Dario Fo

Dario Fo: il teatro è il contrario dell’atomo

Per quanti sforzi faccia, non riesco a ricordare la prima volta che ho sentito il nome di Dario Fo. È come se lo conoscessi fin dalla nascita, come se avessi sempre saputo che, da qualche parte, c’era un Dario Fo che faceva teatro con la sua compagnia, recitando mille personaggi e parlando ogni tanto una lingua strana, che parola per parola non si capiva niente e insieme invece si capiva tutto. È sempre stato lì, Dario Fo, in quella Milano che ho imparato ad amare, con i suoi palazzi liberty dai colori tenui e i viali alberati con i fili dei tram appesi, e, sullo sfondo, la piccola madonnina nel cielo bianco.

Ogni tanto, al liceo, quando passavamo davanti a casa sua in Porta Romana, qualcuno diceva: «Ecco, lì abita Dario Fo», e rimanevamo lì a guardare, con un che di riverente, nel sapere che dentro c’era lui, c’era Franca Rame, ogni tanto passava Jannacci, o Gaber, anni prima. È tutta una città che piano piano evapora, una città di cui rimane poco, qualcosa a Lambrate, qualche palazzo a Rogoredo, certe stazioni dimenticate tra gli sterpi e i binari scuri su cui ogni tanto passa un treno. La Milano dei teatri, del Carcano e del Piccolo, di Strehler e delle sue fantasmagorie. È la Milano degli anni Settanta e dei cortei, degli studenti e dei lavoratori.

Sicuramente Fo è stato un autore politico, un autore engagé, come si diceva in altri tempi. Sarebbe però un errore appiattirlo del tutto su questo aspetto, pensare a lui come ad un autore di propaganda. Al contrario, il fine del suo teatro non è farti aderire alle sue idee, convertirti, irretirti; non è un volantino formato spettacolo, non lo è mai stato.

Per fortuna. Il pericolo c’è, e il confine è assolutamente labile. Il teatro di Dario Fo è però un lavoro da giullari, non da oratori politici: il giullare, infatti, mostra attraverso il riso e l’assurdo la realtà, il potere e le sue contraddizioni. Sono queste contraddizioni a far sì che il pubblico impari qualcosa, e ci pensi su; la realtà che il giullare mette in scena sovverte le aspettative e i pregiudizi, è una realtà al contrario, capovolta, e invece più vera dell’immagine di realtà che ci facciamo tutti i giorni.

Dario Fo e Franca Rame

Non è un comizio, né uno spettacolo di cabaret: è un compito ben più difficile. Si tratta di rappresentare il mondo, di raccontare un storia che sia esemplare, che ci faccia sentire un po’ simili a quello che viene raccontato, in modo da immedesimarci. Se l’autore volesse convertire, se l’autore volesse solo esprimere (o, peggio, comunicare) delle idee politiche, e invece di farlo con un volantino o con un trattato ricorresse all’arte, questa non sarebbe più arte. Sarebbe una truffa.

Il confine è labile, abbiamo detto, e ci sono autori che effettivamente si sono scontrati con questo problema, e hanno camminato sul filo, come funamboli, per tutta la vita: Musham, Brecht sono di questa schiera, ad esempio; anche Dario Fo ne fa parte, si è inserito in quella linea, la linea di un’arte eminentemente politica nel senso greco della parola, nel senso di mettersi al servizio della società. Dario Fo era sì politico, ma come poteva esserlo Aristofane: massima commistione con l’attualità, ma per andare oltre. Oltre l’attualità.

Non accontentarsi dell’oggi, dell’adesso, come se fosse un frammento irrelato, un atomo non inserito tra quello che viene prima e che viene dopo, in un processo storico, e forse più che storico: questa è la tensione dell’arte. L’arte di Dario Fo è un continuo esplorare epoche diverse, fonderle in un unico tempo, facendo sentire i riverberi e le assonanze tra il passato e l’attuale. La fame dello Zanni, le opere di Ruzzante; la letteratura italiana delle origini; storie e racconti dell’Est Europa; favole cinesi e scene tratte dai Vangeli apocrifi: tutto viene inglobato e rimasticato.

Ogni artista è, infatti, un rimasticatore.

Ogni artista sa che prima di lui e dopo di lui c’è un mondo, una cultura, un cosmo con cui fare i conti. Come Borges, come il Picasso delle Demoiselles d’Avignon, Fo rivede e riprende tutto ciò che lo colpisce, che può servire, sia per quanto riguarda la cultura cosiddetta “alta”, sia per la cultura popolare, non con rigore filologico – questo va detto – ma con l’interesse di un appassionato di cultura, di un artista popolare, di un giullare, di un bambino che mette insieme i suoi mattoncini per creare una nuova costruzione. E a volte i suoi spettacoli sono delle meravigliose architetture, esili come di carta, in grado di nascondere una tensione lirica, affidata magari a quattro, cinque parole – quando tutto il teatro tace e ognuno è fermo, intento, rapito.

In questo senso è esemplare il teatro di narrazione che fo mette in scena nel suo Mistero Buffo: alla maniera dei giullari, ma anche dei griot e dei cantastorie di tutto il mondo, costruisce uno spettacolo che ruota unicamente sul suo corpo, sulla voce, sulla lingua dialettaleggiante e medievaleggiante, reinventata sul modello delle lingue comuni dei giullari, e che funge da impasto, da collante di tutta la rappresentazione. Si tratta di testi popolari medievali raccolti da Dario Fo e riscritti, reinterpretati perché possano avere nuova vita. originariamente il fil rouge era la passione di Cristo; successivamente il corpus di testi si è ampliato ed è stato riveduto, ma sempre con il medesimo sguardo: riesumare testi del passato che raccontino la Storia non dall’alto, dall’occhio del vincitore, ma dal punto di vista dell’emarginato, del paria, del contadino vessato.

E sempre con questa capacità mitopoietica, questa capacità di creare mondi e dissolverli sotto l’occhio dello spettatore. Per questo l’opera di Fo non è soltanto satira, o tantomeno avanspettacolo: di satira ce n’è, il compito stesso del giullare è satirico; il gioco  e lo sberleffo alla Rabelais o alla Jarry abbondano nel suo teatro. Ma qui, in Mistero Buffo, è solo uno degli  ingredienti. Il fine ultimo, la grande scommessa, è altro: mostrare, rivelare una cultura: la cultura del popolo. Una cultura di cui non si è mai parlato: la cultura delle persone che hanno costruito silenziosamente la Storia, silenziosamente e all’ombra.

…Allora il discorso di Gramsci “se non conosci da dove vieni non sai dove puoi andare” non vale niente, ha sbagliato tutto, non ha capito niente quell’uomo! Scusa, se tu non sai la tu storia, la realtà del tuo discorso, se salti il teatro, tu ti sei fermato lì. È la cultura del tuo popolo che è presente. Quando io ti parlo del villano, è l’operaio della ferriera uguale preciso (…), è l’impiegato, è perfino lo studente (…).

(Teatro politico di Dario Fo, Compagni senza censura, Milano, Mazzotta, 1970, p. 47.)

Qui Dario Fo stava rispondendo a un intervento dopo una rappresentazione di Mistero Buffo a Milano. L’interlocutore rimproverava l’artificiosità di un’operazione del genere, come se il rapporto di Dario Fo con i testi fosse puramente un fatto letterario. La risposta, come si può vedere, è asciutta ma chiara: il contadino è l’operaio uguale preciso. Tu operaio, tu lavoratore – dice Dario Fo – ti vedi specchiato nei tuoi avi e puoi imparare da loro. Compito dell’attore, del giullare, è rendere possibile tutto questo non con una raccolta di testi da mettere in un museo, sotto una teca: no, riprendendoli, facendoli rivivere, ridando loro forma e corpo.

Ripresa del passato sì, ma come traduzione e non come archeologia. La vera scrittura teatrale, ha sempre sostenuto Dario Fo, è la scrittura scenica. E se questa da un lato è un’operazione per certi versi pop, che ricorda quello che farà poi De André con Lee Masters, o Branduardi, dall’altro il problema dell’attualizzazione non deve essere sottovalutato nemmeno dalla critica più “colta” e accademica: a cosa serve, infatti, studiare il passato se non sappiamo più stabilire delle connessioni con esso? Varrebbe dire essere incapaci di interrogarlo.

Questo non vuol dire indulgere in un appiattimento verso la cultura di arrivo: altrimenti i fruitori dell’opera non scoprirebbero niente, rimarrebbero nel loro mondo, nella loro attualità, nella loro cultura. Traduzione, insomma, non è parafrasi. Se ci interessiamo a qualcosa, è perché in qualche misura questo qualcosa ci tocca, vibra ancora; sono queste vibrazioni che devono essere raccolte dalla traduzione. Se l’arte, almeno l’arte occidentale, è il tentativo di far rimanere ciò che scompare, l’arte di Dario Fo è il tentativo di raccogliere invece ciò che è rimasto, evidenziandolo, stilizzandolo anche, in modo che risalti, che sia ben visibile, un po’ come quando su una mappa si colorano gli stati per evidenziarne il confine.

Ed ecco che emerge, chiaro, nitido, il popolo. Non il popolo dei predicatori politici, non il popolo dei totalitarismi, con la loro retorica patriottarda, non  l’uomo nuovo (anche se Dario Fo, forse, aspirava a costruirlo), ma «l’uomo vecchio», per usare un’espressione di Terzani: il popolo, il popolo con il suo dialetto e la sua povertà, e i suoi detti e difetti; il popolo come lo possiamo vedere in Novecento di Bertolucci, quel popolo lì, frazionato diviso in mille parti, in mille parole eppure unico nel suo insieme, simile, qui come in Polonia. Il popolo non come è stato sognato ma come è storicamente esistito, come si è radunato nelle piazze, come ha gioito e si è commosso, che idee ha avuto e quali canzoni ha cantato. L’uomo, l’insieme degli uomini comuni sfruttati ieri e domani.

L’uomo, l’essere umano che, attraverso il teatro di Dario Fo, ha potuto conoscere un po’ di più se stesso, nella speranza di liberarsi dalle sue credenze, dalle sue idolatrie e fanatismi. L’essere umano non da solo, non «isola», ma elemento di un insieme unitario, anche se complesso. Ed è per questo che la perdita di Dario Fo è un grande vuoto. Non semplicemente per la sua personalità, per le sue idee politiche, e nemmeno semplicemente per il suo celebre grammelot, ma per l’instancabile, inestinguibile tentativo di permettere agli uomini, alle donne, ai lavoratori, a quella che comunemente chiamiamo con un certo disprezzo “gente”, di riscoprire in sé un senso di coscienza, di unione, un senso di comunità attraverso l’arte e la Storia.

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Tomikichiro Tokuriki, Tempio di Ohmi Katata Ukimido, 1950. Il Sosaku Hanga è stato una forma artistica nata all’inizio del Novecento che considerava l’arte un’espressione dell’io, e come tale, doveva essere interanente prodotta dall’artista.
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