Anche del filosofo Immanuel Kant, come abbiamo visto per Hume, è difficile dare una descrizione esauriente, tanto è vasta la sua riflessione e la sua influenza nel panorama filosofico e nella realtà. C’è però, anche qui, un perno su cui il pensiero di Kant ruota, e da cui possiamo partire per darne un breve affresco: la soggettività, la centralità del soggetto, inteso non come individuo, essere umano singolo, ma come facoltà intellettiva di tutto l’essere umano. È dall’intelletto che bisogna partire, se si vuole capire la realtà.
Infatti, volendo racchiudere il senso del progetto kantiano in una battuta, si potrebbe dire che egli cerca di fondare soggettivamente l’oggettività della conoscenza. Vediamo qui, in questa definizione, che speriamo si chiarirà nel corso dell’articolo, una somiglianza con Hume: anche per Kant, infatti, è necessario partire dall’essere umano, dalla sua attività cosciente, per poter indagare il mondo. Ancora una volta si tratta di una questione di prospettiva: gli esseri umani analizzano la realtà sempre a partire dalla propria condizione, e questa condizione influenza la loro stessa analisi. Ma (e qui sta la grande differenza rispetto a Hume) per Kant è altrettanto necessario costruire un sapere che sia oggettivo, che sia reale, che sia vero. Ci troviamo davanti alla medesima domanda: cosa garantisce la verità di un pensiero?
Per tenere insieme soggetto e oggetto è necessaria una visione d’insieme, un sistema filosofico che da un lato comprenda i limiti dell’intelletto e le sue peculiarità, ma dall’altro abbia una profonda fiducia nella razionalità del reale, e dunque alla possibilità di una sua esaustiva organizzazione razionale. Come si esprimerà Hegel, «il reale è razionale e il razionale è reale». Questa affermazione non è tanto frutto di uno smaccato ottimismo metafisico, quanto piuttosto la convinzione profonda che la condizione di possibilità essenziale per una comprensione del reale sia la sostanziale razionalità del mondo. In altre parole: se il mondo non fosse razionale non sarebbe possibile parlarne razionalmente e, poiché non esiste altra forma di sapere che non sia razionale, non sarebbe possibile conoscerlo.
Ma cosa significa conoscere il mondo? O meglio, cosa significa formulare una conoscenza oggettiva del mondo? Abbiamo detto che Kant tenta di fondare soggettivamente l’oggettività. Questo fine ossimorico poggia le proprie pretese sulla peculiare concezione del processo conoscitivo che ha Kant.
Innanzitutto, per Kant la questione non si riduce al tentativo di ripercorrere fisiologicamente il processo cognitivo che guida l’uomo a formulare delle conoscenze sul mondo. Infatti, chi ha provato a percorrere questa strada si era trovato in un impasse: da un lato i sostenitori dell’innatismo, cioè l’esistenza di idee innate presenti nella mente umana (Cartesio, per esempio); dall’altro i sostenitori dell’esperienza come unico fondamento del conoscere (Locke e Hobbes, o lo stesso Hume, per quanto in modo diverso).
Questo impasse suggerisce a Kant una strada diversa: invece di indagare il processo conoscitivo in sé, Kant si sofferma sui limiti della conoscenza, per poi provare a comprendere cosa sia la conoscenza stessa. Innanzitutto Kant si accorge che il nostro rapporto col mondo non è un rapporto immediato.
Quando noi tendiamo verso la realtà che ci circonda (un tendere conoscitivo e pratico), non partiamo mai da una situazione in cui siamo una tabula rasa che progressivamente si riempie, come invece sosteneva Locke: Esistono invece delle condizioni di possibilità che mediano la nostra relazione con il mondo, e fanno sì che questa sia di un certo tipo e non di un altro. Tali condizioni non sono proprie solo del soggetto individuale (non sono “private”), ma universalmente valide, necessarie. Ma perché sia possibile attribuire loro il carattere di universalità e di necessità, ragiona Kant, è di fondamentale importanza evitare un duplice errore. Da una parte pretendere di individuare condizioni di possibilità materiali, o idee innate; dall’altro sperare di dedurre tali condizioni dall’esperienza.
Dovranno essere dunque condizioni formali, cioè in grado di dare “forma” alla nostra relazione con il mondo. Per essere universali e necessarie, però, dovranno essere a priori. Basta una scorsa all’indice dell’opera dedicata a questo tema (la Critica della ragion pura) per rendersi conto di quanta attenzione l’autore dedica all’indagine di queste peculiari “funzioni” dell’uomo: delle due sezioni (“Dottrina trascendentale degli elementi” e “Dottrina trascendentale del metodo”) la prima, di gran lunga più ponderosa, è occupata unicamente da questa questione.
Ma cosa sono queste condizioni di possibilità dell’esperienza?
Kant le distingue in virtù della loro funzione nel processo conoscitivo: nel caso della sensibilità egli le chiama “forme a priori dello spazio e del tempo”, nel caso della logica (cioè la capacità di formulare giudizi, proposizioni del tipo «S è P», «Il gatto del vicino è marrone») “forme a priori dell’intelletto” o “categorie”.
Nomi astrusi, non c’è dubbio. Intanto: cosa vuol dire “a priori”? Poi, perché spazio e tempo dovrebbero essere “forme”? E infine, cosa intendiamo per “categorie”? La risposta a questi quesiti fornisce la spiegazione alla definizione ossimorica del progetto kantiano. Quel che Kant tenta di dirci è che ogni essere umano, quando si relaziona con il mondo, lo fa schermando l’immensa quantità di dati dell’esperienza attraverso due tipologie di “filtri”.
Questi filtri non li impara dall’esperienza stessa (altrimenti sarebbe chiaramente un circolo vizioso: ciò che deve essere filtrato, fornirebbe gli strumenti per essere filtrato), ma li possiede come potenzialità innata (potenzialità! non idea, quindi sostanza), appunto “a priori” rispetto a ogni esperienza. Noi conosciamo l’esistenza e la funzione di tali forme pure non a partire dall’esperienza ma riflettendo sul nostro stesso processo conoscitivo.
Ora, se queste forme a priori di ogni esperienza non ci fossero, l’esperienza stessa sarebbe un ammasso caotico di dati. Ma così evidentemente non è. Quando noi guardiamo la stanza in cui siamo riconosciamo un certo numero di oggetti, che hanno una certa disposizione reciproca e di cui possiamo enunciarne le qualità e i rapporti («Quel tavolo è marrone», «Se il vaso cade si rompe», ecc.).
Questa nostra capacità non è frutto di una semplice relazione con le cose, ma è possibile solo in virtù di una capacità pregressa che non impariamo ma che tuttavia abbiamo: quella di ordinare gli oggetti dell’esperienza secondo modalità spazio-temporali per poi enunciare proprietà secondo modalità proprie del giudizio umano. Non solo, questa capacità è individuale e tuttavia universale. È possibile solo a partire dal soggetto, ma tutti i soggetti hanno la stessa capacità.
Ecco perché fondazione soggettiva dell’oggettività! Perché il punto di partenza è il soggetto con le sue forme a priori, ma tutti i soggetti hanno le medesime forme e dunque ognuno, quando è in grado di fornire prove valide per tutti (quando “esibisce giudizi pubblici”), può formulare un sapere che non è semplice credenza, ma sicura e oggettiva conoscenza.
C’è però un limite, ci dice Kant. Nessuna conoscenza, poiché si rivolge alle cose che ci appaiono (ai fenomeni), può prescindere dall’esperienza. In altre parole le forme a priori, in quanto forme e non sostanze (in questo caso idee a priori) vanno riempite di contenuto e questo lo può dare solo la «sensata esperienza».
Dio, l’anima, l’infinità o eternità del mondo, insomma la metafisica, sono un terreno che non si può esplorare conoscitivamente e che, qualora si pretendesse di indagare, porterebbe a errori e mistificazioni (quelle che Kant chiama “idee della ragione”, che nel suo linguaggio significa: ipotesi arbitrarie che non possono trasformarsi in conoscenza oggettiva, ma la cui unica funzione è di essere dei postulati necessari all’agire morale dell’uomo).
Non c’è qui dunque fondazione possibile: il conoscibile è l’isola su cui siamo confinati, circondati dal mare della metafisica.
Questa terra è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. E la terra della verità (nome allettatore!), circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo.
(I. Kant, Critica della ragion pura, p. 199, Laterza, 2005).
Particolare della Carta marina di Olao Magno, redatta nel 1539. Si tratta della prima carta raffigurante nel dettaglio la Scandinavia, e mostra diversi mostri marini e altre creature irrazionali.