Tournée da bar: quella volta che Shakespeare andò al bar

Tournée da bar

Doppia intervista a Tournée da Bar

 

Può capitare. In un’epoca di consumo culturale di massa. Con un autore visto e stravisto, fino allo sfinimento.

Ma partiamo dall’inizio. Tournée da Bar: un progetto che – per usare le parole dei creatori – «intende diffondere il teatro, la cultura e l’amore per la letteratura e i grandi classici in luoghi teatralmente non convenzionali». I bar, appunto.

E così, può capitare di entrare in un locale, in cerca di un po’ di calore e di una birra rinfrescante, e di immergersi quasi per caso in un mondo diverso, fatato. In un sogno in cui la potenza dell’immaginazione sopperisce alla scenografia essenziale, quasi minimale. Capita di imbattersi in due attori e un musicista e di lasciarsi trasportare sulle note del racconto.

1) Come riuscite a interpretare un’opera particolarmente famosa senza scadere nel già visto, o in una forma di ripetizione “scolastica” dell’opera? Detto altrimenti: qual è secondo voi l’attualità di Shakespeare?

Graziano Sirressi: Il lavoro che facciamo con Tournée da Bar sui testi è innanzitutto leggere il testo e cercare un immaginario comune che ci possa stimolare nella creazione di immagini, di giochi scenici da fare con il pubblico e un modo di raccontare l’opera. Chiaramente, essendo non in teatro ma in un posto decisamente diverso, con distrazioni, gente che mangia, servizio al tavolo e quant’altro cerchiamo di rendere il racconto e la narrazione il più semplice possibile, restando fedeli al testo e soprattutto alla storia che Shakespeare va a raccontare, con un’interpretazione dei personaggi molto viva, appunto per acchiappare l’attenzione: il pubblico è chiaramente l’obiettivo principale dei nostri spettacoli. È una roba completamente diversa se pensi di fare uno spettacolo in teatro o in un bar.

Enrico Pittaluga: L’attualità di Shakespeare è assoluta, non è che vada ricercata. Fintanto che si parla di amore, di guerra, di gelosia, di voglia di potere, di come il potere logora, di vendetta o di invidia, questi temi sono attuali perché sono assoluti, sono temi che l’uomo si tira dietro da quando ha iniziato a produrre arte figurativa, musica, teatro; in questo Shakespeare ci dà una grande mano. Quanto più noi riusciamo a giocare con le immagini e a raccontare la storia, più abbiamo dalla nostra una grande potenza.

Cosa può pensare Giulietta quando vede entrare Romeo dalla finestra prima di passare la prima notte d’amore assieme? E il suo tentennamento: Romeo è il suo amore, ma è anche colui che ha ucciso suo cugino. Come si può sentire in quel momento? Così, ricordando le circostanze date dell’opera, le persone si immedesimano, e vivono e sentono quello che sarebbe difficilmente rappresentabile se non con mezzi tecnici e scenografici dispendiosi. E quindi il lavoro di trasmissione è questo: entrare nelle circostanze, e, ove servisse, traslare Romeo nell’oggi. Cosa potrebbe essere oggi questa situazione? E allora la raccontiamo come se fosse un po’ più quotidiana per avvicinarla. Però, cercando di restare abbastanza fedeli a quello che è il significato o quello che ci pare di aver colto.
Tournée da bar

2) Ci sono dei passaggi del testo in cui è evidente una forma di attualizzazione, anche se spesso vi richiamate all’immaginario in cui si svolgevano gli spettacoli di Shakespeare. Si può dire che il vostro sia un rapporto filologico non tanto della lettera, ma dello spirito del testo, e più in generale del contesto? Un rapporto, forse, ermeneutico?

Esattamente, come hai detto tu, un rapporto più con il contesto e con l’ambiente in un luogo popolare. A me, e anche a Graziano, piace pensare che il pubblico torni ad appropriarsi del teatro, che sia una situazione di libertà. Con il testo, sono state fatte dei tagli, delle scelte, anche molto soggettive: ci sono delle scene da far vedere e altre da raccontare. Il rapporto che ogni attore ha con le sue parti è di totale adesione: se le prova, se le aggiusta, le cambia. Io lo definirei un bellissimo rapporto di “amore libero” (ride), di amore senza gelosia, che è rarissimo nella vita ma che si riesce ad avere nell’arte perché riesci a mantenere la curiosità del tuo partner – il testo – senza imbrigliarlo in una cornice definita.

O meglio, magari ogni tanto, sì, ripeti, perché in tante repliche ripeti esattamente le stesse cose, però ad un certo punto sei felice di ritornare al testo: questa scena può funzionare anche così, e ti lasci la libertà di vedere dove va, come evolve, come cambia. Il testo cambia perché si adatta alle persone che lo interpretano, ognuno porta una nota, è come un’orchestra. E in questo mi piace pensare che sia un rapporto di amore libero, un qualcosa di simile a quello che faceva Shakespeare che scriveva sui suoi attori.
Graziano. Per la mia esperienza, ho dovuto praticamente imparare a memoria il testo per poterlo mettere in piedi. Poi pian piano il testo è diventato più mio, me lo sono cucito addosso. Sembrerà una banalità, ma in un bar hai un rapporto con il pubblico molto più che diretto: la sala non è buia ma semibuia, con la luce accesa, quindi il pubblico lo guardi direttamente negli occhi, e ogni sera è un riscoprire il piacere di raccontare una storia, di riattraversarla insieme al pubblico. Non è solo un semplice rapporto di ripetizione, di un impiegato che va lì e fa il suo lavoro.

Magari in teatro ti capita un po’ meno perché sei più distaccato, la sala è buia, reciti con i tuoi attori; invece questo tipo di narrazione ti dà la possibilità, ti costringe anche ogni sera di metterti a nudo, di stare davanti al pubblico e crederci fino in fondo, e raccontare la storia per poterla farla arrivare a tutti – e questa è la cosa bella che in teatro a volte si perde.Anche durante le repliche ci vengono immagini nuove, ci stupiamo: io che guardo Enrico che inserisce un particolare in più e ci viene da sorridere, da ridere, perché la sera prima quella cosa non c’era, e si accende la magia dello spettacolo dal vivo, del teatro.

Lorenzo Palla
Davide Lorenzo Palla, fondatore di Tdb

3) Rompere la quarta parete, lavorare con il pubblico agevola la rappresentazione o è una difficoltà maggiore?

Enrico. Entrambe. È sempre un’arma a doppio taglio, ci vuole una sapienza e una professionalità profonda nel dosarla e usarla durante e ovviamente ci vuole anche un’esperienza. Il coinvolgimento del pubblico quindi aiuta a sentire propria una socialità e un modo di rappresentazione, e aiuta anche a coinvolgere quelle persone che vedi già che potrebbero essere più rumorose, e se invece riesci a dargli il ruolo giusto si sentono parte di qualcosa che concorrono a tutelare. D’altra parte, richiede un lavoro in più. Perché ti esponi a un fattore di imprevedibilità che può aggiungere qualcosa allo spettacolo, ma è anche più difficile da domare. Poi con l’esperienza lo impari a gestire. Non è un lavoro facile.

È un lavoro che anche un attore formato, professionista, con tanti spettacoli alle spalle non è scontato che abbia: anzi, è un’esperienza che deve maturare. Un rapporto così diretto ce l’ha più facilmente un attore di strada, della clownerie, che è sempre a confronto con quell’imprevedibilità. Non è detto che un percorso classico ti fornisca quegli strumenti. Li devi un po’ affinare e devi averli anche come carattere, deve essere tra i tuoi talenti, diciamo: devi aver voglia. Le persone possono essere meravigliose, ma anche orribili, e devono piacerti, poeticamente e politicamente, a priori.

Graziano. Ogni sera di spettacolo, andando in posti diversi, strutturati in modo diverso, non hai lo stesso posizionamento del pubblico, ti possono capitare serate molto difficili dove c’è tanto baccano, e lì è proprio una sorta di esercizio fisico e anche mentale di tenuta dello spettacolo, di tenuta dell’attenzione del pubblico e di tenuta di se stessi, di cercare di non perdersi. Mi ricordo di una volta che ad un certo punto parte una canzone di sottofondo e il pubblico in una serata l’ha riconosciuta e ha iniziato a canticchiarla e a battere le mani e io che facevo il pezzo mi sono completamente perso, e non riuscivo a tenere il filo del discorso perché talmente il pubblico era coinvolto, poi pian piano mi sono aggrappato e ce l’ho fatta; alla fine diventa veramente un allenamento, un esercizio che veramente è molto più simile al teatro di strada, come accadeva nel Cinquecento con la commedia dell’arte, quando c’erano i palchi in piazza e tu cercavi di attirare l’attenzione del pubblico.

Davide Lorenzo Palla

4) Passo all’ultima domanda, che è bella tosta. Qual è secondo voi la valenza politica e sociale di questo progetto, di Tournée da bar?

Enrico. La valenza sociale e politica che ha questo modo di fare teatro sta già nella scelta di andare a farlo in un luogo popolare. È il riappropriarsi di uno spazio immaginifico condiviso, partecipato e popolare. Credo che quando verrà meno questa idea tramonterà Tournée da bar. È l’idea che delle persone, quella sera, abbiano scelto di non accendere la televisione, di non essere passivi, ma di andare in un luogo in cui si ritrovano con altri, si siedono, stanno in silenzio a fianco a degli sconosciuti, sui quali magari sospendono il giudizio riguardo la provenienza sociale, geografica, o politica; stanno in silenzio magari al buio, e sognano assieme uno stesso sogno, anche con una birra in mano, perché no, o con un piatto davanti.

Per me questo ci fa assomigliare di più a quello che siamo, agli umani. Veramente siamo uguali, siamo simili, attraversiamo gli stessi sentimenti, gli stessi problemi, le stesse ansie, gli stessi amori – è questo di cui ha realmente bisogno l’uomo.  Se poi aggiungi che per un attimo si alza il tiro rispetto al cazzo culo figa tette calcio alcol in cui ricadiamo spesso nella nostra vita quotidiana… Non credo che l’avventore medio dei bar sia in cerca di qualcosa di molto diverso da questo bisogno.

È che ha perso di vista l’obiettivo, ha semplicemente confuso uno dei mezzi di socialità con l’obiettivo finale, e quindi si è fermato un po’ prima.

Cioè, non era sbagliata l’idea di andare a prendere una birra: è che la birra non era l’oggetto dell’obiettivo, ma l’obiettivo magari era andare quella sera e sedersi al tavolo con qualcuno e magari scambiare due chiacchiere e magari conoscersi, innamorarsi, sorprendersi per un’opinione diversa, e poi invece gli è rimasta solo la birra.

Perché? Perché un orizzonte commerciale di pensiero si è impadronito di lui, e quindi lui e ha confuso il consumo della birra con il risultato. Ma questa cosa la si vede anche nei risvolti più beceri e commerciali del consumismo e del capitalismo: quando una cosa anche consumistica e capitalistica funziona, vuol dire che da qualche parte, magari per sbaglio. o magari per un ragionato marketing, si riaggancia a questo bisogno di socialità e di emotività che l’uomo ha.

Io faccio sempre questo esempio: tu compri la jeep ma in realtà quello che volevi era l’avventura e il viaggio. Poi ti ritrovi nel traffico con la jeep e capisci di essere un coglione. Ma intanto la jeep l’hai comprata, chi fabbrica la jeep è contento, gli interessa poco che poi tu l’avventura la viva davvero, l’importante è fartelo credere durante lo spot.

Graziano. Vorrei aggiungere una cosa che secondo me è veramente molto bella. Ci sono stati diverse situazioni in cui delle persone dei ragazzi ci abbiano fermato dopo lo spettacolo dicendoci: «Questa è la prima volta che vedo uno spettacolo teatrale e non pensavo che potesse essere così bello e emozionante e commovente, non avevo idea».

O ancora gente che dice: «Cavoli io mi ricordo gli spettacoli visti a scuola» (perché di solito quando si portano a vedere gli spettacoli a scuola sono sempre quelli classici sempre un pochino vecchia maniera, vecchia scuola quindi un po’ difficili da sopportare da parte di adolescenti e quant’altro). Poi magari vengono una sera al bar e riscoprono la bellezza, la semplicità, la magia di raccontare una storia. Come dire, il teatro bello c’è: basta avere la voglia e la fortuna di andare a vedere gli spettacoli che ci sono in giro, che vale la pena di vedere.

Enrico. La cultura è la libertà di emozionarsi, di provare dei sentimenti. Per questo deve tornare ad essere una cosa diffusa e popolare. Ai tempi di Shakespeare per quello che leggiamo nei manuali molte cose, molte leggende, molti contenuti culturali erano di patrimonio pubblico e comune. Ancora ai tempi dei nostri nonni e precedentemente, l’iconografia sacra era conosciuta da tutti, tutti conoscevano i santi; io adesso faccio molta fatica quando entro in una pinacoteca a capire se vedo un San Sebastiano che cosa vuol dire, non ho quel contenuto culturale. Invece il teatro in luoghi popolari ha una grossa valenza sociale e politica perché le parole servono per descrivere un’emozione, un sentimento, un’utopia, un sogno. Se non ci sono parole per descriverli, scompaiono anche i concetti.

Riportare le parole di Shakespeare può far sì che ci si appropri di una spinta, di un afflato ideale, emotivo, utopico di cui non possiamo fare a meno, di cui abbiamo bisogno, senza il quale siamo più vuoti e più depressi. In teatro la stessa cosa dovrebbe essere riadattata. Cioè è un linguaggio specifico. Al bar con poco si ricorre all’immaginazione e si accende una luce su una cosa che magari è dimenticata. Per me è quell’essere compagni, compagni di vita, compagni di avventura, compagni di esperienze, di sogno. Se poi le persone andassero di più nel teatro e lo considerassero come un luogo loro, e non un luogo in cui sentirsi a disagio per non essere ben vestiti o non avere abbastanza soldi, sarebbe bellissimo.

 


Tournée da Bar nasce nel 2012 da un’idea di Davide Lorenzo Palla: la prima edizione, Tritacarne Italia Show coinvolge dieci locali di Milano. coinvolge in dieci giorni consecutivi dieci diversi locali e bar della città di Milano. Con la terza edizione si avvicinano al dramma shakespeariano, con l’Otello. Nel 2015 Tournée da Bar si aggiudica il premio CheFare; nel 2016 il progetto cresce e viene presentata una tournée nazionale in più di cinquanta bar, in sei regioni. Il primo sostenitore del progetto è Teatro Carcano, che co-produce Amleto. Tournée da Bar collabora anche con il Teatro Stabile di Bolzano. Sempre nel 2016 vince il premio nazionale Rete Critica, e i bandi Open (San Paolo) e Funder 35 (Cariplo). La Tournée da Bar continua…

Simone Coletto
Simone Coletto

Nato a Milano, classe 1993, laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia; lettore e appassionato di politica da sempre, ho avvicinato gli studi filosofici sui banchi del liceo (classico) e da lì ho compreso come questa disciplina dia ad ognuno la possibilità di capire e modificare il mondo.