«Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel migliore dei mondi possibili: infatti se voi non foste stato cacciato da un bel castello a calci nel sedere per amore della signorina Cunegonda, se l’Inquisizione non vi avesse preso, se non aveste percorso l’America a piedi, se non aveste infilzato il barone, se non aveste perso tutti i vostri montoni del buon paese di El Dorado, ora non sareste qui a mangiare cedri canditi e pistacchi»- È giusto, rispose Candido, ma ora bisogna soltanto pensare a coltivare il nostro piccolo giardino[1].
Nell’universo delle possibilità che la vita ci riserva, si finisce quasi sempre con lo scegliere ciò che delimita in maniera sicura l’incertezza dilagante. La si può chiamare routine o abitudine, non muta comunque il concetto che associamo spesso la tranquillità a quello che conosciamo, tutto il resto è un pozzo sprofondato in un burrone di sabbie mobili.
Questa constatazione è il messaggio che possiamo ricavare dal racconto filosofico Candido o l’Ottimismo di Voltaire. In una manciata di pagine Candido – il giovane protagonista – passa da una pedata nel sedere in un castello della Westfalia, scacciato dal Barone per traffici illeciti di organi riproduttivi con sua figlia, sino ad El Dorado e addirittura finisce immischiato in un autodafé[2].
Le vicende continuano e ad un certo punto non puoi far altro che chiederti con insistenza il perché di tutti questi problemi in giro per il mondo; quando poi capisci che la ragione di facciata è ritrovare la principessa per cui Candido era stato cacciato dal castello, quella stessa ragazza che durante un assedio dei Bulgari a Westfalia era stata violentata e poi uccisa (Voltaire è peggio dello screen-writer della Vita segreta di una teenager americana), ti viene voglia di entrare dentro al libretto e strangolare Candido con la parrucca di Luigi XIV. Sì, perché in realtà la ragazza è sopravvissuta. Così, senza nessuna ragione plausibile.
Il messaggio di fondo, però, non tarda ad entrare in testa del lettore e di Candido (ormai di nome e di fatto), complice anche il migliaio di volte con cui viene ripetuto: questo in cui viviamo non può che essere “il migliore dei mondi possibili”. E in testa incominci a pensare: ma come, proprio tu, Candido, a cui capitano le peggio cose? No, in realtà questo concetto, ripreso dal filosofo Leibniz[3] è via via penetrato nel subconscio del ragazzo grazie alle prediche del suo maestro di filosofia, tale Pangloss.
Candido parte dunque per il mondo verificando sotto la penna ironica di Voltaire come questo concetto sia intrinsecamente sbagliato; un ottimismo così forte è intollerabile. Per intenderci: nel volumetto si parte da una profonda fede cristiana[4] per constatare un disegno divino perfetto e invalicabile. Il migliore dei mondi possibili, per l’appunto: tutto è come Dio ha stabilito dover essere e niente potrebbe mai risultare migliore. Compresi Barbara D’Urso e il filtro Nashville su Instagram.
Ma (e converrete anche voi nel non biasimare Candido) i dubbi non possono che affiorare sulla superficie della mente del ragazzo, facendo tremare le certezze metafisiche come piccoli cerchi sul pelo dell’acqua mossa. Tralasciando la maggior parte delle questioni – che sono tante – un passaggio in particolare dell’opera mi ha colpito molto. È questo:
Candido guarì. E durante la convalescenza ebbe sempre a cena un’ottima compagnia. Si giocava forte. Candido era meravigliatissimo che gli assi non gli capitassero mai; Martino, invece, non se ne meravigliava[5].
Martino è un manicheo che Candido incontra durante una delle molte peripezie. I Manichei sono i professori di una religione dualista fondata sull’alternanza tra Luce e Tenebra, bene e male. Egli, inoltre, crede profondamente nell’imprevedibilità della vita, in quell’eccesso di inaspettata sorpresa che è la quotidianità. Candido rimane invece interdetto ad ogni schianto che sconvolge la sua esistenza, succube di una filosofia giustificazionista e sterile, complice di quell’insana tranquillità nella routine che colpisce anche i giorni nostri. Ho interpretato così gli Assi, le poche cose che davvero possono cambiare gli eventi in una partita (per estensione, quindi, in una vita). Nell’insieme uguale delle carte che si ripetono all’interno d’un mazzo, questi sono unici, preziosi.
Proprio per il fatto di essere così limitati nel numero, sono molto importanti e non vanno mai sprecati. E l’uomo che, come Candido, non fa altro che rimuginare sulla staticità dell’esistenza è un uomo di periferia, un uomo che ha perso il centro dell’Universo. Lo stesso principio era avvenuto con la rivoluzione copernicana, con cui la Terra cessava di essere al centro del sistema solare a scapito del Sole e l’antropocentrismo diveniva una realtà messa a soqquadro. Voltaire, uno dei massimi pensatori dell’Illuminismo e della storia dell’umanità, sa quanto è importante ridimensionare il campo di battaglia dopo una sconfitta: ci si ritira in silenzio e si curano i feriti.
Così l’uomo: la ragione è l’ultimo barlume con cui restituire dignità all’uomo. Le filosofie dello stampo di Leibniz sono errate. Bisogna dunque raccogliersi tra pochi intimi e curare la propria felicità, che è dello spirito quanto dell’anima. Eccoci tornati al piccolo giardino a cui allude Candido nel brano di apertura. Alla fine, anche il povero ragazzo riesce a raggiungere la sua verità. Bravo bagai.
Tirando le somme, Candido è un librettino da leggere in un’oretta libera, sorridendo amareggiati con il giovane protagonista, scoprendo che la filosofia non sempre aiuta a comprendere la realtà. A volte la complica semplicemente analizzandola[6]
La forza di questo Candido o l’ottimismo, comunque, sta nel riuscire a smuovere gli ingranaggi della mente anche in quelle persone a cui la filosofia, come olio, non ha mai lubrificato nulla. O forse solo il didietro del professore di filosofia, per unirlo in connubio col librone di Platone & Company prima di un’interrogazione, nelle più cattive e disperate fantasie degli studenti.
In copertina: Nicolas de Largillière, Ritratto di Voltaire, c. 1724