Salwa Salem, Con il vento nei capelli: una palestinese racconta

salwa salem, con il vento tra i capelli

Non so perché amo la vita. Anche se non è facile, per me è grande. Ho sempre amato svegliarmi, tutti i giorni. La mattina è il momento più bello della giornata. (…) Ogni volta l’emozione di un inizio nuovo.

Inizia così, con l’entusiasmo di chi ama la vita anche se è stata matrigna, anche se è stata troppo breve, il libro di Salwa Salem, Con il vento nei capelli. Una palestinese racconta. È scritto insieme a Elisabetta Donini, che ha curato la stesura del romanzo/racconto e una bellissima appendice di ricordi di Salwa, della sua dignità e del suo grande amore per la vita.

È un libro del 1993, che ritengo importante leggere in questi giorni così drammatici per il popolo palestinese. Facciamo onore a questa donna coraggiosa, allegra, curiosa, coltissima, morta senza vedere il suo libro finito e pubblicato, se, leggendo la storia della sua breve vita, impariamo ad amare il popolo palestinese, che da un giorno all’altro si è vista espropriare casa, lavoro, terra, libertà.

Salwa nel raccontare la tragedia che visse nel 1948, a soli 8 anni, fa una riflessione che è nata spontanea anche a me, quando seguivo con apprensione i sanguinosi episodi del massacro dei campi profughi di Sabra e Shatila del 1982. Guerre e massacri su quella terra, considerata santa, ma dilavata con il sangue degli innocenti da secoli e secoli.

Si sentiva parlare del trattamento disumano che avevano subito gli ebrei nella seconda guerra mondiale, ma ci si chiedeva perché dovevamo essere noi a pagare per gli orrori commessi da altri.

Manifestazione di donne palestinesi a Gaza, 6 dicembre 2017
Manifestazione di donne palestinesi a Gaza, 6 dicembre 2017 (credits: The Nation)

In questi giorni terribili, leggere il libro della Salem ci aiuta a comprendere quanto male ha operato la nostra cultura occidentale e quanto odio ha seminato, soprattutto in questi ultimi decenni. Salwa ci ha lasciato nel 1992 dopo una lunga malattia, quando le strade palestinesi erano piene di ragazzi vocianti che tiravano pietre. Era il periodo dell’Intifada, quello che ha fatto conoscere la realtà palestinese, la prepotenza del potere israeliano, che sottopone i palestinesi a un vero e proprio regime di apartheid ormai da più di settant’anni.

Da allora hanno preso piede i movimenti di radicalizzazione islamica, che pur rappresentando il più infimo grado di apertura culturale e sociale, soprattutto per il genere femminile e il mondo lgbtq+, rappresentano paradossalmente, per quella povera gente, l’alter ego allo strapotere occidentale.

Nacque lentamente la consapevolezza che avevamo perso tutto. La gente fu a lungo sotto shock e non si rendeva conto della nuova situazione; non capiva perché era stata cacciata, derubata di tutto.

In Palestina fino al 1948, cioè prima della Nakba, il movimento sionista aveva già cominciato a creare problemi fin dalla fine dell’Ottocento, ma nonostante tutto la convivenza fra musulmani, ebrei e cristiani era ancora accettabile.

I genitori di Salwa erano musulmani ma non hanno avuto problemi a iscrivere i figli alla scuola cristiana. Era una delle tante famiglie intellettuali e borghesi che vivevano a Yaffa (Giaffa). Il padre era un uomo molto austero ma gran lavoratore e imprenditore, per nulla interessato alla politica, che si è trovato costretto a soggiacere a una violenza assurda e incomprensibile.

Nel 1948 per sfuggire al terrorismo e alla violenza, insieme a migliaia di palestinesi lasciò Yaffa, la sua vita, la sua storia, i frutti delle fatiche di anni di lavoro ai coloni israeliani, che s’impossesseranno di quella vita altrui senza mai restituirla.

Ragazzine a Yaffa nel 1948
Ragazzine a Jaffa nel 1948 (credits: Interactive Encyclopedia of the Palestine Question)

Nonostante le grandi difficoltà e le fatiche, quest’uomo riuscirà a riavviare a Nablus un’attività, che nel giro di pochi anni consentirà a lui e a tutta la famiglia, di riprendere una vita economicamente soddisfacente.

I palestinesi iniziarono a studiare moltissimo perché questo era il loro passaporto per la vita, la loro garanzia di sopravvivenza. Ricordo il campo profughi vicino a casa: si vedevano ragazzi che passavano la notte fuori con una coperta addosso, a studiare sotto i lampioni, perché nelle loro case non c’era luce né spazio. Lo studio era per loro come un pezzo di terra, offriva protezione e sicurezza. Tutti, tutti studiavano e ci tenevano moltissimo. Era quanto restava loro, ora che avevano perso ogni cosa.

Lo studio era e forse lo è ancora oggi, lo strumento di riscatto dalla condizione di profugo e di esule, di questo popolo ingiustamente violentato da oltre settant’anni, ma anche di moltissimi altri popoli dei paesi in via di sviluppo.

Lo studio come pezzo di terra, mi riporta alla mente gli anziani che negli anni Cinquanta/Sessanta spronavano la gioventù italiana, nata dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, a studiare per riscattarsi dalla propria condizione sociale.

Lo studio come alto valore morale che in Occidente è venuto meno, fagocitato dalla bramosia del consumo, dell’usa e getta, del progresso spasmodico che è diventato regresso. Un Occidente che fa scrivere la macchina, non da scrivere, che avrebbe previsto un’umanità di vera carne, ma l’unica espressione di intelligenza che sembra rimasta in circolazione: quella artificiale.

Joss Dray, Nablus, 1987
Joss Dray, Nablus, 1987 (credits: Interactive Encyclopedia of the Palestine Question)

La mia casa era sempre piena di amiche.

È affascinata dal fratello più grande Adnan, che frequenta l’università e che si interessa molto di politica. La casa di Salwa è sempre piena di libri, lei lettrice vorace, sembra mordere il tempo per non lasciarselo sfuggire. A Nablus la nostra Salwa frequenta le scuole superiori e nel giro di pochi anni tira fuori il suo carisma, che farà di lei una leader del movimento studentesco, un esempio per tante giovani donne palestinesi.

In casa le discussioni con il padre sono feroci, non avrebbe voluto che i suoi figli si fossero interessati di politica. La condizione di profughi, il timore di violenze o ritorsioni lo spaventavano. A lui e a molti della sua età sarebbe bastato vivere in pace, ma per i figli della Nakba era diverso. Sono cresciuti macinando libri, coltivando rabbia, soprattutto nei campi profughi, dove la gente era ammassata in maniera disumana. Gente onesta, gente semplice e molto laboriosa che l’unica colpa per la quale pagava e paga ancor oggi un prezzo esagerato, era quella di essere nata e vissuta in Palestina.

Finito il liceo Salwa intraprende gli studi universitari ma vuole l’indipendenza economica e così chiede aiuto al fratello tanto amato Adnan, che vive, lavora e studia in Kuwait. Dovrà lottare con il padre severo, austero e grande lavoratore, che non vede di buon occhio questa figlia ribelle, che non accetta il velo e il matrimonio combinato, che ha la testa nei libri e nella politica.

Nonostante tutto cederà alla volontà di Salwa, che nel libro ricorda così il padre:

Mio padre era un grande sognatore e pur di realizzare i suoi sogni ha sempre rischiato ed è riuscito a fare cose più grandi di lui: ci ha restituito una casa bella e confortevole, […] è riuscito a mandare tutti i suoi nove figli all’università, senza mai sostenere che l’uomo può studiare e la donna no.

Donna in Kuwait, circa 1950 (credits: David Foster)
Donna in Kuwait, circa 1950 (credits: David Foster)

Il periodo trascorso in Kuwait è fatto di tanti incontri, di studio e della soddisfazione del primo stipendio come insegnante. La convivenza con il fratello più grande non è facile, la condizione della donna in Kuwait è di completa dipendenza dagli uomini e questa situazione la Salem non riuscirà a sopportarla a lungo, è troppo libera e ribelle per tollerare una società chiusa e a suo dire “arrogante” come quella kuwaitiana.

Di questo periodo molto interessanti sono i ritratti di alcune compagne della Casa dell’Insegnante, struttura per sole donne straniere nubili e senza famiglia. Sono quadretti semplici, dove storia e cultura sono viste al femminile, in un mondo declinato al maschile.

Indossare l’abbaya per uscire di casa era una tradizione, un obbligo sociale, una legge cui nessuna donna poteva sottrarsi, neanche se straniera. All’inizio trovai difficile abituarmi. Poi scoprii che era un indumento comodo. Proteggeva dal vento di sabbia che porta malattie agli occhi. […] Era ampia e al suo interno l’aria poteva circolare. […] L’abbaya è un indumento che da grande libertà anche se, indubbiamente, cancella l’identità della donna.

È sconcertante per le donne occidentali leggere queste riflessioni, scritte da una donna evoluta, coltissima e libera nell’anima molto più di noi; eppure la libertà e la consapevolezza la vedo proprio in queste sue considerazioni molto pratiche sulla protezione dal vento di sabbia che porta malattie.

Salwa Salem non rimarrà molto tempo in Kuwait, fece ritorno a Nablus dove conobbe l’uomo che divenne suo marito e il padre dei suoi figli. Con il marito si trasferirono prima a Vienna, ma la società viennese non era adatta al carattere solare di Salwa, poi in Italia.

Salwa Salem, con il vento nei capelli, copertina

Siamo nel 1970 e la nostra amica palestinese si trasferisce a Parma. In Italia si sentirà a casa, sarà la sua seconda patria e prenderà parte attiva nei movimenti femministi e in quelli di carattere politico, dove finalmente potrà divulgare il dramma del popolo palestinese.

Sono anni di rinascita e di grande felicità per Salwa. I figli sono cresciuti e l’amore per il marito non si è mai affievolito.

Purtroppo un tumore l’ha portata via a soli cinquantadue anni, ma prima di lasciare questo mondo ci ha regalato questo racconto della sua vita, che vi invito a leggere.

Della sua esperienza politica e femminista in Italia la Salem ne parla con molto fervore e spirito critico, nel quale risalta la differenza di cultura delle donne occidentali e di quelle arabe.

Per le donne occidentali l’obiettivo non è più la parità dei diritti con gli uomini, ma la ricerca di un’identità, di uno spazio, di un ruolo in cui esprimere la propria differenza, la capacità di una forte autonomia. Per le donne arabe, a cui non è riconosciuto il lavoro fuori casa, né il diritto di esprimere una scelta politica con il voto, la massima aspirazione è la parità.

Questo libro ha il pregio di raccontare tanta disperazione, infondendo tanto coraggio e speranza. Salwa ama la vita anche se è difficile, la ama e l’affronta con coraggio, per questo ci consegna una storia positiva, che ci lascia un sorriso e tanta forza.

 


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Silvia Leuzzi
Silvia Leuzzi

Ho un diploma magistrale e lavoro come impiegata nella scuola pubblica da oltre trent'anni. Sono sposata con due figli, di cui uno disabile psichico. Sono impegnata per i diritti delle persone disabili, delle donne e sindacali. Scrivo per diletto e ho al mio attivo tre libri e numerosi premi di poesia e narrativa.