosa vuol dire che il linguaggio e la realtà coincidono? L’idea delle filosofie post-kantiane è che esista tra le due questioni un rapporto, appunto, dialettico, di cui l’essere umano è il polo positivo, mentre la realtà è il negativo, è “l’altro da sé”, cioè l’alterità per eccellenza, ciò che noi, come specie umana, non siamo. E tra questi due poli vi è un processo di sintesi, in cui l’essere umano e la realtà si compenetrano. Ma cosa significhi questo momento di sintesi è tutt’altro che chiaro, ed è la ragione della grande diversità tra le filosofie dialettiche.

Tra queste vi è anche la filosofia di Marx, che, per riprendere le sue parole, ha «civettato qua e là» con il modo di esprimersi che era peculiare a Hegel[1]. Affermare la diretta filiazione dell’opera di Marx da quella di Hegel non è in realtà un’affermazione pacifica, e anzi, per molto tempo (complice anche l’impostazione marxista-leninista che da Stalin si è diffusa in modo massiccio) si è pensato a Marx come un filosofo molto diverso da Hegel, anzi, un demistificatore di Hegel, che sì ne deduceva alcuni aspetti, ma per ribaltarli in modo netto e senza appello. Sulla questione si sono sprecati i calamai, perché effettivamente Marx è sia figlio di Hegel sia suo grande critico, e vi sono buone ragioni sia per propendere alla tesi del parricidio, sia per ammettere che in realtà si trattò di un parricidio mancato.

Quella di Marx, infatti, è stata una riflessione in gran parte incompiuta, che avrebbe voluto essere sistematica ma che ha lasciato in realtà molte zone grigie, una gran quantità di appunti che sono stati catalogati e resi organici solo dopo la sua morte, per merito dell’amico Friedrich Engels. Quel che si può dire, però, è che Marx utilizza il linguaggio di Hegel, la sua impostazione, le sue premesse, ma le porta in una direzione completamente diversa rispetto a quanto il filosofo di Jena avrebbe voluto, o anche solo immaginato. Pezzo per pezzo, infatti, Marx smonta e rimonta la filosofia hegeliana, operando una vera e propria rivoluzione.

Marx

Per Hegel il fondamento dell’essere è il pensiero. C’è dunque piena identità tra logica e ontologia: il pensiero, lo Spirito, è ciò che infonde l’essere di senso e dunque di razionalità. Senza il pensiero non ci potrebbe essere realtà. E questo significa che la verità – «cioè Dio», come scrive – si trova sempre presso di noi: non va cercata nella realtà al di fuori dell’umano. Non c’è un nucleo inconoscibile del mondo, un noumeno, come pensava ancora Kant. Se la realtà è il pensiero, e il pensiero la realtà, nulla è davvero inconoscibile: c’è però un processo conoscitivo, un modo con cui l’uomo arriva a capire sempre meglio la realtà, dando ad essa senso e significato. Senza l’attività umana, il mondo non avrebbe senso: è perché esiste l’essere umano che possiamo pensare il mondo, e ogni significato che possiamo dare ad esso è un significato per noi, funzionale agli esseri umani.

La verità, dunque, è l’azione stessa del conoscere. È il pensiero che giunge a sempre maggiore comprensione della realtà, e dato che pensiero e realtà coincidono, è la realtà che arriva a comprendere sempre di più se stessa. Questo processo è il cammino dello Spirito che si snoda attraverso i secoli, in vari modi e secondo vari stadi: ogni stadio, per quanto incompleto, o del tutto errato è stato necessario affinché si preparassero nuovi stadi della conoscenza.

Il modo con cui Hegel imposta la questione è affascinante ma nello stesso tempo ambiguo. C’è infatti una tensione tra l’aspetto storico e quello logico della conoscenza: da un lato l’uomo conosce attraverso dei passi necessari – e dunque in un certo senso inevitabili; dall’altro la logica di questo processo segue la logica dialettica: l’uomo è la tesi, o meglio “l’in sé” cioè il punto di partenza, il fondamento della realtà; il mondo è la negazione dell’uomo, “l’altro da sé”, e dunque è il momento negativo.

Questo significa che il rapporto tra soggetto e oggetto è un’unità, ma un’unità “speculativa”. Il momento di sintesi tra le due parti si risolve nell’idea: nel concetto. È la realtà, come dicevamo, che arriva a pensare se stessa. Dunque, in altre parole, è l’idea che si sa come idea. Questo ha indubbiamente il pregio di eliminare qualsiasi realismo ingenuo, per cui esisterebbe una realtà esterna all’uomo, e dunque anche una scienza in grado di prescindere dal punto di vista umano, e indagare la realtà “così com’è”.

Però ha un prezzo altissimo, e cioè svilire ogni aspetto sensibile e pratico dell’attività umana. Se la realtà è il “momento negativo”, l’estrinsecazione dell’essere umano, allora questo significa che è solo un momento di passaggio da una logica a un altro tipo di logica. Per quanto possa essere importante nella riflessione hegeliana, l’attività pratica è sempre un’attività per il pensiero, un’attività che serve come stadio, come passaggio per una riunificazione che è però puramente intellettuale.

Karl Marx

L’Aufhebung, per come la descrive Hegel, è contraddittoria: è sì il processo storico dello Spirito, ma è anche una riunificazione intellettuale. Dato che si è fatto coincidere linguaggio e realtà, allora ci deve essere una sintesi: ma come poi concretamente, storicamente, praticamente si realizzi questa sintesi non è così chiaro.

Ed è qui che Marx interviene, iniziando a chiedersi come, storicamente, vi sia quel processo di conoscenza di cui parla Hegel, e recuperando alcune delle riflessioni di Feuerbach e dell’empirismo, e trovando che sia Hegel, sia questi ultimi hanno una visione della storia estremamente astratta. Cioè, si rende conto che, se guardiamo bene, l’Uomo non esiste: esistono gli uomini concreti, che vivono in società, tra l’altro diverse tra loro. E dunque, se vogliamo fondare storicamente l’idea di un cammino della conoscenza, non possiamo prescindere dallo studio concreto di queste società e dai bisogni materiali che queste società hanno avuto.

In altre parole, Marx si rende conto che il cammino verso la conoscenza non è un processo fine a se stesso, come è in Hegel, ma risponde a esigenze pratiche. Gli esseri umani non conoscono perché dentro di loro c’è lo Spirito che si deve autorealizzare, ma perché hanno fame, sete, hanno freddo, e dunque cercano soluzioni a questi problemi. E poi man mano che le società diventano più complesse questi bisogni aumentano, diventano anch’essi più complessi, meno elementari. E dunque si rende necessaria anche una sistematizzazione della conoscenza.

Anche per Marx, dunque, l’uomo è «misura di tutte le cose», per usare l’espressione del sofista greco Protagora. Alla spinta interiore di uno Spirito che si autorealizza, Marx oppone le esigenze materiali, pratiche, di soddisfare i propri bisogni. Esigenze che spingono l’uomo a reagire, e dunque a modificare la realtà, e dunque a ingegnarsi sempre di più e sempre meglio. L’uomo, in altre parole, è spinto a conoscere perché la realtà esterna lo influenza. Se la realtà esterna non fosse ostile, minacciosa e un pericolo costante per l’uomo, l’uomo non avrebbe desiderio di conoscenza.

Anche in Marx c’è quindi una dialettica tra realtà ed essere umano: la realtà influenza l’uomo, in quanto lo limita e lo costringe, ma d’altro canto anche l’uomo limita e costringe la realtà, facendola a sua misura. Ma, a differenza che in Hegel, questa continua dialettica non si risolve in un’Aufhebung metafisica, ma in un continuo rapporto storico, tra l’essere umano e ciò che lo circonda. La sintesi, in altre parole, non è mai definitiva: non si giunge mai a uno stadio di completo equilibrio: la realtà esterna porrà sempre all’uomo quesiti nuovi, e l’uomo troverà sempre nuove risposte, che porranno nuovi quesiti, e così via. Le contraddizioni non si sciolgono definitivamente, ma aprono a nuove contraddizioni.

Marx press

I mutamenti della storia umana, infatti, non sono totalmente arbitrari, casuali, come se fossero caduti dal cielo, ma dipendono dalla situazione concreta in cui gli uomini sono vissuti. Il contesto dato è sempre determinante: non tutte le società umane hanno fatto i medesimi passaggi e hanno avuto il medesimo sviluppo, per esempio. E, nello stesso tempo, le invenzioni che hanno avuto successo sono proprio quelle che hanno permesso di modificare meglio la realtà. Anche nell’antichità si conoscevano i principi che avrebbero permesso le macchine a vapore, ma in una società con gli schiavi la macchina a vapore come l’abbiamo conosciuta non venne in mente a nessuno: al massimo si aprivano le porte dei templi. È stata una società con tutt’altre caratteristiche che ha sfruttato principi noti da secoli per creare una macchina che potesse servire alle esigenze di quella data società. E lo fece conservando alcune caratteristiche del filatoio a mano, ma superandone i limiti. In questo senso c’è stata un’Aufhebung: si è superato lo strumento precedente, ma se ne sono conservate le funzioni.

È uguale in quanto è comunque un filatoio, ma è diverso. Non solo perché il funzionamento della macchina è differente, ma soprattutto perché ha aperto la strada dell’applicazione del vapore alla produzione, e come si sa da quel momento il mondo non è più stato lo stesso (la denominazione di “rivoluzione industriale” lo indica chiaramente). È e non-è al tempo stesso un filatoio.

E questo mostra come l’approccio marxiano riesca a «far camminare Hegel sulle gambe e non sulla testa», come ebbe a dire Engels in una lettera, e anche come riesca a farlo senza tornare alla vecchia logica aristotelica: la logica, formale, infatti, non è applicabile quando parliamo di mutamento. Ogni volta che inseriamo il fattore tempo in un giudizio, il principio di non-contraddizione diventa un problema. Come facciamo a dire di essere noi stessi anche se è passato del tempo? Il tavolo che ho davanti è sempre lo stesso tavolo? La logica formale è la fotografia. Scatta l’istante, il momento preciso. Ma per comprendere il mutamento c’è bisogno del cinema, cioè della logica dialettica: quella logica che tiene insieme gli opposti.

Quindi, tirando le fila del nostro discorso, Marx diviene importante non solo per il suo contributo all’economia e al pensiero politico europeo, ma anche per il suo contributo nel districare logica e ontologia. Il Marx filosofo, soprattutto nella vulgata, è passato in secondo piano rispetto al politico, al polemista, allo studioso di economia. Ma in realtà questi aspetti del pensiero marxiano sono sostenuti da un impianto filosofico complessivo, che è l’impianto della dialettica hegeliana, pur adattata a nuove esigenze.

Per Marx scienza e politica si permeano, si influenzano reciprocamente proprio perché le opposizioni che vediamo nella logica si riflettono nelle contraddizioni del reale, e queste contraddizioni a loro volta possono essere sciolte attraverso l’attività pratica. Ed è per questo che è importante riprendere oggi questa riflessione, in un mondo in cui sapere e attività pratica corrono su binari completamente differenti, e in cui c’è sempre meno fiducia nella cultura come strumento positivo, di risoluzione dei problemi individuali e della società.

Simone Coletto
Simone Coletto

Nato a Milano, classe 1993, laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia; lettore e appassionato di politica da sempre, ho avvicinato gli studi filosofici sui banchi del liceo (classico) e da lì ho compreso come questa disciplina dia ad ognuno la possibilità di capire e modificare il mondo.