the book of souls

Iron Maiden, The Book Of Souls: il ritorno della “Vergine di Ferro”

Voglio essere sincero con tutti voi: quando mi è stato chiesto di scrivere questo articolo il mio cuore ha avuto un sussulto di gioia in quanto, tra centinaia di recensioni e critiche sparse in giro per il web, avevo finalmente la possibilità di esprimere le mie considerazioni e di metterle nero su bianco.

Col senno di poi, ho rivalutato la mia posizione chiedendomi come potesse uno come me, cresciuto a pane e Iron Maiden, che ha preso la sua prima chitarra in mano all’età di 13 anni col sogno di emulare due dei più grandi chitarristi che l’heavy metal possa vantare, esprimere un giudizio sul loro ultimo lavoro senza peccare di troppa faziosità. Pertanto, non posso promettervi di consegnarvi un punto di vista neutrale sull’argomento ma cercherò, quanto meno, di dare un freno all’immenso amore che provo nei confronti di questa grande band londinese che ci dimostra, ancora una volta, che l’esperienza è il miglior carburante per la creatività.

The Book Of Souls, sedicesimo album in studio degli Iron Maiden, esce in tutto il mondo il 1° Settembre 2015 a cinque anni di distanza dal loro precedente The Final Frontier e si rivela essere, probabilmente, uno dei dischi più pretenziosi, sperimentali e, sicuramente,  meno immeditati di tutta la loro discografia nonché il più atteso dai fan a causa di un rimando dovuto ai problemi di salute del cantante, Bruce Dickinson, affetto da un cancro all’esofago dal quale sembra, in virtù delle alte tonalità toccate in alcuni dei brani presenti nel disco, essersi pienamente ripreso.

Difficile da amare al primo ascolto, questo doppio album (il primo della loro carriera) si presenta come un concept dalle tipiche sonorità granitiche che hanno caratterizzato le ultime produzioni del gruppo inglese e con una struttura compositiva ora veloce e d’impatto, ora più cupa e articolata, forte anche delle meravigliose e tecnicissime evoluzioni chitarristiche a cura del trio composto da Dave Murray, Adrian Smith e Janick Gers.

Iron Maiden
Gli Iron Maiden nella loro attuale formazione, da sinistra verso destra: Dave Murray (chitarre), Nicko McBrain (batteria), Bruce Dickinson (voce e pianoforte), Steve Harris (basso e tastiere), Janick Gers (chitarre) e Adrian Smith (chitarre).

Il tutto sostenuto, ovviamente, da quel genio delle quattro corde chiamato Steve Harris, inarrivabile frontman e autore della maggior parte dei brani del sestetto britannico e vera e propria spina dorsale della band che, come nella migliore tradizione “maideiana”, da voce al proprio strumento con delle linee di basso che creano l’autostrada lungo la quale viaggiano i restanti membri dei Maiden, dando così vita ad alcune delle tracce, probabilmente, destinate a diventare i nuovi capolavori della loro discografia.

Come dicevo poc’anzi, The Book Of Souls è un album fortemente sperimentale e, come accadde con Somewhere In Time quando la band introdusse per la prima volta nelle loro composizioni un largo utilizzo di tastiere e chitarre synth, questa sua peculiarità ha creato una scissione nelle schiere di seguaci che, forse, credevano in un ritorno alle origini dei loro idoli musicali.

Inutile sottolineare quanto si sbagliassero, dal momento che la loro ultima fatica è tutto fuorché un album classico; anzi, in alcuni frangenti, catapulta gli Iron Maiden in un genere musicale completamente diverso da quello a cui appartengono: il progressive metal.

No, non avete letto male! Certo non sto dicendovi che i Maiden siano di colpo diventati i Dream Theater ma, sicuramente, i brani presenti in questo loro ultimo album esulano addirittura da ciò che recentemente ci avevano abituati ad ascoltare; sebbene la band non abbia mai lasciato i propri fan a digiuno di tracce dall’esteso minutaggio e con repentini cambi di tonalità e tempi, chi ascolterà il loro ultimo lavoro si troverà davanti ad una svolta che, di sicuro, non passerà inosservata.

Con una opening song, “If Eternity Sould Fail”, da ascoltare e riascoltare all’infinito e la successiva “Speed Of Light”, veloce e potente quanto un po’ banale e anche abbastanza intuitiva, The Book of Souls comincia a ringhiare a partire dalla terza traccia, “The Great Unknow”. In quest’ultima cominciano a fare capolino i primi esempi di progressive: con una partenza arpeggiata da ballad song e un testo che considerare cupo è dir poco, il brano subisce una evoluzione nella sua zona centrale quando i tempi si velocizzano e partono gli scambi solistici di Smith e Murray che, seppur non particolarmente ispirati, fanno il loro dovere conferendo quell’aura di epicità alla quale i Maiden ci hanno abituati fin dalle loro origini; al termine degli assoli, la musica riprende il tema d’apertura per poi concludersi con un «When the world has fallen and we stand alone» finemente intonato da Dickinson, il dolce rullare sui piatti e le ultime note di chitarra in dissolvenza.

Bruce Dickinson
Bruce Dickinson, storica voce dei Maiden. In data 19 febbraio 2015 ha dichiarato di essere completamente guarito da un tumore all’esofago che lo avevo costretto al riposo e al conseguente ritardo nel completamento di The Book Of Souls

In quarta posizione troviamo, probabilmente, la traccia più riuscita di questa prima parte dell’album ovvero “The Red And The Black”, interamente scritta da Steve Harris, nella quale viene raccontato il ruolo della morte nella vita di ognuno di noi utilizzando, come metafora, il gioco delle carte.

Malgrado diversi fan abbiano etichettato questa canzone come il declino dell’Harris scrittore e della discografia dei Maiden in generale, questa quarta traccia è un’esplosione di ritmo e virtuosismo con la chitarra di Janick Gers che segue le linee vocali di Bruce Dickinson assiduamente, l’impeccabile martellare di McBrain sui tamburi della sua batteria e l’incredibile arazzo musicale che tessono il basso e le rimanenti due chitarre conferendo al brano, in termini tanto di lyrics quanto di composizione, una magnificenza che, addirittura, scavalca di qualche spanna la title-track – sicuramente ben elaborata ma che odora di “già sentito”- che troviamo in chiusura del primo disco, dopo una “When The River Runs Deep” abbastanza aggressiva ma non particolarmente degna di nota.

La seconda metà dell’album si apre di prepotenza con “Death Or Glory”, pezzo veloce e potente ispirato alle gesta dell’aviatore tedesco Manfred von Richthofen, meglio conosciuto come “Barone Rosso”, e prosegue con “Shadows Of The Valley”, la cui intro ricorda un po’ troppo quella stupenda “Wasted Years” presente in Somewhere In Time del lontano 1986.

Arriviamo, dunque, ad una delle due canzoni più chiacchierate di tutta la produzione, “Tears Of A Clown”, che si presenta come la meno longeva di tutto l’album ma si addossa la pensante responsabilità di raccontare al pubblico lo stato d’animo di un uomo scomparso poco più di un anno fa, che un po’ tutti abbiamo amato e rimpianto e che tanto ha dato al mondo del cinema: Robin Williams.

Diciamo subito che il brano non eccelle, in termini musicali, per originalità o complicatezza ma, forse, la band non ha voluto rischiare di saturare uno dei testi più tristi e più belli che Harris abbia mai scritto e che, da solo, spinge l’ascoltatore a sprofondare nel vortice di emozioni che questa canzone sa regalare.

Steve Harris, bassista e frontman, ha dichiarato in una recente intervista che "Empire Of The Clouds" è, con ogni probabilità, il capolavoro assoluto di tutta la loro carriera.
Steve Harris, bassista e frontman, ha dichiarato in una recente intervista che “Empire Of The Clouds” è, con ogni probabilità, il capolavoro assoluto di tutta la loro carriera.

Passando per “The Man Of Sorrow”, ballad malinconica e toccante introspezione di un uomo mentre riflette sul comportamento che l’essere umano ha nei confronti dei propri simili, si arriva al climax di The Book Of Souls: “Empire Of The Clouds”.

Era dal 1984, anno in cui fu rilasciato quel capolavoro chiamato Powerslave, che Bruce Dickinson non mostrava la sua vena autoriale con un brano interamente scritto e composto da lui; 31 anni dopo Dickinson si erige in tutta la sua arte con uno dei pezzi più lunghi di tutta la carriera degli Iron Maiden. Con i suoi 18 minuti, “Empire Of The Clouds” ci propone la strage aerea dello zeppelin R101 che, nel 1930, causò la morte di 48 membri dell’equipaggio e dell’allora Ministro dei Trasporti Aerei Lord Thompson.

Musicalmente parlando, siamo davanti a qualcosa di fantastico: dopo 74 minuti di musica più o meno memorabile, l’ascoltatore si ritrova, con ogni probabilità, ad ascoltare il capolavoro di questa generazione, un qualcosa di inaudito che esce fuori dagli schemi e che nemmeno sembra opera dei Maiden, una traccia complessa che profuma di drammaticità in cui gli strumenti viaggiano all’unisono con orchestre di archi e accordi al pianoforte suonato con maestria da Dickinson, un’opera rock che rapisce e ammalia e conquista dalla prima all’ultima nota, un crescendo di sonorità che verrà ricordato negli anni a venire.

Pur essendo lontani dagli anni d’oro di The Number Of The Beast, gli Iron Maiden colpiscono ancora, con qualche riserva, confezionando uno dei migliori album di questa epoca (iniziata, per intenderci, nel 2000 con Brave New World) dimostrando, ancora una volta, di essere una delle più grandi band heavy metal del passato, del presente e, certamente, del futuro. Malgrado qualche passaggio non proprio funzionale abbia fatto storcere il naso ai fan di vecchia data, The Book Of Souls sa catturare il pubblico, ascolto dopo ascolto, con delle sonorità affascinanti e seducenti per poi concludersi con quell’epicità della quale solo una leggenda è capace.

Se questo è l’inizio di un nuovo cammino che la band ha deciso di intraprendere siamo decisamente sulla buona strada e auguro, anche a chi non ripone nella “Vergine Di Ferro” un amore e un rispetto quasi religioso, un buon ascolto.

 


Leggi tutti i nostri articoli sulla musica

Leggi di più
Johannes Bosboom, Veduta di Utrecht
Cartesio: la via del dubbio