Lux Fulgebit, di Marco Pernich. Sulla soglia dell’Ineffabile

Lux Fulgebit Marco Pernich

Nel moderno Occidente, materialista e secolarizzato, non si crede più. L’idea del Sacro è sempre più marginalizzata e negletta nella cultura contemporanea, che non contempla nemmeno l’esistenza di piani diversi dell’Essere. Fede ed Eternità ci appaiono concetti alieni e remoti, che fatichiamo anche solo a concepire ed ancor di più a comprendere. Ciò rende molto difficile, anche per chi crede, cogliere quanta risonanza avessero simile idee per i nostri avi, che vivevano in una società permeata dall’Assoluto. Ci sfugge la vastità della fede dei personaggi di Dostoevskij, di Manzoni, di Goethe, perché non riusciamo più a misurarci con dei valori divenuti estranei al nostro mondo. Occorre un grande sforzo per superare questi limiti e riscoprire con lo studio ciò che un tempo era forza pulsante e viva nel cuore e nella mente degli uomini.

Chi si occupa di teatro è presto messo a confrontarsi con questo Invisibile, elemento cruciale per dare vita a quel piccolo miracolo che avviene sul palco. Non stupisce dunque che a Studio Novecento si rifletta spesso su tali tematiche, come dimostra del resto la loro produzione recente che già vi avevamo presentato. Ma in questo novero Lux Fulgebit si ritaglia uno spazio alquanto particolare e in evidenza, perché più di tutti i suoi predecessori si prefigge di indicare un senso che vada al di là dell’immediato, un Oltre che agisce sulle nostre vite e ci mette a confronto con valori assoluti. Scritto all’inizio degli anni 2000, lo spettacolo è stato rappresentato nella sua conformazione definitiva nella primavera del 2022 in occasione della seconda edizione milanese di Spiritualmente Laici[1]per poi venir riproposto nella rassegna autunnale di STN.

Lux Fulgebit

La storia raccontata è quella di Pelagia di Antiochia, eremita e santa della prima età cristiana. La sua vita ci è stata trasmessa principalmente da agiografie di epoca ben più tarda con un intento palesemente morale ed esemplare; difatti, appare presto evidente la stretta corrispondenza con le vicende di sante coeve come Taide e Maria Egiziaca, poiché tutte ripercorrono il modello, tracciato da Maria Maddalena, della prostituta redenta. Pelagia fu un’attrice, cortigiana e prostituta, donna di grande talento ed ancor maggiore fascino, maestra di ogni arte della bellezza e dell’intrattenimento, al cui cospetto si inchinava l’intera città di Antiochia. All’incontro col vescovo Nonno, santo e piissimo, Pelagia si redime: abbandona la sua vita di peccatrice, richiede il battesimo, dona tutte le proprie ricchezze ai poveri e si ritira nel deserto per trascorrere il resto della sua vita da eremita e penitente. Nel corso degli anni si diffondono sia la fama della sua santità sia la convinzione che l’eremita Pelagio sia un uomo, e solo al momento di ricomporre il suo corpo si riscopre la sua vera identità.

Lux Fulgebit è un testo difficile fin dalla presentazione: la definizione di spettacolo, così comoda e familiare per indicare una perfomance dal vivo, appare manchevole e inadeguata Prendendo in prestito il lessico della musicologia, sarebbe più corretto parlare di oratorio, per quanto riguarda sia la forma sia il contenuto. In scena sono presenti quattro interpreti a leggio ed una musicista. La recitazione consiste nell’alternarsi dei vari monologhi, declamati dai personaggi che hanno assistito alla vicenda di Pelagia: il vescovo Nonno, le due donne che scoprono la morte della santa e l’angelo mandato a confortarle. Ad accompagnare le loro voci, e a condurci dall’una all’altra, abbiamo le note di un liuto, sospese tra un senso di familiarità ed una parvenza di estraneità: i brani originali sono stati infatti composti sul modello delle melodie per ʽūd, strumento principe della musica tradizionale del Medio Oriente, a restituire sia l’atmosfera dei luoghi sia il senso di lontananza delle tematiche dal nostro sentire. Ma non è soltanto la musica a rimarcare questa distanza: il testo stesso si presenta remoto ed oscuro.

Lux Fulgebit

Nel corso della sua storia, la drammaturgia italiana ha sempre dovuto affrontare il problema della lingua: l’italiano di Dante in qualche misura non sembra adatto all’uso scenico, e difatti i grandi autori di teatro della nostra tradizione, con pochissime eccezioni, si avvalgono del dialetto – dal veneto di Ruzante e Goldoni al napoletano di De Filippo; questa medesima esigenza è perdurata nel Novecento, quando la ricerca dell’autenticità ha portato drammaturghi come Testori a inventare letteralmente una lingua che si prestasse al loro intento. La scrittura di Pernich si inscrive in questo filone, con una propria originale variante: il testo italiano viene forzato nella sintassi e nella grammatica per ricalcare il suono e il ritmo del greco antico, dell’aramaico e dell’ebraico. Questa decisione non nasce da una sterile mania filologica – pur dimostrandosi un ulteriore dettaglio di atmosfera – ma risponde ad un’esigenza ben precisa: rendere inaudita una storia fin troppo nota, liberare il racconto dalla sua veste di agiografia a noi fin troppo presente – e di conseguenza innocua – per riportare alla luce le verità nascoste nel cuore della vicenda.

E difatti è un affresco straordinario quello che le voci degli interpreti intessono davanti ai nostri occhi. Nelle parole dell’angelo risuona l’eco di una visione e di una promessa oltremondana. Nel racconto delle donne si presenta Antiochia, una città ricca e colta, raffinata e decadente, un mondo alla fine della sua parabola che si approssima sempre più al proprio crepuscolo ed assomiglia in maniera inquietante al nostro tempo. Nel lamento del vescovo Nonno – impreziosito di citazioni dai Salmi e dal Qohelet, amalgamate nel fluire dei versi fino a divenirne inestricabili – si sente tutto lo sgomento che l’uomo prova davanti all’Inconoscibile ed alla Sofferenza, che solo la Fede può confortare e talvolta non è sufficiente. Contempliamo la gioia di Pelagia redenta e l’ammirazione suscitata in chi la circondava, un tempo per la bellezza del suo corpo e della sua arte, poi per la grandezza della sua conversione. E percepiamo l’amore, perché la relazione tra Nonno e Pelagia è una storia d’amore – platonico, spirituale, mai consumato nella carne, ma non meno intenso e puro.

Lux Fulgebit Marco Pernich

Lux Fulgebit riesce anche a parlare di Fede senza risultare predicatorio o apodittico. Il primo incontro di Nonno con Pelagia è un momento di rara potenza, capace di emozionare non meno che di spiegare, e restituisce una prospettiva sulla Fede e sul credere che è ben lontana dall’opinione comune. Grande è la gloria di Pelagia, perché ella ha promesso di abbellire il suo corpo per piacere agli uomini e lo ha fatto, e spende ore impegnandosi per mantenere la promessa, mentre i santi vescovi hanno promesso di abbellire la loro anima per piacere a Dio e non lo fanno. È un ritratto, quello di Nonno e di Pelagia redenta, di grazia e magnificenza, ben lontano dall’immagine addomesticata dei santi che ci è oggi familiare, e più vicino forse al modo in cui li intendevano i primi cristiani.

Per molti anni dopo il suo debutto, era tradizione non applaudire alla fine del Parsifal di Richard Wagner: la sacralità dell’opera, carica di simbolismo religioso e di afflato mistico, imponeva un rispettoso silenzio. Ancora oggi è consuetudine mantenere la quiete alla fine del primo atto, che si conclude con la celebrazione della messa. Lux Fulgebit suscita le stesse emozioni e lo stesso deferente timore: al termine del racconto il pubblico esita, come se l’applauso non fosse la risposta appropriata. D’altronde, quello cui abbiamo assistito non era uno spettacolo, e la sua storia non è fatta per il nostro tempo; forse quel silenzio è il giusto modo per riscoprire qualcosa che un tempo era noto.

 

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Lux Fulgebit è uno spettacolo di Associazione Studio Novecento, con il contributo del Municipio 9 del Comune di Milano.
Testo di Marco M. Pernich
Lettura di Stefania Lo Russo, Miriam Forgioli, Tecla Pirovano e Marco M. Pernich.
Musiche composte ed eseguite da Cristina Verdecchia.
Fotografie di Andrea Pella.

Alessandro Sergio Martino Gentile, autore di Storie Sepolte
Alessandro Sergio Martino Gentile

Quando ero bambino, chiedevo che mi raccontassero delle storie. Mi affascinavano tutte, dai miti greci ai racconti dei cavalieri, dalle fiabe alle avventure di pirati. L'esito inevitabile era finire a studiare la Storia, con la s maiuscola, per tentare di capire da dove veniamo. Nel frattempo sono stato maestro di scuola e volontario del servizio civile, e collaboro dentro e fuori il palco del teatro con Associazione Studio Novecento. Amo il silenzio e la musica classica, la lettura e le camminate, la buona cucina di mano mia o altrui.