La vipera e la sua schiatta

The Revenger's Tragedy Martina Trotta

Amleto, il dubitoso principe di Danimarca, non è stato il solo a calcare le scene dei teatri inglesi con un teschio in mano: pochi anni dopo la comparsa del dramma di Shakespeare un altro personaggio non meno singolare e non meno tormentato gli rubò questa bella idea. Questo secondo personaggio non raggiunge, è vero, la statura drammatica del suo predecessore. La sua mente non è quel labirinto di dubbi, speculazioni e astuzie che il principe danese si porta nel cervello. Tutte le sue azioni hanno un unico fine, un fine cui il nostro eroe è pronto a sacrificare ogni cosa: la vendetta; un proposito portato avanti con cieca abnegazione e spietata freddezza nella cornice di una corte che, quanto a intrighi e nascoste perversioni, sta alla corte danese dell’Amleto come il castello di Dracula sta alla casetta del Bianconiglio.

The Revenger’s Tragedy fu rappresentata per la prima volta a Londra nel 1606. Il testo a stampa pubblicato l’anno successivo non riporta il nome dell’autore, né è possibile ricavarlo da altre fonti. Fino a qualche anno fa gli storici del teatro ne attribuivano la paternità al poeta e diplomatico Cyril Tourneur, ma basta buttare un occhio all’unica altra sua tragedia superstite per farsi venire qualche dubbio sulla legittimità di questa attribuzione: tanto lo stile di Tourneur – sebbene non privo di una sua eleganza – è generalmente statico e ampolloso quanto quello del nostro anonimo è invece crudo, spigliato, dinamico. Altri hanno più recentemente tirato fuori il nome del grande Thomas Middleton, ed è probabile che ci abbiano azzeccato, ma ora la cosa non è di fondamentale importanza. Quel che invece bisogna assolutamente sapere è che chiunque abbia partorito i versi di questa tragedia ha scodellato uno dei più pazzeschi ed inquietanti capolavori del teatro inglese di ogni tempo.

Protagonista della nostra storia è Vindice, un cavaliere italiano, il revenger del titolo. È il primo a entrare in scena e a raccontarci l’antefatto di tutta la vicenda, abbracciando e coccolando un teschio che, veniamo subito a sapere, apparteneva un tempo alla sua amata. Gloriana era la donna che tutti avrebbero voluto avere, ma mentre tutti si accontentavano di sognarla il Duca, un fosco personaggio il cui nome non viene mai rivelato in tutto il corso della tragedia, aveva deciso di passare alle vie di fatto.

Invano Gloriana aveva resistito alle sue avances: quando il perfido vecchio si era visto respingere una volta di troppo aveva deciso di punire col veleno la sua ostinata fedeltà. Vindice ora è assetato di vendetta, ed è proprio nella corte del Duca che è determinato a cercarla. È una corte italiana, e questo, nell’immaginario collettivo del pubblico inglese dell’epoca, bastava a evocare all’istante quanto di peggio potesse esistere in materia di moralità; oggi l’Italia è il paese della pizza e dei mandolini, ai tempi era per gli Inglesi il paese del veleno, dell’intrigo politico, del vizio più sfrenato. Va anche detto che i personaggi lasciano ben poco spazio all’immaginazione già nei loro nomi; con una trovata bizzarra l’autore decide di fornirci subito, col nome del personaggio, il suo biglietto da visita.

Rembrandt, Un guerriero, 1626-1627
Rembrandt, Un guerriero, 1626-1627

È così che sulla scena sfilano Castiza, la buona sorella di Vindice; Ambitioso e Supervacuo, i due figliastri del duca, due personaggi grotteschi, quasi comici nel cieco perseguimento delle loro ambizioni; Lussurioso, il figlio maggiore del duca, forse il personaggio più interessante della tragedia. A completare l’allegro quadretto appaiono l’anonima Duchessa, la moglie del duca che cornifica gaiamente quel satiro del marito con Spurio, il suo bastardo; Junior, il figlio minore del duca che si ritrova senza nome solo perché Lussurioso era già preso; Gratiana, la madre di Vindice, di Castiza e del loro fratello Hippolito, che nonostante il nome falsamente rassicurante non esita a tentare di sacrificare la figlia alle sudice brame di Lussurioso pur di assicurare alla famiglia un’ascesa sociale.

Nelle tragedie di Shakespeare, che certo risulteranno più familiari al grande pubblico, la psicologia dei personaggi è tanto finemente delineata che a volte, nel dramma come nella vita, è impossibile determinare dove stia il bene e dove il male. Shakespeare, spesso, non porta in scena buoni e cattivi, bensì personaggi profondamente umani ritratti fin nelle loro più intime contraddizioni. Non a caso, invece, la Revenger’s Tragedy è stata da molti accostata all’antica tradizione dei morality plays in cui vizi e virtù recitavano in prima persona: i suoi personaggi sono vere e proprie passioni incarnate. Lussurioso, deposte le sue vesti frivole, potrebbe essere la lussuria in persona, senza rimorsi, senza ripensamenti: «Attend me: I am past my depth in lust, / And I must swim or drown» [1] confessa con candore al suo mezzano. I suoi due fratellastri rappresentano la pura ambizione, ma un’ambizione incredibilmente stupida, cieca, incapace di calcolo che alla fine li porterà a distruggersi a vicenda in una drammatica escalation di violenza.

Già, la violenza. Anche qui la differenza con Shakespeare risulta abbastanza scioccante. Nelle tragedie del bardo di Stratford i cadaveri vengono portati via col badile, è vero, ma quel che interessa all’autore è più che altro il dramma che sta dietro alla morte, non il travaso ematico in sé. Poche morti shakespeariane ci colpiscono per la loro violenza: la maggior parte dei trapassi avviene di spada o di veleno; sono morti emotivamente coinvolgenti, ma abbastanza ordinarie sul piano pratico. C’è solo una delle sue opere che quanto a barbarie può sostenere il confronto con la tragedia del nostro Anonimo, ed è il Tito Andronico. Una tragedia strana, sanguinaria oltre ogni decenza, la cui paternità non a caso è stata messa in dubbio per oltre due secoli. Il Tito, con i suoi stupri e le sue vendette granguignolesche, stona incredibilmente nella schiera delle raffinate tragedie sue sorelle, ma basta sfogliare quelle di altri autori di fine ‘500 per avere una certa sorpresa: Macbeth, Romeo e Giulietta, Re Lear erano l’eccezione, Tito Andronico era la regola.

Un esempio valga per tutti: la scena della morte del Duca. Con l’aiuto del fratello Hippolito, che astutamente nasconde i suoi disegni dietro un’apparenza da devoto cortigiano, Vindice si traveste da mezzano e organizza per l’anziano nobiluomo un rendez-vous con una splendida fanciulla. Il Duca si presenta all’abboccamento e licenzia il suo seguito: certe cose vanno fatte da soli. Con lui, in una stanza buia illuminata da un paio di candele, rimangono solo il finto mezzano e la fanciulla, che per modestia se ne sta con la faccia al muro in un angolo.

Jean Francois Millet, La morte e il taglialegna, 1849
Jean Francois Millet, La morte e il taglialegna, 1849

DUKE: […] Hast brought her? What lady is’t?
VINDICE: Faith, my lord, a country lady, a little bashful at first, as most of them are, but after the first kiss, my lord, the worst is past with them. Your grace knows now what you have to do. Sh’as somewhat a grave look with her, but –
DUKE: I love that best. Conduct her.
VINDICE:                                         (Have at all!)
DUKE: In gravest looks the greatest faults seem less;
Give me that sin that’s robed in holiness.
DUCA: L’hai portata? Che tipo di donna è?
VINDICE: Perdio, mio signore, una donna di campagna. Un po’ timida all’inizio, com’è la maggior parte di loro, ma dopo il primo bacio vedrete che il peggio è passato. Vostra grazia sa quel che deve fare. Ha nell’aspetto un non so che di gravità, ma…[2] DUCA: Tanto meglio. Portamela qui.
VINDICE:                                        (Fatti sotto!)
DUCA: Le colpe più gravi si stemperano, in uno sguardo  austero; datemi quel peccato che è vestito di santità.

Il Duca stampa un bacio sulle labbra della fanciulla ad occhi chiusi. Poi li apre, e vede la sua morte. Il volto della fanciulla è un teschio, il teschio di Gloriana montato su un manichino con una parrucca, un bel vestito e un potente veleno messo a mo’ di rossetto su quelle che una volta erano le sue labbra. Il Duca capisce tutto e stramazza al suolo, ma il peggio deve ancora venire. Nella stanza adiacente, di lì a poco, il figlio bastardo del Duca verrà a portarsi a letto la sua stessa matrigna: con le labbra insanguinate e i denti rosi dal veleno il Duca viene costretto ad assistere all’incesto. Poi, in un moto di pietà, Vindice lo pugnala.

Non meno singolare è il finale dell’opera. Durante la festa per l’incoronazione di Lussurioso come nuovo duca, Vindice porta a termine la sua vendetta mentre violini ed oboi accompagnano una macabra danza di maschere. Il nuovo duca muore, trafitto dalla spada di Vindice, così come muoiono anche Supervacuo e Ambitioso che si pugnalano a vicenda. Tutti gli altri cattivi della storia erano morti negli atti precedenti, quindi si potrebbe ancora sperare in un lieto fine. Ad occupare il trono ducale viene scelto Antonio, un nobiluomo vecchio e bigotto la cui moglie era stata stuprata e uccisa dal figlio minore della Duchessa.

Vindice e Hippolito hanno coronato la loro vendetta, quindi abbandonano ogni cautela: raccontano ad Antonio di essere stati loro ad uccidere il Duca e la sua famigliola, la vecchia vipera e la sua schiatta[3], e di aver riportato la pace in una corte corrotta. Antonio, però, non applaude. Come primo atto di governo fa arrestare i due fratelli e li condanna a morte. Hippolito protesta, ma Vindice lo zittisce: ora che hanno raggiunto il loro scopo il loro ruolo è finito, nella tragedia come nella vita.

Frans Hals, Giovane uomo con teschio, 1626-1628
Frans Hals, Giovane uomo con teschio, 1626-1628

VINDICE: Thou hast no conscience: are we not revenged?
Is there one enemy left alive amongst those?
‘Tis time to die, when we are ourselves our foes.
[…] We have enough,
I’ faith, we’re well: our mother turned, our sister true,
We die after a nest of dukes – adieu.
VINDICE: «Non hai coscienza: non siamo forse vendicati?
È forse rimasto in vita qualcuno dei nostri avversari, in mezzo a costoro?
È tempo di morire, quando noi stessi siamo i nostri nemici.
(…) Basta, in fede mia,
possiamo dirci soddisfatti: nostra madre si è pentita, nostra sorella è virtuosa,
andiamo a morire dopo una nidiata di duchi – addio.»

Sipario.

In uno dei suoi cinici soliloqui Lussurioso se n’era uscito con questa osservazione: «I know this, which I’ve never learned in schools: / The world’s divided into knaves and fools[4]Per quanto riguarda il suo mondo, il mondo della Revenger’s Tragedy, ha sicuramente ragione. Non c’è tragedia di quell’epoca che fornisca un più desolante quadro dell’umanità. Mettiamo da parte per un attimo i cattivi: a chi è affidato nell’opera il compito di rappresentare il bene?

A Vindice, che pur agendo in nome della giustizia si tira dietro una scia di sangue lunga come il Mississippi? A Gratiana, che alla fine si pente, ma che ha tentato di prostituire la virtù della sua stessa figlia? A Castiza, bella e virtuosa, ma che non esce mai dallo sfondo dell’azione? Al querulo Antonio, cui la rettitudine e la pietas non riescono comunque a fornire una qualche parvenza di spessore? Nella Revenger’s Tragedy non esistono grandi nel bene, solo grandi nel male.

E non è un caso che nelle moderne rappresentazioni la maggior parte dei registi decida di dare all’opera una tinta grottesca più che tragica, da commedia nera alla Tarantino[5]: se la si prende sul serio, quest’opera è insopportabile. Con la sua poesia cinica, ammiccante e sarcastica, con i suoi pacchiani spargimenti di sangue il nostro Anonimo ci fornisce – come bene o male fa o prova a fare chiunque scriva per il teatro – uno specchio con cui osservare noi stessi e il mondo che ci costruiamo intorno.

Uno specchio strano, deformante, di quelli che si trovano nei baracconi delle fiere. Attenzione, quindi, a prenderlo sul serio. Non sia mai che qualcuno ci si possa riconoscere per davvero.

 


In copertina: Illustrazione di Martina Trotta

Federico Franchin
Federico Franchin

Sono nato a Monza nel 1991 e vivo a Milano. Ho una spiccata tendenza a occuparmi di scrittori e musicisti giudicati minori o semisconosciuti, perché seriamente convinto che anche a loro faccia piacere sentir pronunciare il proprio nome, ogni tanto.