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Il Teatro di Carta in: “Il Maestro e Margherita”

Il teatro come conoscenza, l’incidente come opportunità

 

Perché si va a teatro nel terzo millennio? La domanda è meno ovvia di quanto potrebbe sembrare: in effetti, al giorno d’oggi sono quasi più le ragioni per recitare che quelle per andare ad assistere ad uno spettacolo. Il monopolio sulla narrazione di cui il teatro ha goduto per secoli è svanito nel Novecento, quando il cinema si è imposto come nuovo mezzo principe per il racconto popolare e la raffigurazione della vita. Non a caso, alla stagione di Stanislavskij e del grande teatro naturalistico ha fatto seguito una sterminata ricerca artistica che ha spinto le estetiche del teatro in direzioni sempre più astratte e codificate.

Perché dunque andare ancora a teatro? È un quesito su cui Studio Novecento si interroga ormai da molti anni, proprio alla luce dei cambiamenti citati. La sua risposta è tanto un ritorno al passato quanto una proclamazione di intenti, nonché l’apertura e la chiave dell’intera messa in scena: lo spettacolo si apre infatti con una dichiarazione, ad opera di chi scopriremo alla fine essere il narratore dell’intera storia, del valore del teatro come mezzo di conoscenza; partendo dal mito indù della creazione del teatro ad opera del dio Brahma, per far sì che nessuna conoscenza restasse esclusa, si riafferma come il palco sia uno di quei luoghi capaci di mettere in contatto diverse dimensioni tra loro separate, dove le Ombre e i Morti riescono a comunicare ai Vivi la loro Verità. È un tema ricorrente nelle ultime produzioni di Studio Novecento e nelle regie di Marco Pernich, che in questo caso trova un’applicazione tanto felice quanto necessaria.

Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov è un testo straordinario, nel suo significato più etimologico: è un libro indescrivibile che sfugge a qualsiasi classificazione, cucendo insieme tre storie diverse completamente distinte per tema, tono e registro in un ordito da cui non si può sottrarre alcun filo; un’opera di farsa e tragedia, di satira politica ed evoluzione spirituale, di mistico lirismo ed esagerata comicità. A prima vista, sembrerebbe la perfetta applicazione di quanto voluto da Brahma: un racconto che non escluda nulla di quanto esiste in tutti i Mondi. Eppure proprio per questo si tratta di un romanzo difficile, ed ancor più difficile è immaginarne una trasposizione teatrale, vuoi per la varietà di temi, vuoi per la difficoltà di riprodurre sulla scena le mille e più meraviglie che Bulgakov si diverte a mostrare ai suoi lettori, dagli interventi soprannaturali del Diavolo alle descrizioni oniriche di un Oltre impalpabile.

Foto di Bianca Cerro
Fotografia di Bianca Cerro.

Eppure i giovani attori e le giovani attrici di Studio Novecento ci sono riusciti, e l’hanno fatto accettando pienamente i limiti a cui erano confrontati e reinventandoli a proprio vantaggio. Invece di negarli, i problemi sono stati riconosciuti e dichiarati, fin dal titolo; non è per un vezzo artistico né per un bisogno di distinzione che questo spettacolo viene presentato dal Teatro di Carta: la carta è la cifra descrittiva, il riconoscimento dell’originaria natura libresca della storia, l’àncora materiale onnipresente nei mille fogli sparsi sul palco, via via raccolti e lanciati da Ivan Bezdomny, poeta divenuto folle e come tale tramite tra la nostra realtà che si pretende razionale e un mondo che va al di là della ragione – benché forse le attribuzioni siano da invertire.

Fondali dipinti, controfigure, decorazioni, miniature di scena: creazioni di carta realizzate dalla stessa compagnia compongono il corredo di questo spettacolo, e questa decisione, che sulla carta[1] evoca timori di dilettantismo e amatorialità, si rivela precisa e azzeccata, complice una stilizzazione estrema che rifugge a qualsiasi pretesa di realismo e mostra gli oggetti di scena per quello che sono – rimandi astratti volti a stuzzicare ed indirizzare l’immaginario dello spettatore.

Lo spettacolo si dimostra un adattamento alquanto fedele del romanzo di Bulgakov, impresa non facile viste le sue dimensioni e la varietà delle vicende. Come nel libro, sulla scena si avvicenda un ampio numero di personaggi, sempre immediatamente riconoscibili anche quando interpretati dal medesimo attore, ed una vasta gamma di registri: si passa dalla farsa indiavolata[2] della Mosca sovietica sconvolta dall’arrivo del professor Woland al dolce idillio dell’incontro di Margherita con il Maestro, dalla tragicità carica di tensione del romanzo di Pilato alle sognanti trasfigurazioni del sabba delle streghe.

Un uso magistrale dei ritmi sottolinea questi cambi di tono: la prima parte è un crescendo rossiniano di colpi di scena, sconvolgimenti e battute, recitati con un ritmo talmente incalzante – e parimenti fedele alla descrizione di Bulgakov – da far sentire lo spettatore quasi in affanno per il precipitarsi ed il susseguirsi di rovesciamenti e catastrofi sulla scena, al punto che l’inizio della celebre scena al Teatro del Varieté – apoteosi della messa alla berlina dei burocrati sovietici – vede nel protratto silenzio di Woland non solo un notevole tempo comico, ma anche la necessaria occasione per tirare il fiato.

Foto di Silvia Varrani
Fotografia di Silvia Varrani.

Ma questo incalzare di episodi non finisce mai per sovrastare il racconto, che si dimostra comprensibile anche allo spettatore che non avesse letto il libro senza mai diventare didascalico. A ciò contribuisce l’uso sapiente di citazioni del romanzo, sottilmente incorporate nei dialoghi e nei soliloqui per restituire quei commenti e quegli accenni di Bulgakov che altrimenti sarebbero andati perduti nella trasposizione mediale dalla parola scritta alla scena recitata: a titolo di esempio, ma non certo unica occorrenza, valga la resa del finale, dove la narrazione viene trasformata in monologo e la luna stessa si rivolge direttamente al procuratore Pilato, dando corporeità ad una delle scene più oniriche del romanzo.

Bulgakov ci presenta un’intera città come sfondo per le vicende dei suoi personaggi, e pur facendoli risaltare sullo sfondo come si addice ai protagonisti riesce nell’impresa di rendere riconoscibili e memorabili anche le comparse e i comprimari. Nella trasposizione scenica, ciò è reso con un impianto squisitamente corale, in cui i vari attori si prestano a numerosi ruoli e ognuno regge con equilibrio la parte che gli è data: i protagonisti compaiono in poche selezionate scene per mostrare gli snodi focali della loro storia, e persino l’onnipresente Woland, seduto in platea ad osservare soddisfatto la messa in scena da lui orchestrata, a tratti sembra quasi sparire, perché non ha certo bisogno di agire esplicitamente per ricordare allo spettatore che lui è lì. Per il resto del tempo, una girandola scatenata – ma mai frenetica – di controscene e ribaltamenti, personaggi secondari e comparse, sprazzi delle mille storie che avvengono sul fondale del racconto.

La necessità di attribuire doppi ruoli, come annunciato prima, cessa di essere un intoppo per diventare una nuova chiave di senso, giacché in queste sovrapposizioni si suggeriscono identificazioni, da cui discendono anche interpretazioni disorientanti: se è plausibile accomunare i vari burocrati sovietici, o sovrapporre Woland, Principe di questo mondo, al dottor Stravinskij, direttore del manicomio, ben più sconcertante è la scelta di un solo attore per raffigurare Jeshua Hanozri e Giuda di Kiriat, il traditore ed il tradito. Ancora una volta, questo omaggia l’intento e lo spirito del romanzo di Bulgakov, che ripercorre la vicenda dei Vangeli rassomigliandole senza mai riprodurla, e suggerendo nei punti di divergenza lo spiraglio di un’interpretazione inedita.

Maestro e Margherita Foto di Silvia Varrani
Fotografia di Silvia Varrani.

Nonostante un occhio allenato possa riconoscere la diversa esperienza e pratica degli attori, la compagnia recita con impeccabile coesione, tale che anche gli interpreti più giovani reggono il livello impostato dai loro colleghi più esperti. Farei loro torto se volessi designare una perfomance più riuscita di un’altra, o un’interpretazione che sia risaltata sopra chi la circondava: pur nella loro brevità le comparse riuscivano a godere della stessa vividezza dei protagonisti. Pertanto, menzionerò un particolare affatto secondario, e che nondimeno mi ha colpito con inusitato stupore: la scelta di bendare gli occhi ai servi di scena vestiti di nero che riallestivano di volta in volta il palco. Di per sé una presenza obbligatoria per consentire tutte le ambientazioni della vicenda, nuovamente ha cessato di essere un artificio necessario per rivestirsi di un significato simbolico, a ricordare nuovamente come tutta quest’opera ci sia presentata da Woland.

In conclusione, questa messa in scena de Il Maestro e Margherita riesce pienamente nel doppio intento di suscitare diletto e riflessione: ci mette a confronto con un grande classico della letteratura, ricordandoci la sua straordinaria applicabilità, e al tempo stesso ci spinge a interrogarci su come superare le avversità che si parano sul nostro cammino trasformandole in sostegni per proseguire. I manoscritti non bruciano, e anche questo spettacolo rivendica con forza di aver qualcosa da dire contro ogni sventura.

 

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Il Teatro di Carta in: “Il Maestro e Margherita” è uno spettacolo di Associazione Studio Novecento.
Adattamento del romanzo di Michail Afanas’evič Bulgakov.
Drammaturgia e messa in scena di Marco M. Pernich.
Testi di Paolo Bignami, Angela Villa, Lorenzo Fonti, Bianca Del Basso, Roberto Rossi e Francesca Contini.
In scena Daniele Bagarolo, Andrea Bonzi, Domenico Crea, Bianca Cerro, Bianca Del Basso, Allegra D’Imporzano, Lorenzo Fonti, Elisa Marinai, Andrea Pella, Giacomo Piseri, Elena Sangalli, Leonardo Sarzi-Braga, Ailin Tracchia, Cristina Vaciago e Isabel Viola.
In copertina: fotografia di Andrea Pella.

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