Il Trono di Spade, Chinese Edition – II
Alla fine dell’ultimo articolo abbiamo lasciato Cui Zhu, potentissimo ministro dell’antico ducato cinese di Qi, con le mani nella marmellata: dopo aver tolto di mezzo il proprio signore, il fatuo duca Zhuang, per una faccenda di corna, il ministro ha deciso di coronare una già ben avviata carriera a corte assumendo il controllo del paese. Per raggiungere i suoi scopi si è assicurato la collaborazione di un altro ministro, Qing Feng, e ha costretto gli ufficiali governativi a giurargli fedeltà minacciandoli di una morte orrenda qualora avessero tentato di opporsi. Yan Ying, l’astuto primo ministro del duca defunto, si è dato alla macchia con gran classe. Tutta la regione è in subbuglio. Dei quarantanove milioni intascati dalla Lega, ancora nessuna traccia.
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Nei giorni successivi all’omicidio del duca, tutte le preoccupazioni di Cui Zhu sono volte a presentarsi ai suoi nuovi sudditi con le mani pulite. In una società come quella dell’antica Cina, la legittimità del potere è tutto: il diritto a regnare viene conferito direttamente dal Cielo, e chi vuol fare il giochino di Napoleone e piazzarsi da solo una corona sulla testa deve dimostrare al popolino di essersela meritata. Cui Zhu, che ha colpito a tradimento il legittimo sovrano perché si è fatto un giro tra le sue lenzuola, non se l’è meritata.
Benché tenti in ogni modo di impedire che la morte improvvisa del duca venga collegata a lui, Cui Zhu sottovaluta tanto la vox populi quanto la proverbiale determinazione degli storiografi cinesi a far sì che venga ascoltata anche dai secoli successivi. In un passo rimasto giustamente celebre, il Commentario di Zuo ci fa capire in quale misura il ministro abbia fatto male i calcoli nello sperare che il proprio crimine possa passare inosservato:
Lo storico di corte scrisse: “Cui Zhu ha assassinato il proprio sovrano”. Cui Zhu lo mise a morte. I fratelli minori dello storico di corte gli succedettero nella carica e scrissero la stessa cosa; anche loro furono uccisi. Un altro fratello minore scrisse ancora una volta la stessa cosa, al che Cui Zhu decise di lasciar perdere. Lo storico delle regioni meridionali, quando venne a sapere che gli storici di corte erano stati tutti uccisi, afferrò le listerelle di bambù [sulle quali registrava i fatti del paese] e si mise in viaggio [per raggiungere la corte]. Quando però gli fu riferito che [Cui Zhu si era arreso e] la verità dei fatti era già stata messa per iscritto, se ne tornò a casa[1].
Cui Zhu sa che ogni eventuale passo da lui compiuto verso il trono del morto duca provocherebbe una sollevazione in grande stile di tutta l’aristocrazia. Decide perciò di mantenere un profilo relativamente basso, accontentandosi di pretendere per sé la carica di primo ministro che era stata di Yan Ying il filosofo: ogni incarico di rappresentanza viene delegato allo sbarbato fratellastro del duca Zhuang, quello che oggi la storia conosce come duca Jing di Qi. Nei tre anni che seguiranno, il duca Jing presterà la propria faccia a quelli che, essenzialmente, saranno i giochi politici di Cui Zhu e Qing Feng.
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La triste verità è che, invece di millantare una credibilità politica che non aveva, il primo ministro avrebbe fatto meglio a dare un’occhiata a quel che succedeva nel frattempo in casa sua. Come già sappiamo – e come il fu duca Zhuang sapeva assai meglio di noi – Cui Zhu aveva una moglie, la signora Jiang: da lei aveva avuto un figlio, Cui Ming, che evidentemente doveva stargli davvero simpatico. Tanto simpatico che un bel giorno decise di nominarlo suo erede universale, escludendo dal testamento i due figli avuti da un precedente matrimonio che, a rigor di legge, avrebbero dovuto avere la precedenza su di lui.
Se avete letto l’articolo precedente, questa situazione potrebbe ricordarvi qualcosa: è esattamente lo stesso tipo di inghippo che, alla morte del vecchio duca Ling di Qi, aveva consentito al duca Zhuang di salire al trono in un bagno di sangue. Gli spiacevoli fatti che seguirono questo caso di déjà-vu, se non altro, ci mostrano che Cui Zhu aveva un sacco di buone qualità, ma anche una memoria che faceva schifo.
I due figli maggiori di Cui Zhu, che evidentemente son fatti della stessa pasta del loro padre, decidono di rivolgersi al suo principale alleato perché li aiuti a raddrizzare il torto subito. Qing Feng, il fosco ministro che fino a questo momento abbiamo conosciuto unicamente nel ruolo di spalla, ascolta i loro piagnistei con grande attenzione e decide di assecondarli; poiché i due focosi ragazzi sostengono che Cui Zhu abbia deciso di diseredarli dietro consiglio dei parenti della sua nuova moglie, il ministro promette loro di assisterli in qualunque tipo di operazione decidano di intraprendere per vendicarsi di loro. Qing Feng, oltre a essere un collega di Cui Zhu, è anche un suo grande amico, e i due giovani si sentono le spalle coperte. Forti della sua protezione fanno la loro mossa, e all’inizio del nono mese massacrano i parenti della moglie del padre nel cortile della loro stessa casa.
Persino il sanguinario Cui Zhu è sconvolto da un gesto tanto audace. L’omicidio getta la sua casa nel panico: tutti i servi se la danno a gambe e, secondo il Commentario di Zuo, il capofamiglia «non riuscì a trovare nessuno che potesse legare i cavalli al suo carro[2]». Poco dopo, in compagnia di uno stalliere e di un eunuco raccattati in giro, Cui Zhu lascia la sua dimora in fretta e furia per chiedere aiuto all’unica persona di cui sente ancora di potersi fidare: il ministro Qing Feng.
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Qing Feng, come ricorderemo, ha segretamente promesso il suo sostegno agli esecutori materiali del delitto, ma questo non gli impedisce di accogliere l’amico con ogni premura. Ascolta il suo sfogo fino alla fine, ma proprio quando dovrebbe tener fede alla promessa fatta e prendere le difese degli assassini, ha un’uscita molto diversa. «La famiglia Cui e la famiglia Qing sono un’unica famiglia», esclama scandalizzato il ministro, «Come hanno osato compiere un’azione simile? Vi prego di concedermi di punirli al vostro posto[3]». Cui Zhu, che è stato abbandonato da tutti i suoi servitori, decide di acconsentire.
A un cenno di Qing Feng, una truppa di uomini armati marcia verso la dimora dei Cui per chiedere la consegna dei giovani criminali. Quando i familiari di Cui Zhu non lo riconoscono tra le file dei soldati, capiscono che c’è qualcosa di strano e rispondono picche, asserragliandosi all’interno del palazzo. Lupu Pie, il migliore amico di Qing Feng e il capitano di quel piccolo esercito, non ha tempo da spendere in trattative: dalle strade della città trascina con sé una raccogliticcia marmaglia di popolani incazzati perché lo aiutino a sfondare il portone, ma quando riesce finalmente a entrare nella casa non ripete due volte la stessa richiesta ai familiari di Cui Zhu. Lascia invece mano libera ai suoi soldati, che nel giro di poche ore spazzano via dalla faccia della terra ogni traccia della famiglia Cui: i due assassini vengono passati a fil di spada, la moglie di Cui Zhu si appende a una trave, i pochi che riescono a scampare a quell’orgia di violenza vengono condotti in catene a casa di Qing Feng.
Tutto finisce in un batter di ciglia, e un sorridente Lupu Pie può annunciare a Cui Zhu che i suoi torti sono stati vendicati; in un eccesso di cortesia, si offre persino di riaccompagnarlo dalla famiglia guidando il suo carro. Il ministro torna a casa, ma – dice splendidamente il Commentario di Zuo – «non c’era più una casa a cui tornare[4]».
Cui Zhu si impicca.
Qing Feng è il nuovo capo del governo.
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Se fino a quel giorno Qing Feng aveva tramato nell’ombra per mettere le grinfie sulla carica di primo ministro, dopo averla ottenuta fece di tutto per non darlo a intendere. Benché continuasse a insistere per ricevere di persona gli alti papaveri del governo, il suo primo passo fu quello di scaricare ogni responsabilità lavorativa sulle spalle del figlio Qing She per trasferirsi in casa dell’amico Lupu Pie: lì, a quanto sembra, i due compari trascorrevano le giornate a bere e ad andare a caccia, praticando nottetempo lo scambio delle mogli nella camera da letto.
Gli affari di stato, che per tre anni erano rimasti in mano a un uomo crudele ma competente come Cui Zhu, venivano ora demandati alla prole di un primo ministro ubriacone e scambista, mentre sul trono il duca Jing di Qi si guardava le unghie dei piedi fischiettando Livin’ la vida loca. Era più di quanto i membri dell’aristocrazia fossero disposti a sopportare.
Sul finire dell’anno 545 avanti Cristo, mentre è impegnato a celebrare un sacrificio, Qing She viene brutalmente assassinato all’interno del tempio. Per chi vi assiste, la scena non risulta piacevole:
Lupu Gui [il genero di Qing She] lo pugnalò da dietro, mentre [il suo complice] Wang He lo colpì con la sua ascia cerimoniale aprendogli in due la spalla sinistra. Anche in quelle condizioni, Qing She afferrò il pilastro centrale del tempio e cominciò a scuoterlo fino a far traballare le tegole del tetto; scagliando intorno a sé i vasi rituali e il banco sul quale era disposta la carne del sacrificio, riuscì a uccidere diversi uomini prima di soccombere[5].
Benché la trama veda coinvolti diversi membri della cerchia di Qing She – il genero Lupu Gui e la sua stessa figlia – gli assassini non si sono mossi da soli: almeno due delle famiglie più in vista del ducato di Qi hanno prestato loro, se non un’attiva partecipazione, almeno un complice silenzio. Il duca Jing, cui non par vero di aver trovato un’occasione per provare finalmente una qualche emozione, pensa che l’omicidio sia stato commesso in vista di un colpo di stato e teme per la propria vita, ma un emissario della potente famiglia Bao si premura di rassicurarlo: i nobili del paese si sono destati dal loro torpore, e hanno intenzione di restituire al duca le sue prerogative di governo.
Qing Feng, che tanto per cambiare all’epoca dei fatti è impegnato in una battuta di caccia con l’amichetto Lupu Pie, viene a sapere della morte del figlio soltanto dopo qualche giorno, quando ormai è troppo tardi per qualunque cosa: un futile tentativo di resistenza da parte dei suoi uomini è stroncato sul nascere dagli eserciti privati delle famiglie dell’aristocrazia e dalle truppe ducali. Tre anni dopo l’omicidio del duca Zhuang e pochi mesi dopo l’annientamento della famiglia Cui, la stella del duca Jing torna prepotente a splendere in mezzo alla galassia politica del paese di Qi.
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Qing Feng, quanto a lui, morì come tutti si muore – benché in modo un po’ più colorito. Dopo aver visto svanire come sabbia nel vento ogni sua speranza di grandezza, decide di lasciare il paese alla chetichella: si rifugia in un primo momento nel vicino ducato di Lu, per poi mettersi in viaggio alla volta del regno meridionale di Wu. Laggiù, la sfacciata fortuna che gli ha permesso di uscire indenne dalle conseguenze delle sue stesse machiavellerie sembra tornare ad assisterlo nella persona del sovrano locale, re Yuji di Wu, che lo prende in simpatia e gli assegna uno dei propri feudi in appannaggio. Potendo finalmente contare su un nuovo quartier generale, Qing Feng raduna intorno a sé quel che resta della propria famiglia: per qualche anno, le rendite del feudo lo rendono ancora una volta oscenamente ricco.
La situazione precipita bruscamente allorché, nel 538 avanti Cristo, il re Ling dello stato di Chu invade il regno di Wu con l’intenzione di (aperte virgolette) vendicare i crimini commessi da Qing Feng contro la casa ducale di Qi (chiuse virgolette). Si tratta probabilmente di una patetica scusa ideata da re Ling per nascondere le proprie mire espansionistiche, come dimostra il fatto che il duca Jing di Qi, nel nome del quale le armate di Chu affermano di combattere, non viene neanche informato dell’operazione. Dopo un mese di assedio, il feudo di Qing Feng viene espugnato e la sua famiglia sterminata.
L’ex ministro traditore, invece, viene catturato vivo. Re Ling ha intenzione di infliggergli un castigo esemplare per dar corpo alla propria messinscena, perciò, dopo avergli fatto legare un’ascia sulla schiena in segno di sottomissione, gli ordina di recarsi a rendere omaggio a tutti i nobili presenti nel suo accampamento militare; davanti a ciascuno di essi, Qing Feng dovrà ripetere sempre la stessa frase: «Non seguite l’esempio di Qing Feng di Qi, che ha assassinato il proprio signore, umiliato il suo successore e costretto i grandi del ducato a stringere con lui un patto di sangue».
Davanti a una simile prospettiva, persino l’orgoglio di Qing Feng ha un sussulto: che un sovrano mezzo barbaro come re Ling di Chu, a sua volta salito al trono con l’inganno, venga a dargli lezioni di moralità è veramente troppo. Il prigioniero compie il proprio giro della vergogna con estrema diligenza, ma davanti a ciascuno dei nobili pronti ad ascoltare la sua confessione ripete un invito leggermente modificato. «Non seguite l’esempio di re Ling di Chu», esclama Qing Feng con trasporto, «figlio di una consorte secondaria di re Gong di Chu, che ha assassinato il proprio signore legittimo […] usurpando il trono, e che ha costretto i signori feudali a stringere un patto di sangue con lui![6]» Re Ling, gelido, non riesce a cogliere l’ironia della situazione. Nel giro di un istante la testa di Qing Feng rotola sul terreno.
Se a questo punto volete scoprire quali altre mirabolanti avventure attendano il duca Jing sul suo ritrovato trono di Qi, vi invitiamo a non perdervi il prossimo articolo
Nota: come per l’articolo precedente, la fonte principale per le citazioni è stata la traduzione del Commentario di Zuo curata da Stephen Durrant, Wai-yee Li e David Schaberg: Zuo Tradition (Zuozhuan) – Commentary on the “Spring and Autumn Annals” – University of Washington Press, Seattle and London, 2016. La mia narrazione è ancora essenzialmente basata sull’introduzione di Olivia Milburn al volume The Spring and Autumn Annals of Master Yan – Brill, Leiden and Boston, 2016. Le citazioni sono state occasionalmente modificate in modo lieve, per renderne più chiaro il senso ai lettori che hanno poca familiarità con la storia cinese.
In copertina: Utagawa Kuniyoshi, Lu Junyi, dalla serie dei 108 eroi del romanzo cinese Suikoden (sì, sappiamo che illustrare un ciclo sulla storia cinese del 500 a.C. con stampe giapponesi dell’800 è un tantino filologicamente scorretto. Purtroppo però l’arte cinese è estremamente povera di sangue, congiure & affini. Portate pazienza e godetevi le opere di Kuniyoshi),[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]