Machete: quando il trash è un precursore

Machete

«Che cos’è questa cosa lunga e dura?»

«Il mio machete»

Cosa accade quando il trash incontra un tema attuale e importante come quello delle migrazioni? Succede che ne esce fuori uno dei film pulp migliori degli ultimi anni: Machete.

Uscito nel 2010, Machete porta la firma di Robert Rodriguez, pupillo di Quentin Tarantino e autore di innumerevoli film (tra cui, almeno a nostro modestissimo parere, il migliore è sicuramente Sin City, tratto dall’omonimo fumetto di Frank Miller).

Come in quasi tutti i film di cui è regista, per Machete Rodriguez sceglie di gestire contemporaneamente anche soggetto e sceneggiatura. L’esito è un’opera organica, in cui i diversi ingranaggi si vanno a incastrare per formare un racconto di 105 minuti filati, che lascia lo spettatore con il fiato sospeso.

Oddio, con il fiato sospeso… Piuttosto lo spettatore rimane allibito, specie dal piacere con cui il regista gioca con la violenza. Una violenza esplicitata, ostentata, portata al parossismo: come nella scena dell’ospedale, in cui il protagonista sviscera un uomo e usa i suoi intestini come corda per passare da un piano all’altro dell’edificio.

L’effetto non è lo schifo, né la repulsione, ma un senso del comico ricercato e voluto. È la risata insomma, accompagnata da frasi tipo «Ma che figata pazzesca!», che fanno di contorno alla visione come le patatine accompagnano necessariamente una grossa bistecca.

(Consiglio approvato dallo Chef Kit Carson)

tex patatine

Perché l’effetto comico riesca, però, il film non deve prendersi sul serio. In che senso? Facciamo un passo indietro. Abbiamo detto che Rodriguez è il pupillo di Tarantino. Una delle innovazioni che il regista di Knoxville ha introdotto nel cinema contemporaneo è l’unione di diversi generi cinematografici.

Ricordo che durante un corso di filosofia estetica all’università, il professore ci portò come esempio di post-moderno Pulp Fiction. Sia per il tipo di montaggio peculiare che lo contraddistingue (magari ci torneremo in un altro articolo), sia per la capacità di unire cultura alta e bassa propria, caratteristica della teoria post-moderna e appunto della cinematografia tarantiniana.

Ecco, Rodriguez impara e mette in pratica però con una personalissima reinterpretazione: la cultura da cui prende spunto non è alta e bassa, ma bassa e bassissima. I generi che prende si situano al limite ultimo della cultura stessa. In Machete troviamo lo splatter, il thriller e il porno (l’acme si raggiunge forse quando uno dei personaggi confessa di fare fantasie sessuali sulla figlia ventenne a quello nella foto qui sotto. Sì: è precisamente un prete con un fucile a pompa in mano, la battuta che sta per recitare in quella scena, poco prima di sparare in faccia a un killer che invoca pietà, è: «Dio ha pietà. Io no!»).

Machete prete
Il prete che non ha pietà (ma Dio sì!)

Ma perché il comico funzioni davvero serve un altro ingrediente. Il film deve parlare di cose serie. Ed ecco che la cultura alta rientra dalla finestra dopo essere stata (gentilmente?) accompagnata alla porta.

Il film parla di migranti criminalizzati per il solo fatto di cercare una vita migliore, trattati come parassiti da politici (il senatore McLaughlin, interpretato da Robert de Niro) che parlano di legge e ordine, vogliono i confini chiusi e sigillati, ma solo per poter fare affari con imprenditori legati ai cartelli messicani della droga (i quali ne finanziano le campagne elettorali) e si appoggiano a squadracce della morte che sulla frontiera fanno “il lavoro sporco” (leggi: ammazzano i poveri cristi che provano ad attraversarla, la frontiera).

Ma parla anche di Shè (Michelle Rodriguez): icona rivoluzionaria dei migranti, che organizza una rete (la Rete) per aiutarli a superare il confine (che la Rete sia un’ONG?!), riuscendo a conquistare l’appoggio di una Jessica Alba nei panni di Sartana Rivera: agente della “Migra” (l’Ufficio esecutivo per il Controllo dell’Immigrazione), che capisce che «Esiste la legge ed esiste ciò che è giusto. Io farò ciò che è giusto». E il giusto sta nell’aiutare i migranti, non nel deportarli nei paesi di origine.

In questo scontro tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, un mito, una leggenda, un eroe. In una parola: Machete (Danny Trejo). Ex federale messicano, quasi ucciso dal capo di un cartello della droga (Steven Seagal) e costretto a fuggire negli USA dove fa il lavoratore alla giornata, Machete si trova gettato a capofitto in un intricato complotto che ha come obiettivo la rielezione del senatore McLaughlin e la costruzione di una rete elettrificata sul confine tra USA e Messico.

Inutile dire che il piano fallisce.

La suora che ha scoperto la fede
La figlia ventenne dopo aver scoperto la fede

Uscito nel 2010, questo film non sembrava caratterizzato solo dalla ricerca di effetti esasperati sul piano della messa in scena (in particolare l’ostensione della violenza di cui sopra) ma anche nell’iperbole delle posizioni difese dalle parti in causa.

Una rete elettrificata tra USA e Messico per tener lontani i migranti, per di più costruita da lavoratori messicani da respingere poi al di là della frontiera… Un’idea folle poteva esistere soltanto nelle fantasie di qualche gruppuscolo di estrema destra americana (i famosi nazisti dell’Illinois).

Eppure, a distanza di soli sei anni, un imprenditore dalla capigliatura discutibile riuscirà a farsi eleggere come presidente della nazione più importante del globo proprio sulla base di un programma simile.

A distanza di soli nove anni, un vicepresidente del Consiglio dei Ministri italiano nonché Ministro degli Interni imposterà la propria politica – in spregio a ogni diritto internazionale e umanitario – sul tenere in ostaggio dei naufraghi che scappano da guerre, miserie, morte e torture e la cui sola colpa è di esistere.

Il tempo della storia, come abbiamo avuto modo di dire in altri articoli, non scorre omogeneo e lineare, ma conosce salti, cesure, accelerazioni, rotture. I mostri evocati in questo film semi-impegnato sembrano tutto d’un tratto essersi materializzati di fronte ai nostri occhi. Solo che non basterà un eroe, una leggenda, un mito, un Machete per sconfiggerli.

I processi storici sono più complicati di come un film può rappresentarli. Ed ecco che Machete ci sprona a interrogarci sulle scelte che, nella dura realtà, dobbiamo compiere: restare indifferenti e passivi o fare ciò che è giusto?

Simone Coletto
Simone Coletto

Nato a Milano, classe 1993, laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia; lettore e appassionato di politica da sempre, ho avvicinato gli studi filosofici sui banchi del liceo (classico) e da lì ho compreso come questa disciplina dia ad ognuno la possibilità di capire e modificare il mondo.