Il matto e i bambù – Vita di Wang Huizhi

arte cinese

Dimentica gli anni, dimentica le nozioni:
Abbandonati all’infinito e fanne la tua dimora.

Zhuangzi

Quando Zhidun, il maestro buddhista, tornò a casa dopo un viaggio nelle province orientali della Cina, dovette sobbarcarsi l’incombenza di informare amici e conoscenti riguardo alle sue esperienze laggiù. Uno di questi, ricordandosi del fatto che nella remota provincia dello Zhejiang viveva uno dei più grandi calligrafi dell’impero e che Zhidun aveva avuto, in passato, già modo di conoscerlo, volle sapere se per caso fosse stato a far visita a lui e alla sua numerosa prole. Il monaco annuì in silenzio. «Ebbene», insisté l’amico, «dopo aver visto gli Wang, cosa pensi di loro?» La risposta di Zhidun fu secca: «Non ho visto altro che uno stormo di corvi, né ho udito altro che il suono del loro gracchiare».

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Non c’era dubbio che gli Wang fossero una strana combriccola. La famiglia, marchiata dall’infamia di un aborto di ribellione scatenato da un loro parente contro la dinastia dei Jin Orientali, viveva di fatto all’ombra del grande nome del suo patriarca. Al celebre letterato e calligrafo Wang Xizhi si attagliavano benissimo le stesse caratteristiche del suo stile di scrittura: “ora vagola come una nuvola spinta dal vento, ora s’erge maestoso come un dragone destato dal sonno”; versato nelle arti e nella filosofia, Xizhi aveva saputo far dimenticare persino al sovrano dei Jin lo sgarbo fatto alla dinastia dal suo zio traditore: aveva fatto carriera nell’esercito, arrivando a ricoprire la carica di generale e guadagnandosi un posto di rispetto nella società del tempo. E tuttavia, se possibile, anche i suoi cospicui meriti militari impallidivano di fronte a quelli artistici, che lo facevano segnare a dito come il più grande calligrafo della sua epoca e che, dopo la sua morte, avrebbero fatto di lui una specie di faro di quest’arte per tutti i secoli a venire fino ai nostri giorni.

Xizhi aveva sette figli che gli assomigliavano. Erano cresciuti in un milieu culturalmente stimolante, in cui gli impegni militari del papà calligrafo non avevano in alcun modo smorzato una certa aria di libertà intellettuale che faceva della sua dimora un circolo filosofico e letterario di altissimo livello. Pur se imbevuti – come ogni suddito dell’impero – di un’ideologia fondamentalmente basata sul pensiero di Confucio e dei suoi scritti, che enfatizzavano una rigida rettitudine morale e una ritualità quasi maniacale nel verbo e nell’azione, le simpatie degli Wang inclinavano in modo deciso verso le altre due grandi correnti di pensiero della Cina del tempo: daoismo e buddhismo. Contrariamente ai dettami di Confucio, i grandi testi del daoismo ponevano l’accento sulla coltivazione dell’individualità e sul sostanziale disprezzo per le convenzioni sociali.

Sebbene potessero apparire incompatibili, daoismo e confucianesimo erano in realtà considerati da molti cinesi del tempo in modo molto pragmatico. I funzionari dell’impero che, nella vita pubblica, si attenevano a una rigorosa etichetta, si lasciavano andare nel privato a una più libera espressione del pensiero e del sentimento: abbastanza stranamente, poteva capitare che i più ligi burocrati del giorno risultassero essere i migliori poeti della notte. Era un delicato equilibrio che alcuni, come Wang Xizhi, riuscivano a mantenere con grazia funambolica. Ma che altri, come alcuni dei suoi figli, finivano per mandare irrimediabilmente a puttane.

Thomas Allom, George Newenham Wright, L'impero cinese illustrato, 1840-45
Thomas Allom, George Newenham Wright, L’impero cinese illustrato, 1840-45

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Di Wang Huizhi, il quinto figlio del generale calligrafo, non si conosce la data di nascita; a volergli cortesemente far dono di una lunga vita, dal momento che morì nel 388, la si potrebbe collocare nei primi decenni del IV secolo. La sua educazione passò certamente attraverso la memorizzazione dei grandi classici del pensiero cinese, gli scritti di Confucio e dei suoi seguaci che ogni bravo scolaretto dell’impero sapeva recitare d’un fiato dall’inizio alla fine, saltellando su un piede solo e giocando a biliardino.

Grazie alla biblioteca del padre, il giovane Huizhi integrò le nozioni ricevute con una perfetta padronanza dell’arte poetica e una profonda conoscenza dei grandi filosofi del passato. Di almeno uno di essi – quel celebre e misterioso daoista Zhuang Zhou che secoli prima aveva vissuto ritirato dal mondo, dai suoi re e dai suoi filosofi ponendo alla base di ogni suo gesto una spontaneità condita di giocosa provocazione – si può dire con certezza che esercitò, sul carattere del giovane, un’influenza decisiva[2].

A giudicare da ciò che accadde in seguito possiamo senz’altro affermare che, se Confucio fece di Wang Huizhi un suddito dell’impero, furono Zhuang e quelli della sua razza a fare di lui un uomo.

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Che Wang Huizhi fosse fatto d’una pasta tutta sua, il padre cominciò a capirlo quando tentò di avviarlo alla carriera militare. Grazie alla sua influenza era riuscito a trovargli un buon posto come aiutante di campo nell’esercito del generale Huan Chong, che volle assegnarlo al reparto cavalleria. Non fu una buona idea.

Quando Wang Huizhi prestava servizio come aiutante di campo per la cavalleria di Huan Chong, Huan gli domandò: «Quali sono le tue mansioni?» «Non lo so», rispose Wang, «ma visto che di quando in quando vedo persone che mi portano qui dei cavalli, penso che abbiano qualcosa a che fare con i cavalli».

Le fonti dell’epoca si sprecano nel tramandare aneddoti sulla disastrosa esperienza di Wang Huizhi sul campo di battaglia. Alcuni rendono perfettamente chiaro il fatto che il giovane, con tutta la sua cultura, non avesse la minima idea riguardo al significato della parola “gerarchia”:

Wang Huizhi stava accompagnando Huan Chong in un viaggio, quando venne giù un acquazzone. Huizhi allora smontò da cavallo e, scostando le tendine della carrozza di Huan, ci saltò dentro dicendogli: «E come ha fatto Vostra Eccellenza a pigliarsi una carrozza tutta per sé?»

Altri sono piuttosto espliciti nel comunicarci che la vita militare di Huizhi fu, in sostanza, un continuo scivolare di male…

Quando Wang Huizhi prestava servizio come aiutante di Huan Chong, costui gli disse: «È tanto tempo che sei qui al mio servizio. È ora che ci diamo da fare e sistemiamo le tue faccende». All’inizio Wang non fece motto, si limitò ad alzare gli occhi al cielo con la sua tavoletta appoggiata alla guancia. Alla fine, dopo un po’, disse: «Sin dal mattino, le Colline Occidentali hanno un non so che di gioioso![3]»

…in peggio.

[…] In un’altra occasione ancora, Huan domandò: «Quanti cavalli sono morti?» Al che Wang rispose: «Se non si sa nulla della vita, come si potrebbe sapere qualcosa della morte?[4]»

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Thomas Allom, George Newenham Wright, L'impero cinese illustrato, 1840-45
Thomas Allom, George Newenham Wright, L’impero cinese illustrato, 1840-45

Nell’antica Cina, l’eccentricità era come il formaggio sul pesce: un’aberrazione socio-culturale che solo una grazia innata e alcune circostanze particolari rendevano scusabile in determinati individui. Nel IV secolo tuttavia, con l’impero dilaniato da guerre interminabili e frammentato in una miriade di stati che ne reclamavano la completa supremazia, molti intellettuali cinesi vedevano in essa una via di fuga dalla profonda crisi che scaturiva dal contrapporsi di due distinti aspetti del loro pensiero[5]. Ziran – favorito dal daoismo – era la spontaneità, la voglia di vivere seguendo l’istinto del momento e in conformità a quella che veniva inquadrata come “via della natura umana”; mingjiao era il confucianesimo, gli insegnamenti morali, la base su cui poggiava l’ossatura stessa dell’impero[6]. Trascurare il primo aspetto voleva dire mettersi in conflitto con se stessi, ma trascurare il secondo significava mettersi in conflitto con – letteralmente – chiunque altro.

Wang Huizhi, restituito di forza alla vita civile, risolse questo conflitto con una certa rapidità piegandosi decisamente verso la seconda opzione. Ritiratosi in una specie di eremo di montagna, prese a delegare ai servi ogni mansione votata al proprio basilare sostentamento e a dedicarsi a una vita da bohémien fatta di poesia e di raffinato estetismo. Fu probabilmente in questo periodo che uno dei tratti più noti e controversi della sua eccentricità cominciò a manifestarsi agli occhi attenti della voce pubblica.

Nella solitudine del suo ritiro, Huizhi sviluppò un’ossessione quasi morbosa per le piante di bambù. Se ne circondava in continuazione, non stancandosi mai di ammirarle e, talvolta, di conversarci assieme. Noto era ai suoi tempi un aneddoto secondo il quale

Wang Huizhi andò ad alloggiare per qualche tempo nella casa lasciata libera da un altro uomo, e ordinò che vi venissero piantati dei bambù. Qualcuno gli chiese: «Perché ti dai pensiero di una cosa simile, visto che abiti lì solo temporaneamente?» Wang si mise a fischiettare e a cantare qualche poesia, poi, indicando improvvisamente le piante di bambù, rispose: «Come potrei mai vivere anche un solo giorno, senza la compagnia di questi gentiluomini?»

Altrettanto nota era un’altra storia secondo la quale Huizhi si sarebbe introdotto in casa di un ricco possidente senza farsi annunciare e senza presentarsi, soltanto per prendere un po’ di fresco all’ombra dei suoi magnifici bambù.

Se dodici secoli dopo il geniale filosofo Li Zhi[7] avrebbe scelto di ravvisare in simili bizzarrie un segno del “carattere superiore” di Wang, che preferiva mescolarsi alle piante piuttosto che agli uomini volgari, i suoi contemporanei erano talvolta di tutt’altro avviso. È vero che lo stesso monaco Zhidun, che pure aveva giudicato la famiglia Wang in modo piuttosto negativo, restò impressionato dalla facondia e dai “lampi di genio” del suo quinto rampollo; è però anche vero che anni dopo la morte di Huizhi, colui che si premurò di stenderne la biografia per un libro sulla dinastia Jin preferì celarne il carattere dietro un commento a metà fra l’ammirato e l’imbarazzato:

Wang Huizhi era molto indisciplinato, voleva sfidare ogni convenzione e vivere in modo libero. Tuttavia, il suo abbandonarsi ai piaceri della vista e del suono aveva un che di eccessivo, perciò i suoi contemporanei, che pure ammiravano le sue abilità, consideravano indecente la sua condotta di vita.

Gao Qipei, Bambù, fiori di pruno e luna
Gao Qipei, Bambù, fiori di pruno e luna

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A fare le spese di questa “indecente condotta” furono, di volta in volta, praticamente tutti i suoi conoscenti. Una volta seminò lo scandalo tra i parenti di sua madre quando, venuto a sapere che suo zio Chi Yin – da lui considerato un uomo da poco – era stato nominato governatore di una provincia settentrionale, si mise a saltellare davanti alla porta di casa Chi urlando a più non posso: “La strategia di adattarsi ai cambiamenti non è il suo forte!” La frase sibillina – il commento che uno storico aveva malignamente riferito a proposito di un famoso stratega vissuto un secolo prima, per macchiarne la fama[8] – risultava a un tempo offensiva e sagace, così come quella con cui, in un’altra occasione, giustificò l’ingiustificabile furto di un lussuoso tappeto perpetrato in casa di una guardia imperiale:

Un giorno Wang Huizhi andò a trovare Chi Hui. Mentre Chi si trovava ancora nella parte più interna della dimora, Wang notò che possedeva un bel tappetino di lana soffice e disse tra sé: «Dove diamine ha trovato questa cosa?» Al che ordinò ai suoi servitori di prenderlo e di portarlo a casa sua. Chi Hui venne fuori e si mise a cercare il tappeto. Wang gli disse: «Proprio adesso è passato di qui un uomo grosso e forte, che se l’è messo in spalla e se l’è svignata».

La risposta, in apparenza insensata, conteneva stavolta un sottile riferimento all’amato libro daoista del maestro Zhuang[9].

Ciò che salvava la condotta di Wang Huizhi agli occhi dei contemporanei, in fin dei conti, era proprio questo: la sua cultura. Unita a una dose impressionante di carisma e di parlantina sciolta, la cultura di Wang lo chiamava decisamente fuori dall’ordinaria accozzaglia di matti ospitata dal Celeste Impero. C’era qualcosa di grande nella sua imprevedibilità, una sorta di naturale disposizione che ne avvicinava l’animo a un mondo impalpabile e lontano dalla rossa polvere dei secoli. Di questo è una splendida dimostrazione un altro aneddoto, quello che riferisce del suo incontro con uno dei più grandi musicisti dell’epoca:

Una volta Wang Huizhi uscì dal suo ritiro e si recò alla capitale; la sua barca era all’approdo sulle rive del torrente Qingqi. Sapeva da tempo che Huan Yi era un eccellente suonatore di ti [cioè flauto traverso], ma non l’aveva mai conosciuto. Accadde però che Huan si trovasse a passare lungo le rive del torrente proprio mentre Wang si trovava nella sua barca. Uno dei passeggeri, riconoscendolo, disse: «Quello è Huan Yi». Wang mandò subito qualcuno a portargli i suoi omaggi e a riferirgli: «Ho sentito che sei un bravo suonatore di flauto. Vorresti provare a suonare per me, almeno per una volta?» Huan, a quel tempo, era già un uomo famoso e importante, ma visto che anche lui era a conoscenza della reputazione di Wang, si fermò immediatamente; scese dal carro e, seduto in modo informale su una stuoia, suonò tre melodie. Appena ebbe finito di suonare, salì subito sul carro e se ne andò. Invitante e invitato non scambiarono neanche una parola.

***

Come nel caso di molti altri grandi personaggi, la morte di Wang fu all’altezza della sua vita. Piagato da una malattia – una fonte, sebbene assai fantasiosa, riferisce di un brutto ascesso sulla schiena[10] – volle tuttavia recarsi a far visita a Xianzhi, il suo fratellino minore, che amava profondamente e da cui non aveva mai sopportato di doversi separare. Sapeva che anche Xianzhi era malato[11] da tempo, ma non indovinò la gravità del suo male finché, giungendo a casa sua, non lo trovò già morto. Contro le aspettative di tutti, che già lo immaginavano pazzo di dolore oltre ogni comune decenza, Huizhi restò splendidamente composto. D’un tratto, mentre rendeva omaggio al cadavere del fratello, sembrò ricordarsi di qualcosa: ordinò alla servitù di portargli il qin del fratello, una specie di lira a sette corde che Xianzhi aveva imparato a suonare in modo sublime.

In atto di estremo omaggio, Huizhi volle a tutti i costi salutare l’anima del fratello al suono del suo strumento preferito. In mezzo al silenzio generale, tuttavia, dal qin si alzò una cacofonia di note sbagliate: in preda all’emozione, Huizhi si era dimenticato di accordare lo strumento. A quel punto, la troppo ritardata reazione gli esplose nell’animo con violenza insopportabile e, gettata la lira al suolo in uno scatto di rabbia e di dolore, prese a ululare tra le lacrime: «Zijing! Zijing! Tu e la tua lira ve ne siete andati per sempre!»

Ricondotto di peso al letto di casa sua, Wang vi rimase a piangere per lo scarso resto dei suoi giorni. Nessuno ci dice che effetto gli fece quando, un mese dopo, si trovò per la prima e ultima volta senza nulla da dire.

 


Sulla poco nota figura di Wang Huizhi non ho trovato studi in lingue occidentali. Ho costruito questa piccola biografia incollando insieme una serie di riferimenti sparpagliati all’interno dello Shishuo Xinyu (“Nuove informazioni sui racconti del mondo”), una raccolta di oltre mille aneddoti storico-letterari compilata nel V secolo dall’entourage del principe Liu Yiqing. Tutte le traduzioni presenti nell’articolo sono mie, tratte dalla versione inglese dell’opera completa o dai suoi commentari inclusi nel volume Shih-shuo Hsin-yü – A New Account of Tales of the World a cura di Richard B. Mather – The University of Michigan, Ann Arbor, 2002. L’autenticità di alcuni degli episodi riportati potrebbe essere ragionevolmente messa in discussione da uno storico serio, ma visto che io non sono uno storico e non ho neanche provato ad essere serio vi invito a prendere l’articolo come più vi piace.

Federico Franchin
Federico Franchin

Sono nato a Monza nel 1991 e vivo a Milano. Ho una spiccata tendenza a occuparmi di scrittori e musicisti giudicati minori o semisconosciuti, perché seriamente convinto che anche a loro faccia piacere sentir pronunciare il proprio nome, ogni tanto.