Kurdistan Davide Cipolat

Saluti dal Kurdistan

Sentiamo tanto parlare del Kurdistan, di questa nazione divisa in tre stati, di questi Pesh Merga col fucile in spalla che oggi combattono contro l’ISIS, così vicino a noi, su quella striscia invisibile che separa la Siria dalla Turchia. In questi giorni sta avvenendo una battaglia decisiva ad una sessantina di chilometri da Şanlıurfa, la città millenaria dove è nato Abramo. Si tratta di una guerra particolare, che sta dividendo il mondo arabo, e ha coinvolto un popolo che arabo non è, e nemmeno turco: i curdi. Ma chi sono questi curdi? Cos’è questa guerra fratricida, così vicina al nostro “occidente”?

Il primo impatto è di una differenza totale con il nostro mondo. Si tratta di paesi lontani anni luce; ci aggiriamo tra le case addossate le une alle altre chiedendoci continuamente che razza di paese sia, dove siamo capitati. È un paesaggio diversissimo dal nostro, straniante, che in fotografia rende poco, sabbia e dune, case e rocce; qualche albero, a macchie, e poi le città piene di frastuono, gente, automobili tantissime a branchi.

Siamo in Turchia, al confine con la Siria. Şanlıurfa, Diyarbakır, Kızıltepe: nomi di città sconosciute. Ce n’è anche una che si chiama Batman. E poi Mardin, che vorrebbe diventare città leader del turismo, ma così vicina al confine, chissà se mai ci riuscirà. Eppure turisti ce ne sono, non sembra che ad un’ora di macchina ci sia la guerra.

Nessuno nel Kurdistan turco sembra far molto caso a questa guerra fuori porta, almeno fino a qualche mese fa. L’orgoglio nazionale curdo non è mai tramontato, eppure non sembra esserci molto interesse per quei fratelli che oltre confine combattono. Anche l’antico vessillo del PKK è una scritta sui muri, un ritratto in qualche bar, ma poco di più, sostituito dal burocratico e più moderato Partito Democratico Curdo.

Sanliurfa
Sanliurfa (photo: Davide Cipolat)

Sono un popolo strano, questi curdi. Non si preoccupano mai. Sembrano aver fatto propri i versi del poeta seicentesco Ahmadi Khani: «Se questo frutto non è succoso / è curdo, ed è quel che conta». Una ragazza che insegna inglese a Sulaimana diceva sempre “In televisione non ti dicono che la vita deve continuare”. E con molta nonchalance la vita, effettivamente, continua.

All’ombra di quattro arbusti, la strada per Aleppo scorre sotto di me. Ho in mano un libro di poesie, Canti d’amore e di libertà del popolo kurdo. Parlano tutte di un amore assoluto, nullificante, poco importa se per la patria o una donna. Mi capita sotto gli occhi questa poesia di fine ottocento, sempre anonima, che racconta i sentimenti di una specie di Foscolo curdo:

Brillano nella notte le stelle lontane
tristi come io son triste, come me insonni.
Da anni, loro e io, conosciamo le notti di veglia;
quante notti, loro e io, senza posare il capo!
Ieri, all’alba, piangevano la mia sorte
vedendomi perso, infelice fra amici e nemici.
Mai avevo sentito per me tale affanno, mai,
sullla mia sorte, un pianto di nuvola che si disperde.
Lacrime di stelle! E credevo fosse solo rugiada.
Al vento ho chiesto di farsi dire il motivo di tanta tristezza.
Perché le stelle non sono come noi siamo,
le stelle, loro, stanno vicino al cuore di Dio.
E il messaggero tracciò sull’erba, con la rugiada
“la fiamma del dolore dei curdi è salita fino al cielo,
il grido dei Kurdi del Nord è arrivato al cielo:
è l’ardore dei loro sospiri, che ci fa lacrimare.

(Canti d’amore e di libertà del popolo curdo, 1993 Newton Compton, pp. 44, 45)

Oggi c’è poco di questo amore, ha vinto la rassegnazione. Se qualcosa permane è la malinconia. A Diyarbakır lo si vede bene: cupa seppur in pieno sole, un immenso nonluogo dove anche i canti dei muezzin si fanno tristi. Eppure per questo fazzoletto di terra si è combattuto, si è sparso sangue. Come se questa miseria fosse un tesoro da salvare. Ma oggi c’è poco di tutto ciò.

Diyarbakir (photo: Davide Cipolat)
Diyarbakir (photo: Davide Cipolat)

Per fortuna ci sono i ragazzi, questi ragazzini che hanno ancora meno futuro di noi, che vivono così e prendono le giornate per come vengono, come i raggi del sole. Saltano come stambecchi su e giù dalle colline, ci guidano per i campi brulli, sopra muriccioli a secco rubando l’uva che cresce ovunque suscitando le ire dei contadini; sanno dove si può trovare acqua fresca e (forse) potabile. Tutto questo paese sono i volti di bimbi e ragazzi. Loro lo sanno e fanno i cartelloni per i turisti con le loro facce.

Anche questo incanto si spegne. Sei turista, e turista rimani: ci sono addirittura agenzie che organizzano tour a Fatih, il quartiere povero di Istanbul. Per chi ha voglia di vedere tutto, anche le bambine di due anni che mendicano; tu regali un pezzo di pane e vedi i loro occhi aprirsi enormi come se non avessero mai visto nulla di simile. Per chi vuole vedere il mendicante storpio per la strada e le case fatte di niente nei loro scheletri nudi. Per chi vuole vedere tutto ciò ma si vuole sporcare poco. Agli schizzinosi abbiamo imparato a non consigliare una visita alle macellerie. Ma tutto sommato anche noi, pur viaggiando in solitaria, ci siamo sporcati poco.

La guerra è come la nebbia, più ti avvicini più si dirada. Fino a quando non diventa di colpo densissima, e allora ti ingoia. Ha ingoiato in quei giorni Greta e Vanessa, scopriremo poi, in Italia, le due ragazze della nostra età rapite in Siria. Loro quella cortina invisibile l’hanno attraversata. Qualcuno dice che sono state imprudenti. Qualcuno le ha pure insultate.

Ma loro non erano in vacanza: hanno fondato Horryaty, associazione per l’assistenza sanitaria in Siria, che non si è fermata e continua come prima la distribuzione degli aiuti. Imprudenti? Forse sì. Ma d’altra parte, loro stavano provando a costruire qualcosa. Noi ci limitiamo a guardarla appena fuori da Kızıltepe, in mezzo al deserto rosso di sabbia, fra scheletri di case in costruzione e mandrie di pecore che passano pascolando il nulla. Quella linea che si perde nella foschia, mezza verde mezza bruna, l’intravediamo appena; poi, impotenti, torniamo a casa con la testa piena di dubbi.

 


In copertina: Ragazza nel cortile della moschea di Yavuz Selim a Istanbul (photo: Davide Cipolat)

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