Le grandi opere di fiction a cui siamo esposti da bambini o da adolescenti hanno un forte impatto sulla nostra vita, ci trasmettono valori e visioni del mondo che tendiamo a internalizzare e a portare con noi nell’età adulta. Ognuno ha (almeno) un film o un libro che l’ha cambiato profondamente e le grandi saghe narrative possono arrivare a definire un’intera generazione. La mia generazione, ad esempio, quella dei ragazzi cresciuti tra fine anni Novanta e primi anni Duemila, è stata fortemente segnata da storie portatrici di set di valori estremamente precisi, come i film della Disney e le avventure di Harry Potter. In Harry Potter, poi, questo diventa particolarmente evidente dal momento che l’autrice J. K. Rowling non si limita a parlare genericamente di valori positivi come amicizia ed empatia per il prossimo, ma si spinge fino a presentare una vera e propria idea politica, basata sulla critica del potere e della bigotteria, sull’anti-razzismo e l’anti-fascismo.
Ci sono autori di opere per ragazzi che utilizzano consapevolmente la narrativa come strumento per mettere in discussione lo status quo e riflettere sul mondo in cui viviamo. «La fantascienza non predice il futuro, descrive il presente», diceva Ursula Le Guin, una delle più importanti scrittrici di speculative fiction americane, che all’interno dei suoi romanzi fantasy o Sci-Fi affronta tematiche etiche e morali complesse da un punto di vista politico e femminista. Ma una Weltanschauung ben definita, e a volte piuttosto rivoluzionaria, può essere trovata all’interno di insospettabili opere pop. È di qualche giorno fa l’articolo pubblicato su NOT in cui Dario Bassani analizza la saga young-adult Animorphs, in cui cinque adolescenti di un sobborgo americano con il potere di trasformarsi in animali si ritrovano a combattere contro una razza di lumache aliene capaci di controllare la mente umana. All’interno dell’articolo, significativamente intitolato Resistenza postumana per adolescenti, l’autore riconduce alcune delle tematiche della serie a quelle affrontata nella riflessione di autori post-umanisti come Donna Haraway.
Rivolgere questo tipo di analisi su un prodotto come il franchise dei Pokémon può apparire inizialmente un’operazione frivola e fine a se stessa, un esercizio mentale puramente masturbatorio. Invece ci sono almeno tre punti per cui sono convinto che valga la pena dedicare un po’ di attenzione a questi simpatici mostriciattoli tascabili:
- Quello dei Pokémon è un fenomeno che ha avuto (e ha) impatto su grandissima scala. Qualunque persona della mia generazione, europea, sudamericana o indiana, riuscirebbe a riconoscere immediatamente un disegno di Pikachu, mascotte del franchise, anche prima della saetta di Harry Potter. Le immagini stile anime dei Pokémon sono impresse nella nostra mente come il logo della Coca-Cola o lo stemma sul petto di Superman.
- È di qualche mese fa la notizia che gli scienziati sarebbero riusciti ad individuare una “regione Pokémon” all’interno del cervello delle persone che hanno giocato molto a questo videogioco da bambini. Pare che quest’area della corteccia, legata anche al riconoscimento delle immagini di animali, si illumini nei giocatori di vecchia data esposti all’immagine di un mostriciattolo tascabile, mentre rimanga inattiva quando la stessa figura è mostrata ad una persona che ha iniziato a giocare in tempi più recenti. Si tratta della dimostrazione neuroscientifica di quanto dicevamo poco fa: i prodotti culturali a cui siamo esposti nell’infanzia e nell’adolescenza segnano profondamente la nostra visione della realtà, arrivando addirittura a modificare le strutture neuronali.
- Il 15 novembre è la data ufficiale di uscita del nuovo gioco Pokémon: Pokémon Spada e Scudo. Il videogame presenta l’ottava generazione di mostri tascabili, a dimostrazione che il brand, a 23 anni di distanza dal primo titolo della serie, gode di ottima salute ed è ancora in grado di rinnovarsi. Grazie a nuovi videogiochi, come Pokémon Spada e Scudo appunto, ma anche la versione per smart-phone Pokémon Go e quella picchiaduro Pokkén Tournament, attraverso anime, manga e film, come il recente Detective Pikachu, è probabile che le nuove generazioni continueranno ad entrare in contatto con il mondo dei Pokémon ancora per molto tempo.
Non resta che chiederci: quale visione del mondo ci racconta il franchise dei Pokémon?
Innanzitutto una premessa. Il brand Pokémon esiste in moltissime emanazioni, dai videogiochi ai giochi di carte collezionabili, dai cartoni animati ai peluche, e tra di esse le differenze possono essere notevoli sia per quanto riguarda la struttura specifica del medium che la costruzione del mondo, della storia e dei personaggi. Se vogliamo parlare della Weltanschauung del mondo Pokémon dobbiamo quindi esplicitare sempre a quale prodotto culturale ci riferiamo.
Se ad esempio prendiamo in considerazione i videogiochi, non possiamo non considerare alcune particolarità di questo medium. Il mondo all’interno di un videogioco è, per definizione, digitalizzato: l’immagine di ogni personaggio è resa attraverso un numero preciso di pixel ed ogni suo attributo è espresso da un valore numerico, come si può vedere bene dalla barra della salute, che indica l’energia rimasta a un Pokémon prima di essere esausto e doversi ritirare dalla battaglia. Se nei primi titoli della serie la varietà di questi parametri era piuttosto limitata, con il tempo il livello di complessità è notevolmente aumentato. I Pokémon non sono definiti solamente dalla specie di appartenenza e dal set di mosse che possono usare in battaglia: ogni individuo ha una o più abilità, una “natura” (ardita, schiva, audace, birbona, allegra…), un genere (esistono anche Pokémon asessuati), valori individuali nascosti (i famosi IV)… Tutte queste caratteristiche influenzano non solo la performance del Pokémon in battaglia, ma addirittura il suo comportamento e cibo preferito! Ogni Pokémon è davvero unico e i giocatori più esperti sanno che possono volerci parecchie ore di gioco prima di riuscire ad ottenere l’esemplare desiderato tramite cattura allo stato brado o allevamento.
Questo meccanismo di “datificazione”, cioè di traduzione di caratteristiche naturali in una serie di parametri oggettivi, è lo stesso che autori come Rosi Braidotti rimproverano al sistema capitalista. Il capitalismo trasforma ogni essere, animato o inanimato, in risorsa e ogni risorsa in dato, per poterlo meglio controllare e gestire. Un gregge di pecore è così tradotto nel numero di capi di bestiame che lo compone, nella quantità di lana che può produrre in un dato periodo di tempo, nei chili di foraggio necessari per sfamarlo. In definitiva, per una multinazionale un gregge di pecore non è altro che una serie di numeri su una tabella Excel. La decodifica del DNA ha portato a compimento il processo di datificazione degli esseri viventi: leggendo una stringa di codice un genetista può sapere quanto un certo individuo sarà utile al sistema produttivo ancora prima della sua nascita. È esattamente quello che fa ogni giocatore di Pokémon quando controlla gli IV del mostriciattolo appena catturato. Non solo: proprio come per il DNA degli esseri viventi, i parametri di gioco dei Pokémon possono essere trasmessi dai genitori alla prole attraverso il sistema dell’allevamento cosicché, tramite accoppiamenti consecutivi, il giocatore può arrivare ad ottenere l’esemplare perfetto.
«Il capitalismo non ha un regime ecologico, ma è un regime ecologico, cioè un modo specifico di organizzare la natura». Le parole di Jason W. Moore funzionano perfettamente nel contesto del game design di un videogioco come i titoli della serie principale di Pokémon, in cui ecosistemi complessi sono progettati a tavolino. Proprio come un esploratore di epoca imperiale, l’allenatore Pokémon ha il compito di spingersi in territori inesplorati per collezionare esemplari di ogni specie che popola il mondo di gioco. Man mano che il giocatore avanza nella sua avventura, le nuove zone visitate appaiono sulla mappa e, ogni volta in cui un nuovo Pokémon viene catturato, i suoi dati sono automaticamente registrati nel Pokédex, una sorta di enciclopedia illustrata. Gran parte del fascino di questi giochi sta proprio nel gusto della scoperta, nello svelare il grande disegno di un architetto che non è, come per i colonizzatori di epoca vittoriana, un Dio demiurgo, ma il team degli sviluppatori del gioco.
I sistemi ecologici progettati per il mondo Pokémon sono estremamente complessi. Ogni titolo della saga principale è ambientato in una diversa regione geografica che richiama un’area reale del nostro pianeta: i primi titoli della serie si rifanno a regioni del Giappone (Kanto, Johto…), quelli successivi, invece, hanno iniziato ad essere ispirati a zone più remote e variegate come gli Stati Uniti, la Francia o le Hawaii. Ogni regione è suddivisa a sua volta in ambienti con caratteristiche differenti e che ospitano diverse specie di Pokémon. I Pokémon di tipo “coleottero” (cioè simili ad insetti) e di tipo “erba” (con caratteristiche del mondo vegetale, ad esempio la capacità di fare la fotosintesi) vivono nelle grandi foreste, quelli di tipo “ghiaccio” sulle montagne innevate, quelli di tipo “acqua” in prossimità di laghi e fiumi e così via. Pokémon di una stessa specie possono presentare vistose differenze in base al sesso o alla regione di origine.
Molti Pokémon sono ispirati a specie animali del nostro mondo, ma non solo. Rispetto alla cultura occidentale, quella giapponese utilizza confini molto più labili per definire il dominio della Natura. Nello Shintoismo tutto ha un’anima e per questo esseri umani, piante, animali e addirittura spiriti e oggetti fanno parte dello stesso ordine naturale. Questa differenza si riflette anche nell’arte tradizionale giapponese: se l’umanesimo occidentale ha inventato la gabbia prospettica, un sistema che mette al centro della raffigurazione un soggetto (solitamente una figura umana) che spicca sull’ambiente circostante, nelle stampe giapponesi di artisti come Kuniyoshi tutte le figure sono appiattite sulle due dimensioni. In questo modo gli eroi delle leggende illustrate, i mostri che questi affrontano e addirittura gli elementi naturali del paesaggio circostante vengono posti sullo stesso piano.
La tradizione shintoista vuole che animali comuni come gatti e volpi possano sviluppare poteri sovrannaturali quando raggiungono una certa età, e alcuni possono addirittura trasformarsi in divinità, come la volpe (Kitsune) a nove code, a cui è ispirato il Pokémon Ninetales. Anche gli oggetti possono sviluppare uno spirito e prendere vita se vengono utilizzati per almeno 100 anni, e così si spiegano Pokémon come Klefki, un mazzo di chiavi volanti di tipo acciaio/folletto, o Chandelure, un candelabro animato di tipo spettro/fuoco.
Ricordo che da bambino ero particolarmente infastidito dalla presenza in natura di Pokémon che, ai miei occhi, apparivano non-naturali. Magnemite è un piccolo Pokémon simile ad un robot e il suo tipo è infatti acciaio/elettro. Con il tempo ho capito che se nella tradizione animista shintoista è possibile che perfino un ombrello sviluppi una coscienza e, trasformato in yokai, se ne vada in giro a saltellare su un piede, a maggior ragione ha senso che anche un essere costruito dagli uomini come un robot o un’intelligenza artificiale sia considerato una creatura senziente. Del resto è noto che la relazione uomo-macchina è molto differente tra occidente e Giappone: per un giapponese non è affatto strano pensare di adottare un cucciolo robotico anziché un cane in carne ed ossa, ma ai robot in Giappone è addirittura affidato il compito di accudire gli anziani, di ricevere gli ospiti in un hotel o di recitare le preghiere quotidiane all’interno dei cimiteri. Anche questo è il frutto di una diversa visione del mondo.
Proprio come accade negli ecosistemi del nostro mondo, i Pokémon instaurano relazioni complesse con l’ambiente, con altri membri della stessa specie, con Pokémon di specie differenti e con gli esseri umani. Pidgey è un piccolo Pokémon simile ad un uccello e molto diffuso nella regione di Kanto. Pidgey non si trova però mai nello stesso territorio di un altro Pokémon-uccello decisamente più aggressivo: Spearow. Queste due specie sono in competizione tra loro, occupano infatti la stessa nicchia ecologica e lottano per le stesse risorse. Tuttavia esistono rare zone di convivenza tra Pidgey e Spearow: immancabilmente in questi casi è presente nello stesso territorio anche un altro Pokémon, Mankey. Mankey è simile ad una scimmia e, come Spearow, ha un’indole molto aggressiva, appartiene infatti al tipo “lotta”. Nei territori occupati dai Mankey gli Spearow sembrerebbero troppo impegnati a lottare con questi Pokémon per badare ai più docili Pidgey e per questo motivo le tre specie possono essere trovate assieme. Ovviamente anche queste relazioni interspecifiche presentate come “naturali” all’interno del mondo Pokémon sono progettate a tavolino dagli sviluppatori del gioco e, proprio come i bestiari medievali, diventano metafora delle abitudini e delle relazioni tra esseri umani.
Nonostante un impianto generale che riconduce immediatamente ad un modello capitalista e nonostante una forte componente agonistica (lo scopo ultimo del giocatore è battere la Lega e diventare il migliore allenatore della regione), i giochi della serie principale introducono un aspetto sentimentale nella relazione tra umani e Pokémon fin dai primissimi titoli. Non si parla mai di “padrone”, ma di allenatore: nell’immaginario dei giochi, dopo che il mostriciattolo è stato catturato, lui ed il suo umano diventano compagni inseparabili che viaggiano, crescono e diventano più forti assieme. Questo rapporto viene approfondito ulteriormente nella serie animata in cui la relazione Pokémon-umano prende i connotati di una vera e propria amicizia. Basti pensare al rapporto tra Ash e Pikachu (ma anche altri Pokémon che nella prima serie animata diventano veri e propri personaggi, come Charizard o Butterfree) o a Meowth, Pokémon che impara addirittura a parlare e a muoversi come un essere umano. Le associazioni che vogliono sfruttare i Pokémon per il proprio profitto come il Team Rocket sono i cattivi della storia.
L’empatia caratterizza la relazione di qualunque (buon) allenatore con il suo Pokémon. Questo elemento potrebbe apparire scontato in una serie per tanti aspetti analoga come Digimon, in cui i mostriciattoli sono dotati di parola, quindi di agency, e in cui ad ogni personaggio umano è associato un solo compagno Digimon per tutta la vita, che rappresenta un’estensione della sua personalità un po’ come i Daimon della saga di Philip Pullman. Meno scontato per Pokémon, dove quello dell’allenatore è un vero e proprio mestiere e lo scopo del protagonista è diventare “the very best”, come recita la sigla inglese del cartone. Grazie all’empatia i Pokémon non sono mai rappresentati come semplici armi da combattimento, anzi, solo l’allenatore che dimostra un sincero amore per il mondo dei Pokémon (che poi è il mondo che ci circonda, con il suo fascino e i suoi misteri) riuscirà a fare esprimere il massimo potenziale ai suoi amici tascabili.
Tuttavia, la relazione tra umani e Pokémon mantiene sempre un velo di mistero. Alcuni particolari probabilmente non erano stati approfonditi sufficientemente nei primissimi titoli, oppure sono stati edulcorati successivamente per renderli più digeribili da un pubblico giovane e occidentale. Benché esistano Pokémon simili a mucche o maiali allevati in vere e proprie fattorie, non viene mai fatto cenno all’abitudine di mangiare carne di Pokémon e i personaggi della serie animata, almeno dopo i primi episodi, paiono seguire una dieta strettamente vegetariana. Gli stessi Pokémon in cattività paiono nutrirsi solo di bacche, anche quelli apparentemente più feroci.
Sappiamo per certo che in epoche passate rispetto a quella della storia del gioco i Pokémon erano usati come armi in guerra. Alcune caratteristiche farebbero pensare ad animali geneticamente modificati per l’industria bellica, come ad esempio i cannoni sulle spalle di Blastoise o il bulbo sulla schiena di Bulbasaur. Se la voce del Pokédex dedicata a Bulbasaur nel primo titolo della serie recita “Un seme raro gli è stato piantato sulla schiena alla nascita. La pianta sboccia e cresce con lui”, non viene mai chiarito chi abbia impiantato quel seme sul Pokémon, né come si presenti Bulbasaur in natura. Sappiamo che i Pokémon esistono fin dall’antichità (è possibile trovare i loro fossili in tutti i giochi della serie) e, con il passare delle generazioni, sono stati introdotti Pokémon leggendari con il potere di controllare il tempo e lo spazio che parrebbero avere dato forma al mondo Pokémon come lo conosciamo. Eppure dagli ultimi giochi è emerso chiaramente che nell’universo Pokémon esistono più mondi paralleli, e alcuni mostri denominati Ultracreature arrivano proprio da queste dimensioni alternative. Quindi, se anche il dio Pokémon Archeus ha creato un mondo Pokémon, come vuole la mitologia dei giochi della serie, non è affatto detto che li abbia creati tutti. E comunque, chi ha creato Archeus in primo luogo?
L’ambientazione del mondo Pokémon è estremamente ricca di leggende, teorie e citazioni. Il punto di riferimento per la community italiana (e non solo) da questo punto di vista è il canale YouTube Pokémon Millenium che, all’interno di video come quelli della playlist Pokémitologia, sviscera ciò che nel mondo dei videogiochi viene definito lore, cioè tutti quegli elementi che danno consistenza all’ambientazione di un mondo immaginato. Nell’analisi di un videogioco, però bisogna prendere in considerazione anche il gameplay, le “regole del gioco”, che diventano poi le leggi su cui quel mondo si poggia. Se leggiamo un romanzo fantasy come Il signore degli anelli tendiamo a dare per scontato che tutto ciò che non è espressamente indicato diversamente funzioni come nel nostro mondo. Cambiano l’epoca storica, gli usi e i costumi, l’organizzazione della società, ma le leggi della fisica, come la forza di gravità, sono le stesse del nostro universo. In un videogioco questo non può essere dato per scontato: il moto dei corpi nello spazio non è governato da leggi di natura, ma da complessi algoritmi creati dall’uomo. Per questo se cambia il gameplay, anche se l’ambientazione può sembrare a prima vista invariata, cambia profondamente anche la Weltanschauung del gioco.
Finora abbiamo parlato dei videogiochi della saga principale, quelli sviluppati per piattaforma Nintendo. Nel 2016 The Pokémon Company, in collaborazione con la statunitense Niantic, ha lanciato il gioco per smart-phone Pokémon Go con il quale, grazie al traino della nostalgia anni Novanta, molte persone in tutto il mondo si sono riavvicinate al brand Pokémon, che fino ad allora sembrava ormai rilegato a una lontana infanzia. Benché la Niantic abbia fatto un ottimo lavoro nel rendere i mostriciattoli di un tempo attraverso i nuovi modelli 3D, è il gameplay ad essere completamente differente, e anche per questo tanti giocatori che avevano scaricato Pokémon Go sull’onda dell’entusiasmo dei primi giorni hanno poi smesso di giocarci.
Per un’analisi con alcuni spunti interessanti sulla filosofia del gameplay di Pokémon Go e su come questo porti i giocatori a ridefinire lo spazio e l’attività del passeggio attraverso la realtà aumentata, rimando a questo interessante video di Wisecrack. Ciò che appare evidente è che qui, rispetto ai giochi originali, il meccanismo capitalista di conquista e cattura viene ulteriormente accelerato. Nei giochi della serie principale, l’allenatore crea la sua squadra di sei Pokémon, di cui spesso uno è il primo mostriciattolo ricevuto all’inizio del gioco (detto starter), e svolge tutta l’avventura in compagnia di questo team con poche, spesso sofferte, variazioni. Man mano che la storia procede, i Pokémon si evolvono ed acquistano forza e nuove abilità. In Pokémon Go, al contrario, è l’allenatore a salire di livello, non i Pokémon. Il modo per rendere un mostriciattolo più forte non è combattere insieme contro un altro allenatore ma… catturare più Pokémon. Ad ogni nuova cattura il giocatore riceverà alcune “caramelle” legate a quella specie che, se date da mangiare a un esemplare, lo renderanno più forte. Per questo ci si trova spesso l’archivio intasato di Pokémon inutili, che non si vogliono tenere: l’unica soluzione è trasferirli nel laboratorio del Professor Willow, che in cambio ci darà un’altra caramella. La prima immagine che mi è venuta in mente giocando a Pokémon Go è stata quella di una serie sterminata di Magikarp infilata in un grande tritacarne per essere macinati e trasformati in caramelle con cui ottenere, finalmente, un Gyarados.
Il giocatore si muove da solo sulla mappa e i Pokémon sono immagazzinati in un archivio virtuale non meglio localizzato. È possibile lasciare un Pokémon a combattere, da solo, all’interno di una palestra e, quando questo verrà sconfitto, tornerà nel nostro archivio con una ricompensa in monete proporzionale al tempo trascorso prima di essere scacciato via. Questo meccanismo, unito al fatto che non esiste una trama vera e propria, rende la creazione di un legame affettivo con il proprio Pokémon impossibile. Qualcosa di inconcepibile per chiunque abbia giocato ai titoli per Game-Boy Color e che ancora oggi, a distanza di una ventina di anni, saprebbe dire con certezza se la prima volta che ha giocato ha scelto Bulbasaur, Charmander o Squirtle. La scelta più difficile che ricordo di avere preso nella mia infanzia.