Come mai Rebecca West non ha ricevuto grande riconoscimento in passato, nonostante sia spesso definita una dei giganti della letteratura inglese?
Il riconoscimento c’è stato quando lei era in vita: tra gli anni quaranta e gli anni sessanta lei era il punto di riferimento giornalistico e intellettuale che faceva sentire la sua voce sulla politica, sull’attualità, e anche sulla letteratura. Negli anni settanta e ottanta, invece, c’è stato un declino, ci siamo dimenticati un po’ di lei; erano anche gli anni in cui si è studiato molto il circolo di Bloomsbury, Virginia Woolf, che sembravano le uniche voci degne di attenzione, diciamo, della letteratura femminile della prima metà del secolo. Poi una benemerita casa editrice inglese, la Virago, di impronta chiaramente femminista, si è messa a ripescare autori e titoli che erano stati trascurati. E da lì è rinato l’interesse per Rebecca West; anche perché, banalmente, era possibile recuperare i testi.
Così tra la fine degli anni novanta e gli anni duemila, di Rebecca West si incomincia a parlare parecchio, nei paesi anglosassoni. Noi arriviamo dopo ovviamente, anche perché le traduzioni arrivano dopo; bisogna aspettare Mattioli. È come nata due volte, in Italia, Rebecca; perché c’è stata appunto la prima traduzione della trilogia con Mattioli, e poi con Fazi che ne ha rilevato i diritti. E secondo me Fazi ha indovinato i tempi: con Mattioli c’era stato parecchio interesse più di critica, di recensioni, che di pubblico. Quello che è successo nel frattempo è che è scoppiata la passione per le saghe: sono arrivati i Cazalet, c’è stato Downton Abbey in tv, ci si è appassionati alle storie familiari.
Questo momento di passione per le storie a più volumi, che seguono i personaggi nel loro crescere, nel loro evolversi, ha aiutato moltissimo Rebecca West. Infatti Fazi ha intenzione di comprare i diritti di tutta la sua opera, per cui non ci si ferma qua, ma al ritmo di più o meno uno all’anno nei prossimi sei anni usciranno tutti gli altri libri, alcuni mai tradotti in Italia. Adesso ci sarà il terzo volume della trilogia, tra settembre e ottobre; e poi presumibilmente un primo inedito. Il titolo non lo posso dire, però arriverà un nuovo romanzo.
Rebecca West è certamente un personaggio poliedrico: cosa le ha fatto scattare quello che lei ha definito altrove “amore a prima vista”?
È stata assolutamente una risposta istintiva. Ora faccio solo la traduttrice e la scrittrice, ma prima lavoravo come ricercatrice in università, e mi stavo occupando di alcune autrici coetanee di Rebecca West. Di lei non avevo mai sentito parlare. Ad un certo punto incappo in un articolo che la cita, e mi incuriosisco, ovviamente. Allora attraverso le librerie dell’usato inglesi e giri vari ho recuperato il primo volume della trilogia.
Ho aperto la prima pagina, davvero, ho iniziato a leggere, e ho detto: ma come scrive questa donna. E poi: questo incipit è meraviglioso. Quest’idea di cominciare con un silenzio, con una pausa tra questi due genitori, la voce narrante di Rose che subito si impone con una personalità molto definita al lettore… l’ho trovato bellissimo. E mi è sembrato impossibile che nessuno in Italia avesse pensato di pubblicarla.
All’epoca già collaboravo con Mattioli e gliel’ho proposta. La sua reazione è stata esattamente la stessa; è uno di quegli editori molto istintivi, come me. Lui l’ha aperto, ha letto dieci righe e ha detto: facciamolo, è bellissimo.
E devo dire che anche gli altri romanzi sono bellissimi. Sono molto diversi tra loro, intanto. Una delle caratteristiche principali di Rebecca West, che la rende se vogliamo difficile da classificare ma molto più interessante di tante altre che hanno tenuto più o meno la stessa linea, è la versatilità. Lo vedrete se leggerete gli altri romanzi: ha scritto cose molto diverse, per genere, per registro, però con una qualità di scrittura, che è quella che mi ha fatto innamorare della trilogia, che rimane a livello altissimo. Questa capacità di trasformarsi, di usare l’ironia, e poi al romanzo storico, e poi a una storia tragica famigliare, è veramente la testimonianza del suo valore come scrittrice, innegabile.
Ha uno stile incredibilmente cristallino, eppure non ordinario, non consueto.
Assolutamente. Da tradurre non è una passeggiata, Rebecca West. Può sembrare più facile di altri, ma in realtà non lo è. Per due motivi. Uno, la sintassi: sono periodi molto lunghi, pieni di subordinate, molto ricchi… due, per il lessico. Ha una precisione nella scelta dei termini, anche quando si addentra in questioni tecniche; penso ad esempio alla trilogia, c’erano dettagli sull’architettura vittoriana, o sui finimenti dei cavalli, su cui sono diventata matta, perché bisognava restituire quella stessa esattezza. Non è di quelle scrittrici che ti servono un piatto facile, alla portata di tutti. Però se sei disposto a metterti in gioco e a farti portare nel suo mondo, ne vale la pena.
Rebecca West aveva a che fare più con i suoi contemporanei, o con il passato, oppure aveva un’idea di letteratura che guardava in avanti?
Mi viene da dire contemporanea e piuttosto protesa in avanti, anche per carattere e per natura. Lei era una poco abituata a guardarsi alle spalle, ed era molto presente ai problemi della contemporaneità, da un punto di vista politico, dal punto di vista del dibattito culturale. Ha fatto questi grandi reportage sull’apartheid in Sudafrica, sul processo di Norimberga, e questo interesse, questo radicamento forte nell’attualità lo si sente anche nei romanzi. Nella trilogia, la figura del padre: è un polemista, un giornalista che mette il naso in tutti gli affari di politica del suo tempo, ed è un po’ l’alter ego di Rebecca West. Quindi sì, una contemporanea con l’occhio ben saldo sugli sviluppi futuri della società nella quale viveva, e di cui rappresentava, in Inghilterra ma anche negli Stati Uniti, una voce molto ascoltata e molto autorevole.
Cosa significa tradurre un classico? È un compito più tecnico, più interpretativo… dove bisogna mettere l’accento?
I classici sono le opere più difficili da tradurre. Uno può pensare che sia difficile tradurre un romanzo contemporaneo, pieno di slang, di dialoghi veloci… in realtà no. Perché la difficoltà del tradurre un classico è riuscire a conciliare da una parte la sua natura, la sua essenza: lei deve rimanere Rebecca West e la distanza temporale che c’è tra noi e il momento in cui lei scrive – ormai sono quasi settant’anni – si deve sentire. Non si può tradurre un romanzo degli anni cinquanta come un romanzo contemporaneo.
Allo stesso tempo, però, la sfida è lavorare su una lingua che sia attuale: non c’è niente di peggio di una traduzione che suona, come dire… scordata, fuori tono. Ci sono le tanto vituperate “traduzioni d’autore”, Vittorini, Pavese… sono state tanto criticate, ma avevano un loro senso: la possibilità di dare un’impronta stilistica e di lavorare su una lingua con la padronanza che questi scrittori avevano. È ovvio che c’è una prima stesura il più fedele possibile, poi però chiudo il testo originale e lavoro sull’italiano. Altrimenti sarebbe come chiedere al lettore di comprarsi la traduzione ma poi di tenersi sul comodino anche l’originale e passare da una parte all’altra.
Conciliare il vecchio e il nuovo: le qualità che appartengono proprio a quel testo, ma che poi devono poter risuonare in una lingua accessibile. Adesso sto traducendo George Eliot, e qui la distanza è di centocinquant’anni; è ovvio che uno cerca un linguaggio agile, però il lettore deve avere la sensazione di leggere George Eliot, di immergersi nel mondo vittoriano, con la sua cultura, la sua lingua… è per questo, lo ammetto, che cerco di lavorare su questo tipo di testi: è più faticoso, ma è una bella sfida.
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