Il viaggio di Halla, di Naomi Mitchison. Elogio della semplicità dimenticata

Naomi Mitchison, Il viaggio di Halla

Per quali motivi si apprezza un racconto? Quali sono le caratteristiche che rendono un’opera una grande opera, meritevole come tale di essere conosciuta e tramandata? È una di quelle domande troppo vaste, cui è impossibile assegnare una risposta univoca e incontrovertibile.

Troppi sono i motivi possibili per conferire rispetto ad una storia. Ci sono opere che si impongono per la loro novità, perché aprono delle prospettive che fino a quel momento nessuno avrebbe mai osato immaginare, tanto meno descrivere. Ci sono opere che invece apprezziamo per la loro profondità e arguzia, capaci di mostrare i significati profondi e le implicazioni nascoste. Ci sono infine opere di cui noi notiamo la pluralità di livelli, che le rende accessibili a fasce diverse di pubblico, ineguali per età o educazione, senza perdere in godibilità.

E poi ci sono altre opere. Alcuni racconti funzionano perché sono sé stessi: si dedicano convintamente alla propria semplicità, senza bisogno di ricercare sofisticatezze; e nella loro semplicità, riescono a raggiungere il piacere puro e istintivo di narrare una bella storia, capace di avvincerci in sé e da sé. Sono occasioni tanto più preziose quanto è difficile creare qualcosa di veramente classico, e ancor più difficile farlo senza cedere alla tentazione dell’ironia o della presa di distanze. Oggi vi presentiamo una di queste storie.

Con un po’ di fortuna – e forse l’illustratore adeguato – Il viaggio di Halla avrebbe potuto essere uno dei più popolari libri per ragazzi del secolo scorso. Possiede tutte le caratteristiche giuste: è di una sfolgorante estrosità, ricco di delizie e confonde le aspettative ad ogni giro di pagina. Invece, le sue copie, lette e stralette, sono state passate di mano in mano dai lettori che le hanno date agli amici dicendo: «Leggi il primo capitolo. Vedrai»[1].

Il viaggio di Halla (Travel Light) è un racconto straordinario, e leggendolo non si può fare a meno di domandarsi per quale motivo non abbia avuto il meritato posto nel canone dei classici del fantastico. Per noi italiani l’onta è doppia e aggravata: benché pubblicato in originale nel 1952, il nostro paese ha dovuto aspettare fino al 2020 per poterlo leggere nell’edizione Fazi.

J.R.R. Tolkien, Bilbo arriva alle case dei raft-elves, 1937
J.R.R. Tolkien, Bilbo arriva alle capanne degli Elfi barcaioli, illustrazione per Lo Hobbit, 1937 (seconda ristampa).

La quarta di copertina, con gli elogi e gli apprezzamenti di grandi nomi come Holly Black e Ursula K. Le Guin, non fa altro che coltivare la curiosità e la meraviglia per questo piccolo tesoro, e rinnovare lo sgomento di averlo ignorato fino ad oggi. E infine, terminata la lettura, scopriremo di aver riscoperto qualcosa noto da tempo, che avevamo dimenticato.

Per presentare l’autrice, Fazi la descrive quale intima amica del professor Tolkien, al punto da essere stata una delle prime lettrici de Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli durante la loro composizione. Ma Naomi Mitchison, nata Haldane (1897-1999) fu assai più di questo: moglie del noto avvocato e politico Dick Mitchison, in seguito all’investitura di questi a barone ottiene il titolo di lady, che pure non userà mai, e nel 1981 sarà nominata suo jure commendatrice dell’ordine dell’impero britannico.

Proveniente da un’illustre famiglia di scienziati, scoprì assai presto il suo amore per la letteratura, e pubblicò nel corso della sua vita oltre novanta tra romanzi storici, storie di fantascienza e racconti di viaggio. E contrariamente allo stereotipo per cui il fantasy è un genere conservatore e passatista, Naomi Mitchison fu socialista e femminista, attenta osservatrice dell’ascesa del fascismo e della condizione popolare in Unione Sovietica, attivista per il controllo delle nascite e l’informazione sulla sessualità femminile.

Purtroppo, poco o niente di questo è disponibile a noi, come testimonia l’impietoso confronto tra le voci italiana e inglese su Wikipedia. Se le mie ricerche non sono state vane, di tutta la sua produzione sono stati tradotti solamente Memorie di un’astronauta donna (Memoirs of a Spacewoman, 1962) e Il viaggio di Halla. Diventa difficile condurre un’indagine approfondita del rapporto tra il romanzo e l’autrice quando uno dei due è un scoperta recente, e l’altra un mistero ancora nascosto. Pertanto non lo faremo, e del resto non ne abbiamo alcun bisogno: il valore di questo libro non ha bisogno di alcuna giustificazione esterna, e risiede unicamente dentro di sé.

All’inizio di questa presentazione ho affermato che il pregio di alcuni racconti sta nella loro genuina semplicità. Certamente questo è il caso de Il viaggio di Halla, che non si nasconde mai dietro a sofisticati stratagemmi o a confusioni letterarie; questo racconto dichiara fin dalle prime pagine di essere esattamente quello che appare, di esserlo fino in fondo e senza compromessi, con la stessa sincerità disarmante della sua protagonista, e fa della semplicità l’unico suo bagaglio. Racconta una storia per il puro piacere di raccontarla, e intesse una fiaba cristallina perché è il modo migliore per mettere in scena la sua vicenda.

J.R.R. Tolkien, Glaurung esce a cercare Turin Turambar, 1927, The Silmarillion Calendar nel 1978.
J.R.R. Tolkien, Glórund parte alla ricerca di Túrin, 1927, acquerello, inchiostro nero, pubblicato per la prima volta in The Silmarillion Calendar nel 1978.

La partenza segue il più classico degli incipit: la nuova moglie del re convince il fresco marito a sbarazzarsi della figlia neonata della regina defunta, e la nutrice deve mettere la bimba in salvo portandola tra gli orsi, di cui può assumere la forma. Ma qui avviene il primo ribaltamento del canovaccio classico: tradizionalmente, il giovane eroe è sottratto alla civiltà e cresciuto in mezzo alle fiere solo per venirvi restituito in età adulta, ritornando così nell’ordine del mondo umano. Questo non avviene per Halla, cresciuta prima dagli orsi e poi dai draghi, dei quali riceve la cultura e la visione:

E poi apprese della ribellione degli uomini contro i draghi: di come gli uomini erano stati istruiti dal Mastro Drago ad allevare pecore e mucche destinate alla cena dei draghi e a non lamentarsi se, di tanto in tanto, un pastore veniva divorato assieme al suo gregge […]. Di tanto in tanto, e per il bene di tutti, agli uomini veniva ordinato di offrire al loro drago d’elezione una principessa fresca e succosa. Si diceva che per le principesse fosse un’esperienza deliziosa. Di sicuro lo era per i draghi.

Ma gli uomini divennero ribelli. Re, campioni ed eroi, scorrettamente equipaggiati con armature ignifughe e lance sgradevoli, furono incoraggiati, da certi elementi clandestini e contro i desideri e gli interessi del grosso della popolazione, a intromettersi tra le principesse e i draghi […]. Si potrebbe verificare che a nessuna principessa sia mai stato chiesto se voleva essere salvata e portata via da un massacratore di draghi, verso un destino (senza dubbio) peggiore della morte.

Normalmente, un simile cambio di prospettiva avrebbe principalmente una funzione ironica, di ammiccamento al pubblico e di presa di distanza. Qui invece il differente punto di vista viene impiegato in tutta serietà e sincerità, e conferisce alla protagonista uno sguardo inusuale sul mondo, capace di sgomentare tutti coloro che incontrerà.

Ben presto, Halla è costretta a partire, a viaggiare leggera come il titolo originale, alla volta del mondo degli uomini e dei suoi splendori. Attraverso le terre di Holmgard e Marob e Miklagard sul Mare di Mezzo, il cui Mastro Drago ha raccolto il più grande e splendido tesoro del mondo, la nostra fanciulla dal cuore dolce e capace di parlare tutte le lingue degli uomini e degli animali vivrà le sue avventure.

J.R.R. Tolkien, La montagna solitaria
J.R.R. Tolkien, La porta principale, illustrazione per Lo Hobbit, 1938. La versione a colori di E.H. Riddet comparve per la prima volta nello Hobbit Calendar 1976 (1975)

Il suo sguardo libero e schietto le permetterà di scoprire ogni volta un mondo nuovo, e di mettere chi incontra, lei per prima, di fronte ai propri limiti e ai propri preconcetti. E assieme a lei anche il lettore deve abbandonare ciò che credeva di sapere per riscoprire un mondo assai più vasto e meraviglioso.

Come ogni fiaba che si rispetti, anche Il viaggio di Halla è teso nella contrapposizione di un mondo antico e affascinante prossimo alla scomparsa e di un presente che diviene via via più misero: il tempo dei draghi sta finendo, i re e gli eroi cominciano ad accumulare i tesori invece di spartirli. Nello scorrere della storia, i protagonisti sono costretti a fare i conti con una visione del mondo che ormai è superata, e la scoperta dell’altro li porta a capire che il loro universo si è dileguato:

«C’è stato un tempo», disse Kiot, «in cui abbiamo creduto che la legge dell’imperatore fosse anche la legge di Dio. È quello che disse il primo prete. Mio nonno Niar è morto perché, allora, questo era vero. O lui pensava che lo fosse. Di sicuro è morto a causa di ciò che credeva essere buono. Se noi non fossimo venuti qui, avremmo potuto continuare a crederlo».

«E adesso», disse Tarkan Der, «adesso, nella migliore delle ipotesi, perdiamo un cattivo governatore e, forse, ne otteniamo uno buono. Ma non saremo capaci di credere che arrivi da Dio. Il popolo di Marob lo saluterà come l’ambasciatore di Dio. Ma noi sapremo che non lo è affatto. Siamo diventati diversi da tutti gli altri».

Ed è con suprema delicatezza che Halla prende per mano i suoi compagni, ed il lettore con loro, e li guida con passo sicuro in ogni peripezia, adattandosi ad ogni imprevisto con la stessa facilità con cui il narratore le attribuisce titoli nuovi: Halla Figlia degli Orsi, Halla Terrore degli Eroi, Halla Dono di Dio, sempre diversa e uguale a sé stessa, capace di condurci con levità nel sogno del racconto.

Si può viaggiare leggeri.

 

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Come osservato nell’introduzione all’edizione italiana, Il viaggio di Halla non vanta illustrazioni a corredo del racconto. Per accompagnare questo articolo abbiamo optato per gli acquerelli di J.R.R. Tolkien, sia in virtù dell’amicizia personale tra i due autori sia per le vicinanze stilistiche e poetiche delle loro storie.

Alessandro Sergio Martino Gentile, autore di Storie Sepolte
Alessandro Sergio Martino Gentile

Quando ero bambino, chiedevo che mi raccontassero delle storie. Mi affascinavano tutte, dai miti greci ai racconti dei cavalieri, dalle fiabe alle avventure di pirati. L'esito inevitabile era finire a studiare la Storia, con la s maiuscola, per tentare di capire da dove veniamo. Nel frattempo sono stato maestro di scuola e volontario del servizio civile, e collaboro dentro e fuori il palco del teatro con Associazione Studio Novecento. Amo il silenzio e la musica classica, la lettura e le camminate, la buona cucina di mano mia o altrui.