«Il tempo è lo spazio dello sviluppo umano[1]» scriveva Marx nel 1869. Oggi, dopo la rivoluzione einsteniana e i suoi sviluppi, l’accostamento di tempo e spazio può non sembrare così ardito. Diversa ricezione dovevano averne avuta i suoi contemporanei. In che senso il «tempo è lo spazio»? Per di più lo spazio «dello sviluppo umano»?
Per rispondere a queste domande dobbiamo fare un salto temporale e spaziale e immergerci nell’atmosfera rovente del 1917 in Russia. La Prima Guerra Mondiale aveva lasciato “nel sangue, nel fango e nella merda” 17 milioni di caduti. L’Impero Russo – quel brutale anacronismo in cui si assommavano le oppressioni medievali con quelle moderne – contava quasi 4 milioni di morti (militari e civili): il 2% dell’intera popolazione. Per fare un paragone con l’Italia di oggi, è come se in tre anni l’intera popolazione di Milano morisse.
Ora, la Prima Guerra Mondiale fu uno shock che oggi non possiamo nemmeno immaginare. Un momento di cesura talmente radicale da aprire una nuova epoca nella storia umana. Nemmeno la Rivoluzione Francese, la prima che avesse avuto il coraggio di tagliare i ponti (e non solo) con un sistema sociale e di credenze vecchio un millennio, aveva avuto tali ripercussioni.
Essa fu uno di quei punti nodali della storia, nei quali ci si rende conto che nulla sarà più come prima. Non sul piano sociale. Non sul piano politico. Non sul piano culturale. «Crisi delle scienze europee» lo definì Husserl all’indomani del conflitto. Una definizione eccellente che ha il vizio di porre il problema solo a livello intellettuale. Crisi della società europea sarebbe forse più adeguato.
Ma dicevamo le roventi giornate di ottobre-novembre in Russia. L’autocrazia imperiale, che aveva portato il paese alla guerra, è un ricordo: la Rivoluzione di marzo (o febbraio secondo il calendario giuliano) aveva dato la spallata finale ad un sistema politico ormai decrepito.
Nemmeno i settori più reazionari delle classi dominanti pensano sia opportuno rimettere in sella lo Zar. Hanno altro a cui pensare. C’è da proseguire la guerra. C’è da tenere a bada i partiti operai. Da costruire un sistema socio-politico modellato su quelli occidentali. Da risolvere così una volta per tutte il dualismo di poteri che è nato all’indomani del Febbraio: il Governo Provvisorio che detta legge sull’ormai ex-Impero da una parte e i Soviet che governano i centri urbani più importanti (San Pietrogrado, Mosca in primis) dall’altra.
Ma la crisi, per sua natura, non si lascia metter le briglie tanto facilmente. Dalla crisi si esce, non si governa, non si gestisce. E un’uscita non sembra proprio nelle corde dei liberali russi, stretti tra le necessità imposte da una rivoluzione che non avevano voluto e le pulsioni “law & order” che corrono tra le classi dominanti di cui fanno parte. Ufficiali dell’esercito, nobili decaduti, ministri di culto, borghesi: tutti uniti dalla paura che il passo degli eventi venga dettato dal “populace”.
Ma con il populace, o almeno con alcuni suoi rappresentanti politici, un accordo lo si deve trovare. Al principe L’vov nel luglio subentra alla guida del Governo Provvisorio un esponente del Soviet di Pietroburgo: Kerenskij, del Partito Socialista Rivoluzionario.
La conseguenza è duplice e immediata: esclusione dalla scena politica manu militari dell’ala radicale dei rivoluzionari più importante (i bolscevichi vengono incarcerati) e reazione degli apparati più retrivi della società russa.
In agosto – dopo una disastrosa offensiva dell’esercito che ha tradito le rivendicazioni popolari di “pace immediata” e ha fatto crollare la popolarità del governo Kerenskij – una colonna di armati guidata dal generale Kornilov marcia su Pietroburgo.
«Grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente» avrebbe detto qualche decennio dopo Mao Tse Tung. In effetti il tentativo di “marcia su Pietroburgo” rimescola le carte. I bolscevichi guidano la resistenza vincente e si accreditano così il consenso nei Soviet operai. I partiti che hanno preso parte al Governo Provvisorio sono ormai completamente sfiduciati.
La rivoluzione si trova ad un bivio: grande salto nel vuoto oppure tallone di ferro della dittatura. La terza via di una temperata democrazia liberale non era solo soggettivamente poco allettante per chi chiedeva “pane e pace” e riceveva “guerra e fame”. Era oggettivamente impossibile stanti i rapporti tra le forze sociali e politiche e il braccio di ferro che si era venuto a creare. Il tentativo di colpo di Stato di Kornilov lo mostrava in maniera lampante: i bolscevichi non erano tanto l’alternativa al sistema parlamentare, ma all’autoritarismo. Oggi, forse, se Kornilov non avesse miseramente fallito il golpe, invece che di “nazifascismo” oggi parleremmo di “kornilovismo” per definire i movimenti di estrema destra del Novecento e di questi primi anni Duemila.
Le rivoluzioni hanno questa peculiarità. Sono eventi processuali e processi evenemenziali. Vivono nella lunga durata dello sviluppo delle contraddizioni sociali che le ingenerano, ma accadono tutte insieme, mutando la società con una velocità prima impensabile. Sono un enigma insolubile per l’intelletto, che «determina e tien ferme le determinazioni[2]».
Non è l’uso della violenza a contraddistinguerle. (In effetti la “presa del Palazzo d’inverno” non provocò morti, solo qualche ferito tra i soldati bolscevichi. Fu la guerra civile scoppiata l’anno successivo, anche grazie all’invio di contingenti stranieri per dar manforte all’Armata Bianca dello stesso Kornilov, di Denikin e altri ad uccidere tra i cinque e i nove milioni di persone).
È l’accelerazione temporale che rende tale una rivoluzione: giorni che paiono mesi, mesi che paiono anni.
Lo spazio e il tempo si contraggono sulla punta di uno spillo per una danza vorticosa nella quale l’evento e il processo si prendono la mano. «Stasera si deve fare. Ieri era troppo presto, domani sarà troppo tardi». Così ripetevano Lenin e Trockij in un’infuocata riunione nella notte tra il 24 e il 25 ottobre (6-7 novembre). Il tempismo è la qualità principe dei rivoluzionari, per non mancare l’appuntamento con la Storia. Sennonché la Storia, con la “s” maiuscola, non esiste; esistono gli esseri umani che pensano, agiscono, patiscono, si organizzano.
E proprio sul piano dell’organizzazione si scioglie l’enigma del “tempo come spazio dello sviluppo umano”. Qui la prassi collettiva, finalizzata ad un progetto di trasformazione radicale dell’esistente, detta i ritmi e le latitudini del divenire storico, sconvolge la coazione a ripetere, le abitudini inveterate, il placido scorrere di un tempo «omogeneo e vuoto[3]», sempre uguale a se stesso. Qui trova la sua verità o la sua rovina, memore dell’ingiunzione degli antichi:
Hic Rhodus, hic saltus!