Sembra impossibile leggere L’età dell’oro di Gore Vidal, riedito da Fazi, e non rimanere affascinati dalla complessità dell’affresco storico che l’autore sapientemente costruisce raccontandoci le vicende e la trasformazioni, subite e indotte, dell’impero americano negli anni cruciali del secolo scorso, quelli che hanno visto l’esplosione del secondo conflitto mondiale e la nascita dei moderni (e invadenti) media.
Ma procediamo per piccoli passi.
L’età dell’oro è un romanzo storico. Come i migliori esemplari del genere non si limita ad elencare, stancamente, una serie di fatti, eventi o personaggi osservandoli con freddo sguardo accademico ma cerca di rievocarne lo spirito.
L’America del 1939, quella nella quale l’autore ci getta attraverso lo sguardo di un regista della (già allora) vecchia Hollywood muta, è una nazione decisa a rimanere fuori dal conflitto europeo che si minaccia evidente in tutta la sua drammaticità all’orizzonte: un’America isolazionista manovrata da uno dei più noti presidenti del secolo scorso, F. D. Roosevelt, personaggio di cui l’autore traccia un acutissimo profilo, attento a delinearne e a riconoscerne i pregi e più spesso i difetti. Lo circonda una selva di altre figure storiche e personaggi di invenzione, tutti più o meno blandamente impegnati a cercare di dare un giudizio sul resto del mondo, tutti marginali nell’economia del romanzo, eppure tutti, in un certo senso, imprescindibili, impossibili da sostituire.
Attraverso le battute e i dialoghi dei moltissimi attori che riempiono i salotti e gli uffici di quella galleria dei sussurri che è Washington all’inizio degli anni Quaranta, l’autore ci suggerisce e ci restituisce le tensioni di un’epoca, lo slancio di una nazione che si pone, pare a sua insaputa, alla guida del mondo intero.
Lo sguardo dello scrittore analizza tutto, dalle lotte politiche, descritte con cura e partecipazione, alle vicende che conducono alla nascita del periodo aureo del cinema hollywoodiano. Sotto i riflettori sfilano non solo i coniugi Roosevelt ma anche diversi altri politici dell’epoca quali Hoover, Truman e Hopkins affiancati dai molti divi del cinema e del teatro che sbucano fuori dalle pagine del racconto illuminando, per un momento, la scena dell’ennesimo party o della millesima conferenza.
Tra questi sbuca, poco oltre la metà del romanzo, lo stesso Vidal quale protagonista, tra i tanti, del fermento culturale che fiorisce negli anni immediatamente successivi al 1945. In un’occasione cita, molto brevemente, la polemica suscitata dal suo primo romanzo, quella Statua di sale che aveva reso gay il più grande (e secondo la propaganda invincibile) esercito del mondo, strumento considerato necessario per garantire la pace in tutto il creato.
L’età dell’oro può dunque considerarsi un roman à clef (romanzo a chiave) perché il suo autore ha effettivamente vissuto il momento storico del quale parla, quegli anni furiosi della guerra e della successiva ricostruzione di un ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
Lo stesso romanzo diviene così analisi sociologica e antropologica del popolo americano: il cappello di paglia indossato dai giovani delle famiglie per bene (e non) così in voga prima della seconda guerra mondiale scompare subito dopo; i nuovi politici imitano i personaggi del cinema; la televisione si sostituisce alla radio e ancora di più ai giornali; la paura diviene ragione per porre in opera determinate scelte politiche che si scontrano, in gran parte, con ciò che era avvenuto tra le due guerre.
Questa analisi non si ferma alla sola America: si allarga così da abbracciare tutto l’impero sul quale la patria della democrazia (di cui, come ripete più volte l’autore, Henry Adams riconosceva l’aspirazione a divenire la nuova Atene realizzando invece solo una nuova Roma) allarga la sua influenza.
L’età dell’oro, dunque, si trasforma: non più solo romanzo storico dedicato ad un periodo relativamente recente del nostro passato ma opera infinitamente più ampia e densa in cui l’autore ci mette in guardia su molti aspetti che permeano nel profondo la nostra esistenza. Non solo una riflessione sull’invadenza dei media, già sopra citata, quanto più un avvertimento sui pericoli di una popolazione estranea alle vicende politiche di una democrazia fatta da uomini fasulli, finti eroi e attori in cerca di una parte, di un posticino, in quel grande arazzo che è la Storia.
Storia alla quale, come riflette ad un certo punto uno dei protagonisti, Peter Sanford, nessuno di noi può sottrarsi, nemmeno lo scrittore.
In copertina: Veduta di New York, 27 Febbraio 1939 (cretits: Rare Historical Photos)
Gore Vidal, pseudonimo di Eugene Luther Gore Vidal (1925 – 2012), è stato uno scrittore e sceneggiatore statunitense. Ha scritto diversi romanzi, saggi, opere teatrali. È noto per aver scritto la sceneggiatura di Improvvisamente l’estate scorsa di Joseph L. Mankiewicz e Ben-Hur di William Wyler. Tra le opere più importanti: La statua di sale; Myra Breckinridge; 1876; Creazione; In diretta dal Golgota.