Vivere desiderando: Pasolini e la forma della città

Pasolini forma della città

C’era una volta Pier Paolo Pasolini. E Pasolini era una gran scocciatura. Voleva essere tutto, fare tutto, dire e parlare e abbracciare ogni cosa. E fra le cose che voleva abbracciare c’era anche la forma della città. Per Pasolini, anche questa era una cosa di cui uno scrittore doveva assolutamente occuparsi: la città non è solo una questione ingegneristica, ma anche estetica.

Certamente non è stato il primo. L’estetica delle città è sempre stata un’arma politica fortissima, e non è un caso che l’imperatore Augusto si vantasse di aver trovato alla sua nascita una Roma costruita di mattoni, e averla lasciata da anziano di marmo. Inoltre, è con Vitruvio che nasce quello che poi sarà il modello di città che si imporrà nella teoria architettonica, sopravvivendo addirittura fino ad oggi: l’idea, cioè, che alle forme del paesaggio naturale debbano sostituirsi quelle della geometria e della simmetria umana. Tutti noi abbiamo presente quel magnifico quadro che è La città ideale, o le prospettive dei pittori quattrocenteschi e cinquecenteschi: in tutti c’è un fortissimo afflato estetico. La città, infatti, doveva essere bella, oltre che funzionale. La razionalità, per gli umanisti, passava necessariamente per l’estetica: ciò che è bello è anche razionale, ciò che è razionale è anche bello.

Pasolini, però, era una gran rottura. Voleva fare tutto, e lo faceva a sprazzi, ad accenni, in modo dispersivo e a volte insufficiente. Eppure in quelle poche parole che ha dedicato all’urbanistica si è spinto oltre rispetto a molti altri. Ha buttato un amo che non abbiamo né colto, né capito nella sua portata.

Se infatti ben prima di Pasolini c’è stato un innegabile sviluppo della teoria architettonica, come è ovvio, è anche vero che il bello in architettura era stato affrontato sempre dal punto di vista vitruviano-umanistico: la natura doveva piegarsi a un’idea preconcetta, ideale e dunque utopica. Questo approccio estetico-razionale è stato dominante anche e soprattutto durante il ventennio fascista: è durante il fascismo che città come Milano vedono una completa riconfigurazione della propria pianta; così come si vedono sorgere intere città, come Sabaudia o Littoria.

Questa prima fase di trasformazione ebbe due effetti: da un lato produsse degli sconvolgimenti estetici e dei veri e propri danni storici al patrimonio artistico e paesaggistico italiano: per esempio una città di modeste dimensioni e che oggi consideriamo di modesto pregio artistico come Pavia, poteva invece vantarsi di essere una delle città meglio conservate della Lombardia, e invece grandi porzioni del centro storico furono rase al suolo e ricostruite durante il Ventennio[1].

D’altro canto, nonostante lo stile goffo e risibile, l’intervento architettonico fascista si è rapidamente integrato all’interno del panorama italiano. E qui arriva la riflessione di Pasolini, che può sembrarne un’apologetica, ma che in realtà vorrebbe essere una condanna di ciò che verrà dopo. Per Pasolini, infatti, Sabaudia sarebbe solo superficialmente architettura fascista, mentre la sua essenza deriva dalla realtà sottostante, da quel popolo che il fascismo ha governato tirannicamente, ma non è riuscito a scalfire.

Ciò che invece si è verificato nel dopoguerra, invece, è più pervasivo e più inquietante. E, purtroppo, anche dannatamente poco studiato. È infatti solo negli ultimi vent’anni che ci siamo affrancati dalla narrazione dominante degli anni del boom economico come anni di grande felicità, grande fermento e grande gioia del popolo italiano che finalmente scopriva un’epoca di abbondanza. Ecco, se c’è un solo motivo per cui merita ricordare Pier Paolo Pasolini è che a questa grande narrazione ha cercato di mettere costantemente, per tutta la sua vita, il bastone tra le ruote.

Probabilmente Pasolini sbagliava, nel suo discorso, a contrapporre così nettamente la «banda di criminali al potere» rappresentata dal fascismo, e il capitalismo del dopoguerra, ma un forte elemento di differenza c’è: all’ordine di matrice vitruviana, fortememente geometrico e razionalistico, si è sostituito uno sviluppo anarcoide della città, basato non più su un’unica visione politica centrale, ma sulla mediazione degli interessi dei grandi gruppi industriali, delle imprese edili e delle istituzioni, spesso senza nemmeno un piano regolatore.

Con il boom economico, infatti, è prevalsa un’idea di territorio come puro spazio vuoto da riempire: non essendoci più una visione politica centralizzata, veniva meno qualsiasi riflessione sul territorio che non fosse l’utilità immediata. Questo ha significato un’urbanizzazione selvaggia e deregolamentata, con un consumo di suolo spaventoso, che continua ad aumentare. Per dare un’idea, dagli anni ’50 Roma aumenta di 500.000 abitanti ogni dieci anni, che equivale più o meno a una città come Viterbo all’anno. Nel complesso, in Italia, il consumo di suolo è quadruplicato negli ultimi cinquant’anni: ciò che non è riuscito alla dittatura, è stato possibile nell’Italia democratica.

Complice l’influenza del funzionalismo e del modernismo, che hanno avuto un profondo impatto sull’architettura del Novecento, il tema della bellezza viene completamente messo da parte in favore dell’utilità pratica delle opere pubbliche: si chiedevano autostrade che potessero collegare velocemente il paese; si chiedevano nuovi ponti, grattacieli, nuove case, nuove industrie e fabbriche: la bellezza, e soprattutto la bellezza del paesaggio non erano considerati valori, né criteri minimamente interessanti per un’opera architettonica.

Ne è un esempio il fatto che le riflessioni pasoliniane vengono spesso accusate di essere una riflessione snobistica, o nel migliore dei casi, un sogno romantico da flaneur: lo sguardo di Pasolini sul mondo sarebbe dunque uno sguardo esotico, inutilmente estetizzante, da borghese che si scandalizza di fronte a una sola casa che deturpa il paesaggio. Queste critiche possono avere qualcosa di vero, in sé, ma sono figlie proprio di un’epoca in cui non vi è spazio per l’occhio, e obliterano due questioni: innanzitutto che l’urbanizzazione è un dato di fatto, e porta con sé un innegabile costo ecologico, e, secondariamente, che il rapporto degli esseri umani con il mondo è anche un rapporto estetico, che lo si voglia o meno.

Basta fare una gita fuori porta nella pianura padana per vedere quanto le architetture siano casuali, assurde, a volte repellenti: il tessuto urbano appare spesso del tutto irrazionale, “esploso”, con enormi parti di territorio del tutto inaccessibili a piedi, con una rete autostradale in continua espansione, fabbriche vuote, logistiche, centri commerciali che si alternano all’agricoltura intensiva. Se si sorvola il nord Italia in aereo, poi, è evidente la differenza con i paesaggi vicini come la Francia, la Svizzera o l’Austria: il paesaggio appare come un’unica e ininterrotta distesa di abitazioni.

Pier Paolo Pasolini, la forma della città: veduta del nord Italia dall'alto

Anche da una semplice analisi empirica come questa è evidente che il capitalismo ha inciso sul paesaggio come e più di una dittatura politica: come il fascismo mirava a modificare il paesaggio in modo permanente per poter “fascistizzare” la società e renderla più coesa, così fa la civiltà dei consumi, in modo addirittura più pervasivo in quanto si basa sui desideri della popolazione, che diventano poi simboli identitari: negli anni cinquanta e sessanta questi desideri erano la modernità, la velocità, la facilità di spostamento, così come la possibilità di avere una casa al mare o in montagna per la media borghesia, e ovviamente una grande quantità di prodotti e comodità: l’idea del benessere come accumulo di beni.

Oggi i nostri desideri non sono più gli stessi, ma sono sostanzialmente equivalenti. Solo, si sono tinti di glamour: se una città come Milano riecheggiava di clangori, di formicolante produttività e di un’estetica da acciaieria che non lasciava spazio, né speranza, ai sogni, oggi Milano vive una contraddizione profondissima: nella sua pianificazione profonda, nella dislocazione dei servizi primari, vive la stessa identica ideologia degli anni sessanta: nessuno spazio per l’occhio. Nella pianificazione del centro, adibito a vetrina per le classi più agiate e per i turisti, invece l’estetica è tutto, ed è un’estetica non lontana, in fondo, da quella fascista: è l’estetica della rappresentanza, dell’ostentazione di un bello che viene dall’alto, e a cui la città si deve adeguare.

Ecco che il pensiero vitruviano, uscito dalla porta, rientra dalla finestra, e si unisce a una visione espansiva e predatoria dello sviluppo urbanistico, producendo una tensione tra centro e periferia. È un fenomeno che vediamo in tutte le città d’Italia, ma possiamo citare, come esempio particolare, la milanesizzazione di Torino, che storicamente ha sempre avuto un rapporto inverso tra centro e periferia rispetto alle altre città: il centro era popolare, mentre erano le periferie a essere ricche. Oggi, a Torino, anche il centro viene reclamato per il turismo, per gli eventi, esattamente come avviene a Milano, e i vecchi quartieri, come San Salvario o Vanchiglia, vengono riconfigurati come quartieri di svago per chi soggiorna temporaneamente in città, con la conseguente espulsione di tutto ciò che viene considerato “degrado” (cioè, in fondo, i poveri): è il famoso fenomeno della gentrificazione.

Il risultato dunque è un ibrido in cui a farne le spese è proprio il paesaggio, che ne esce irrimediabilmente violato: da un lato viene espropriato ai fini della produzione, della distribuzione o dell’espansione residenziale; dall’altro è truccato ad arte per apparire, luccicare. Da un lato la città come magazzino, dall’altro come parco divertimenti.

Mayastar, Maria, 2012 (credits: Mayastar)
Mayastar, Maria, 2012 (credits: Mayastar)

E così, dobbiamo riconoscere che quello che sembrava un pregiudizio romantico, un discorso passatista e antimoderno, era invece un campanello d’allarme che è stato completamente ignorato. Non solo Pasolini è stato il primo a denunciare gli effetti dell’urbanizzazione selvaggia, ma è stato il primo a rendersi conto che un paesaggio non è formato solo da monumenti, cioè da costruzioni singole, antiche o moderne, particolarmente belle o particolarmente importanti, ma che il paesaggio è soprattutto relazione di elementi anonimi.

Il paesaggio non è somma di parti, ma interconnessione di corpi: sono le strade anonime, le piccole chiese diroccate, le anonime pompe di benzina a determinarne l’essenza. L’essenza non è infatti un fattore individuale, qualcosa che “sta dentro” le cose, bensì qualcosa che si situa al di fuori di esse, nella relazione con altre cose. Può sembrare anche questa una considerazione in fondo romantica, ma, alla fine, se i centri cittadini si sono tinti di glamour, se una certa estetica è diventata dominante, questo è avvenuto perché l’estetica non è affatto qualcosa di superficiale e accessorio, bensì ha un ruolo determinante nella nostra vita.

Ciò che Pasolini in tutta la sua esistenza, in tutta la sua opera, ha sempre dichiarato con forza è che gli esseri umani si muovono nello spazio desiderando. E questo desiderio oggi si esprime nelle sue forme più banali e scontate: nell’acquisto e nel possesso. Ma il desiderio, in origine, ha a che fare con un rapporto sensoriale ed erotico con ciò che ci circonda, un rapporto che viviamo inconsciamente, un rapporto che da bambini è evidentissimo e che poi impariamo per tutta la vita ad arginare, a controllare, a canalizzare, ma che rimane, e influisce sulle nostre scelte. Da bambini tutto è vivo: sono vivi i giocattoli, sono vivi i luoghi, sono vivi persino i pensieri: noi parliamo da bambini alle cose proprio perché le erotizziamo, le rendiamo partecipi del nostro desiderio; da adulti troviamo altri canali e altri modi per esprimere questa tensione erotica, ma la necessità è la medesima.

City Life Milano
Il contorsionismo edile dei palazzi di City Life, uno dei nuovi quartieri di Milano.

Abbiamo un rapporto fisico con il mondo, ed è questo rapporto a farci chiamare “casa” il luogo dove abitiamo. L’inglese in questo è più preciso dell’italiano, distinguendo tra “house” e “home”: il primo termine indica la casa in senso fisico, materiale, che è ciò che ci si aspetta debba occuparsi l’architettura; il secondo invece indica il rapporto sentimentale che abbiamo con la casa, e sembra essere stato molto meno indagato, e ancor meno realizzato. Nonostante infatti vi siano alcuni  studi che tematizzano la questione, il rapporto con la propria città è qualcosa di poco indagato a livello scientifico. Ed è forse per quello che allora bisogna farlo da scrittori, con gli strumenti di chi racconta storie ed esprime emozioni.

Diceva Michela Murgia che ogni geografia è una geografia sentimentale: è legata ai ricordi che abbiamo, alle persone che abbiamo incontrato, ma anche a ciò che vediamo. A come sono fatti i palazzi, i cartelli, a come sono fatte le strisce pedonali o i semafori. A seconda di come vengono disegnati, ci danno delle sensazioni diverse: una città tedesca non sarebbe la stessa senza le sue insegne in caratteri gotici, così come la metropolitana di New York non sarebbe la stessa senza i caratteri in Helvetica, o la metropolitana di Londra senza il suo Gill Sans. E stiamo parlando solo della segnaletica.

Alla fine, una città è come una persona, con il suo modo di fare, i suoi tic, la sua maniera di toccarsi i capelli o di accarezzarsi una guancia; il modo con cui ti parla, o con cui ti guarda. Sono i dettagli che fanno l’attrazione per una persona, così come per una città. E quando questi dettagli cambiano, anche il nostro rapporto con le persone e con le cose cambia, si modifica, perdiamo quella magia. Ci accorgiamo che non amiamo più come prima, che quella persona è diventata come tante altre. E così sono le città e i paesaggi.

È per questo che, alla fine, nonostante Pasolini fosse un gran rompiscatole, in fondo aveva ragione. Il rapporto con la città è un rapporto estetico, un rapporto con ciò che abbiamo di più profondo e viscerale, ed è per questo che tutto ciò che ha a che fare con il paesaggio è una responsabilità collettiva: perché fa parte del nostro intimo, è intimamente connesso ai nostri ricordi, a ciò che abbiamo vissuto e a ciò che abbiamo desiderato.

 


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Gabriele Stilli
Gabriele Stilli

In tenera età sono stato stregato da quelle cose che si scrivono andando a capo spesso, e gli effetti si vedono ancora. Mi sono rassegnato, da diversi anni, a includere l’arte tra le discipline umanistiche e non nel rigoroso ambito delle scienze. Nutro ancora qualche dubbio, però.