Pubblichiamoli a casa loro: quando ridere significa conoscere

pubblichiamoli a casa loro

«Una risata vi seppellirà». Questa potrebbe essere la descrizione più sintetica ma efficace del libro edito da Ensemble, Pubblichiamoli a casa loro. Prove letterarie di umorismo migrante.

Il testo è una collettanea di racconti. Troviamo Gli abitanti di tripalca, di Adrián N. Bravi, Il fu…nerale, Insieme a tavola, La cena perfetta e altri racconti di Christana de Caldas Brito, alcuni capitoli tratti da Allunaggio di Mihai Mircea Butcovan… l’elenco sarebbe lungo. A mo’ di prefazione alcuni saggi brevi sul significato dell’umorismo e la sua portata politico-sociale.

Il valore letterario dei testi non è sempre alto, ma la tesi di fondo, quella che dà «sangue e corpo» ai lavori, rende il libro un esperimento interessante.

In un’epoca che si tinge di grigio su sfondo nero, com’è quella attuale, viene operata una doppia mossa teorica. Da un lato si dà alla letteratura la dignità di “affaire” politico, si sottrae la cultura all’idiotismo accademico. In altre parole, si chiamano gli intellettuali a interrogarsi sulla loro funzione sociale e a riconoscere che non esistono torri d’avorio nelle quali rifugiarsi.

Dall’altro lato vi è l’esplicita volontà di inserirsi nell’attuale temperie, ragionando sul rapporto con l’alterità, con le persone migranti, alla ricerca di un terreno comune di confronto. Questo terreno è trovato nell’umorismo, nella capacità di “strappare una risata”.

La questione si presenta irta di problemi. Se è vero che la risata non sgorga nella cosa detta in sé, ma nel modo in cui è detta, nel meccanismo comico che l’umorista è in grado di innescare, è altrettanto vero che la sua base è un comune portato di senso accettato sia da tutti gli interlocutori. Provate a parodiare gli atteggiamenti, chessò, di un milanese o di un siciliano in Cina. Nella migliore delle ipotesi verrete accolti da una diffusa perplessità.

È un problema radicale, nel senso che si situa alla radice della comunicazione stessa. Come scrive Bachtin, citato da Raffaele Taddeo in L’italiano come scelta di espressione letteraria,

La lingua nell’opera poetica si attua come indubitabile, incontrovertibile e onnicomprensiva. Tutto quello che il poeta vede, intende e pensa, egli lo vede, lo intende e lo pensa con gli occhi di una data lingua, nelle sue forme interne[1].

Questo significa che in assenza di una base comune, la comunicazione diventa impossibile e l’ironia diviene un’“arma” spuntata. Eppure il libro si prefigge esattamente questo scopo. Tracciare un ponte tra mondi di senso differenti, tra culture diverse e farlo attraverso e grazie all’umorismo, alla battuta.

Facciamo un passo indietro.

Daniele Luttazzi a Raiperunanotte, 2010
Daniele Luttazzi a Raiperunanotte, 2010

Qualche anno fa Luttazzi interveniva sul suo blog in merito al problema della satira e dell’umorismo in generale (qui trovate una sua riflessione sulle vignette di Charlie Hebdo all’indomani del terremoto all’Aquila, qui invece una serie di interviste, nella prima riprende gli stessi temi da un altra angolazione).

Cosa significa fare satira? e umorismo in generale? Luttazzi provava a dare una risposta esattamente a queste domande.

Per farlo individuava quattro modalità per far ridere, orientate assiologicamente, che è necessario riassumere qui brevemente. Per usare le sue parole abbiamo: «A) satira > B) cinismo > C) fare il cazzaro > D) fare lo stronzo > E) sfottò fascistoide».

Ricordiamolo a scanso di equivoci. Ciò che ci interessa qui è il meccanismo per far ridere, non ciò di cui si ride. In altre parole, l’oggetto della battuta può essere il medesimo, ma il modo in cui vien trattato l’oggetto può essere addirittura agli antipodi.

È il con-testo che definisce la sua collocazione. “Con-testo” da intendersi in senso lato, che non inerisce tanto al luogo in cui vien detta la battuta, ma al fine a cui è rivolta.

Un esempio può aiutare. Prendiamo il caso di una battuta sugli ebrei. Posto che l’oggetto della battuta è un popolo discriminato da secoli e addirittura vittima di un genocidio, nel momento in cui sentiamo una battuta sugli ebrei bisogna chiederci: chi fa ironia e su chi si la fa? cos’è che ci comunica?

Semplificando molto si possono individuare due fini della comunicazione: si può comunicare, attraverso la risata, una forma di empatia nei confronti delle vittime (portandoci così a riflettere sulla gravità della Shoah), oppure si può comunicare lo scherno per le vittime (facendoci così mettere dalla parte dei carnefici). Nel primo caso, l’oggetto della battuta diventano i nazisti, coloro cioè che forti della loro posizione di potere furono carnefici, e che, grazie alla battuta, vengono stigmatizzati, implicitamente insultati. Nel primo caso avremo a che fare allora con una forma di satira, perché sotto attacco c’è il potere.

Nel secondo caso invece avremo lo sfottò fascistoide, perché ci fa stare dalla parte dei nazisti (Lo sketch dei Griffin su Anna Frank è il miglior esempio di questo secondo approccio) e non ci comunica nient’altro se non il puro e semplice dileggio della vittima. Come si suol dire: oltre il danno, pure la beffa.

Lo sketch dei Griffin è un esempio del secondo
Lo sketch dei Griffin è un esempio di questo secondo approccio: non ci comunica nient’altro se non il puro e semplice dileggio della vittima.

Il punto – come sottolinea a più riprese Luttazzi – non è se ridiamo o meno a una battuta che, riflettendoci meglio, riconosciamo come sfottò fascistoide. La risata sorge a causa del meccanismo che viene allestito dal comico, non dalla cosa detta. Il punto è se, finita la risata, riconosciamo lo sfottò fascistoide per quello che è e quindi lo sappiamo criticare e sappiamo dare della «testa di cazzo» (terminus technicus usato sempre da Luttazzi) a chi se ne serve per far ridere.

Nel mezzo ci sono poi le sfumature (il black humor, la “presa in giro” più o meno pesante…) e soprattutto vi è però un’importante eccezione: l’autoironia, individuale o collettiva.

Due ebrei di New York passano di fronte a una chiesa, sul portone della quale un cartello annuncia: «Mille dollari a chi si converte». Uno dei due amici dice all’altro: «Senti, mi spiace, ma io sono pieno di debiti, ho proprio bisogno di quei mille dollari… vado e mi converto». Quando esce dalla chiesa, l’amico gli chiede: «Allora, ti hanno dato i mille dollari?». E lui: «Voi ebrei pensate sempre ai soldi»[2].

L’autoironia è un mezzo potente. Esasperando alcuni caratteri tipici di una comunità a cui si appartiene, assolve alla stessa funzione della satira, di far riflettere. Non solo. Se si rivolge a qualcuno che non appartiene alla comunità che si auto-sbeffeggia, lo aiuta a comprenderne i “tipi”, i caratteri peculiari, i suoi tic più diffusi che definiscono l’anima di una collettività (lo «convert[e] all’ignoto»).

Woody Allen in Zelig
Woody Allen in Prendi i soldi e scappa, 1969

L’autoironia rompe lo schema assiologico del comico e ne sovverte l’orientamento, permettendo di dire l’indicibile. Woody Allen, per restare all’esempio delle battute sugli ebrei, è un maestro in questo. Nella scena di Prendi i soldi e scappa nella quale finisce in prigione e diventa un rabbino dopo l’iniezione di streptococco aureo, gli consente di fare leva sul cliché tipicamente antisemita dell’ebreo ricco, senza per questo venir tacciato di antisemitismo. Anzi, paradossalmente ciò che viene messa alla berlina è la pratica in uso nelle carceri americane di testare farmaci e sostanze sui detenuti in cambio di uno sconto di pena.

Torniamo al libro e chiudiamo. L’ironia che attraversa le pagine è un finestra su mondi a noi estranei ma non per questo esterni. Ci invita a guardare, a conoscere, ad approfondire. Seppellisce il senso di superiorità nel giudicare culture lontane, la volontà di restare chiusi tra le quattro mura del proprio giardino, di «scrutare un orizzonte che si ferma al tetto». E lo fa con la levità che solo una battuta sa esprimere.

Come abbiamo rilevato in incipit, non sempre questo è riuscito, si può dire anzi che i testi sono attraversati da tensione irrisolta. Tuttavia, lungi dall’essere un problema, questo permette al lettore di non fermarsi alla pura immediatezza della risata, valorizzando l’elemento di riflessione che sottende i racconti. Nel complesso un libro che vale la pena di essere letto.

Simone Coletto
Simone Coletto

Nato a Milano, classe 1993, laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia; lettore e appassionato di politica da sempre, ho avvicinato gli studi filosofici sui banchi del liceo (classico) e da lì ho compreso come questa disciplina dia ad ognuno la possibilità di capire e modificare il mondo.