Natural Born Killers: Tarantino scrive, Oliver Stone dirige

Natural Born Killers

Cosa succede quando la mente di un tirannosauro, sottratta all’estinzione dalle meraviglie di un’ingegneria fantascientifico-genetica, incontra la sua versione in carne e ossa, giunta dal passato con una macchina del tempo fabbricata da Jules Verne e inspiegabilmente palesatasi nel Mesozoico?

C***o, non ne ho la più pallida idea.

So, d’altra parte, cosa succede quando Oliver Stone dirige un film su sceneggiatura di Quentin Tarantino[1].

Natural Born Killers, succede.

Media’s like the weather, only it’s man-made weather.

Murder? It’s pure.

You’re the one made it impure[2].

Giudicato l‘ottavo film più controverso della storia del cinema da Entertainment Weekly nel 2006, Natural Born Killers (1994) è ritenuto essere la miccia dietro non meno di otto esplosivi tentativi di guadagnare le luci della ribalta mediatica tramite l’omicidio: tale è il numero di istanze in cui le immagini di Stone sembra abbiano concorso a spingere giovani “impressionabili” a effettivi atti di violenza, a uccisioni filmiche fattesi improvvisamente fin troppo realistiche[3]. Nient’altro che un’imitazione dei temi e della trama del film; azioni copycat condotte nella speranza di esiti e risonanza simili a quelli della pellicola, ma impossibilitate a marciare su una sospensione del giudizio prettamente fittizia.

Natural Born Killers

Gli aspiranti serial killer in carne e ossa si sono mossi nel solco di Mickey[4] e Mallory Knox (Woody Harrelson e Juliette Lewis), protagonisti del film.

Due giovani “problematici” che, unitisi in un matrimonio siglato col sangue e intersecate le loro esistenze come le spire di serpente delle rispettive fedi nuziali, si dedicano a un passatempo d’eccezione: seminare morte e distruzione per il Southwest americano, volando sulla loro decappottabile in cerca di vittime da ridurre in poltiglia con un nutrito arsenale di armi da fuoco. Girano in lungo e in largo, percorrendo paesaggi bruciati dal sole lungo l’asfalto rovente delle Routes meridionali, in cerca di bersagli di carne a caso; uno vale l’altro. È una killing spree patologica degna delle migliori valvole di sfogo videoludiche, del più becero uso di un Grand Theft Auto, caratterizzata da un singolo elemento ricorrente: quello di lasciare in vita almeno un testimone. Qualcuno che possa diffondere ovunque i nomi di “Mickey e Mallory”, distorti Bonnie e Clyde dal grilletto facile.

Eccolo, il fulcro del film. La violenza è notorietà. E, di conseguenza, la violenza è fama. Non c’è cattiva pubblicità, c’è soltanto sovraesposizione mediatica: tutto esaurito per il palcoscenico collettivo del mondo. E in televisione non c’è giudizio. Mickey e Mallory saranno anche assassini, ma sono soprattutto star. Materiale da Grande Fratello, soggetti da idolatrare e di cui assumere i comportamenti. Personaggi sulla cui fama può comodamente costruire la sua carriera Wayne Gale (Robert Downey Jr., una vita prima di diventare Iron Man), giornalista che il grande e stupido pubblico lo tiene attaccato allo schermo una storia di violenza dopo l’altra.

If it bleeds, it leads[5].

Ecco, vale anche il contrario: la fama è violenza. È violenza del messaggio, violenza trasmessa ai mitomani inermi come a quelli che eventualmente scoprono il “coraggio” di diventare copycats, imitatori. Ma è anche violenza dei media, rumore bianco continuo sintonizzato sulla strage, banca dell’informazione che usa il sangue come valuta. Nell’ambito del film, infine, è violenza della forma: ossessiva intersezione tra il tessuto diegetico della pellicola e una marea di immagini estranee e disturbanti rigurgitate dai media, talvolta brutali quanto la sostanza in cui vanno a inserirsi.

Natural born killers

Una vicenda semplice giustapposta a un montaggio forsennato con altre immagini, accomunata alla marea torrenziale di un patrimonio visivo lungo un’epoca tramite un processo prettamente ejzensteinjano: e della realtà, in fondo, le gesta di Mickey e Mallory costituiscono un tassello come un altro, intercambiabile e sostituibile a piacere.

Nemmeno troppo brutto, nella percezione del mondo.

Il setting del film è un mondo pacchiano e rurale, un‘America da tabloid ed exploitation movie dove chi si oppone al Sistema indossa stivali di pelle di serpente e gilet smanicati degni di Rambo, mentre chi il Sistema lo rappresenta esibisce cravatte sopra le righe persino per Willy Wonka. Più che una fotocopia del reale sembra essere a sua volta il set di un film, riassunto e summa di tutte le rappresentazioni pulp che l’hanno preceduto: costruzioni televisive, cinematografiche, intermediali.

È un universo dove, nella continua intersezione tra “mondo vero” e “mondo trasmesso”, il rapporto con un padre incestuoso e violento si può raccontare con le sembianze di una sitcom (con tanto di risate in sottofondo). È un universo dove i buoni, sulla scia anti-eroica imperante nel cinema postmoderno consapevole, non sono meno rivoltanti dei cattivi: complici due geniali, esagerate, spietate performance di Tom Sizemore e Tommy Lee Jones, tutori della Legge fin troppo vicini alla coppia omicida.

Nei comportamenti sopra le righe come nelle tendenze personali.

Mickey e Mallory seminano il terrore ridendo e urlando di gioia, ma il mondo che li circonda non è nelle condizioni di giudicarli, di tirare la prima pietra. Ed è qui, nella sostanziale indifferenza tra le parti, che si situa la vera fonte di controversia di Natural Born Killers, la zona d’ombra che permette di riproporne le scene nella realtà senza rendersi conto della portata critica e satirica insita nelle stesse. Nella sospensione apparente del giudizio complessivo, nella rimozione della morale di fondo (o almeno in un vuoto percepito come tale) si ottunde il senso del film: e due ore di critica viscerale alla violenza reale e mediatica possono passare per truculenta glorificazione ed estremizzazione della stessa. Specchio offuscato di una realtà a sua volta impossibilitata a tracciare confini netti.

E non meno propensa a creare mostri.

Natural Born Killers
Tenete d’occhio questo personaggio. Tenete d’occhio il capello ignorante, le cravatte improbabili e specialmente il baffetto maestoso. Statelo a sentire, soprattutto: vi regalerà emozioni. Non necessariamente positive, ma sicuramente intense.
davide cioffrese
Davide Cioffrese

Eclettico nella mia conoscenza del nulla, narcisista nella misura in cui il mio ego non incontra quello degli altri, più sensibile agli attacchi emotivi di opere fittizie che a quelli del libro/film/ videogioco chiamato “vita” (aspetto alquanto allarmante). Tento di approcciarmi al mondo nella maniera più amichevole possibile, ma se di dovere (e, talvolta, a sproposito) non mi faccio scrupoli ad attaccarlo con eguale ferocia. Salvo poi, magari, sentirmi dispiaciuto al riguardo. Non aspettatevi che lo confessi, comunque. Jack of… some trades, master of none… in particular.