Johann Sigismund Kusser nasce a Bratislava nel Febbraio del 1660. Il padre è un compositore, la madre è una donna del XVII secolo che quindi può fare quel che vuole, tanto se non muore male la Storia non si sentirà in dovere di ricordarla. All’età di 14 anni il giovane Johann non ha ancora imparato a farsi la barba, ma in compenso sa già realizzare un basso continuo e suonare il contrabbasso.
Fosse rimasto a Bratislava avrebbe probabilmente seguito le orme del padre e si sarebbe avviato a diventare un buon musicista da chiesa in una città tanto bella quanto, ahimè, piuttosto fuori mano; tuttavia, nel 1674, i Cattolici ungheresi gli usano la cortesia di inasprire le persecuzioni contro i Protestanti, costringendo lui e la sua famiglia alla fuga in Germania. Grazie, Cattolici ungheresi. Il padre trova un buon posto come musicista e insegnante presso la Stiftskirche di Stoccarda, ma intravedendo nel piccolo Johann una non comune predisposizione alla musica ha il buon senso di spedirlo a perfezionarsi a Parigi, presso quello che ai tempi è considerato il più grande compositore d’Europa: Jean-Baptiste Lully.
Lully è, nella sua genialità di musicista, un personaggio poco incline alle mezze misure. Rompe violini sulla schiena degli orchestrali che si ostinano a stonare e cinque minuti dopo li porta fuori a cena per farsi perdonare discorrendo allegramente di vino, minuetti e puttane. Oltre a questo, però, è uno che ha fiuto per il talento, e Kusser sembra prometterne parecchio: in breve tempo si affeziona al ragazzo, lo prende sotto la sua protezione e se lo tiene accanto per sei anni, insegnandogli a padroneggiare alla perfezione quello stile francese che mezzo mondo gli invidia.
Poco si sa in realtà su quelli che dovevano essere i metodi educativi di Lully, ma quel che è certo è che agli allievi, dopo un certo numero di lezioni preliminari, venivano messe in mano partiture di varia natura perché ne realizzassero le contre-parties. E qui, per evitare che qualcuno cominci a chiedere cosa c’entri la gastronomia francese con la formazione degli allievi di Lully, è bene aprire una piccola parentesi.
Il corpo principale dell’orchestra francese ai tempi del grande Baptiste era costituito dagli archi, raggruppati in cinque sezioni. Quelle veramente fondamentali, quelle senza le quali lo show non poteva andare on, erano i dessus de violon (cioè i violini, gli archi dal suono più acuto e brillante cui era affidata la melodia) e la basse continue (il basso continuo, il sostegno della melodia, costituito dagli archi più gravi come viole da gamba o contrabbassi cui spesso si aggiungevano clavicembali, chitarre o liuti come strumenti di ripieno).
Le altre tre sezioni, dette appunto contre-parties, erano costituite da viole, che completavano l’armonia suonando tutte quelle note che violini e basso non potevano suonare perché troppo impegnati a fare qualcosa che potesse avere un senso melodico alle orecchie dell’ascoltatore. In teoria, volendo far bene le cose, le tre parti di viola potevano essere per il compositore un’opportunità per mostrare tutta la propria arte nel dar loro un senso che non fosse solo quello di star lì a fare note di ripieno, facendole dialogare tra loro e con le voci principali in un complesso gioco contrappuntistico.
In pratica, come alcuni lamentavano, la gente delle viole se ne sbatteva.
Il loro essere pesantemente inferiori di numero tanto rispetto ai violini quanto ai bassi faceva sì che le note da loro suonate non fossero distinguibili con facilità da orecchie non allenate, fatto che talvolta induceva il compositore a non prestare soverchia attenzione alla stesura delle loro parti. Anzi, alcuni le loro parti neanche le scrivevano: si limitavano a comporre le parti dei violini e dei bassi lasciando poi ad altri il fastidio di aggiungervi quelle d’accompagnamento. Tanto non erano certo quelle le parti che, una volta finito il concerto, il melomane medio si sarebbe messo a fischiettare per strada.
Terminato che ebbe il suo apprendistato, Kusser se ne tornò in Germania solo per ritrovarvi una seconda Francia. La diffusione delle opere di Lully, i suoi balletti, le sue tragédies, aveva scatenato una vera e propria febbre francofila che spingeva ogni nobiluomo provvisto di quattrini a tentare di ricreare nel proprio palazzo gli splendori musicali della corte di Versailles. Legioni di strumentisti e maestri di danza furono fatte giungere dal suolo francese per insegnare il nouveau goût ai seriosi maestri tedeschi che di simili leziosità non s’intendevano punto. È facile immaginare come un giovane compositore che aveva studiato direttamente a Versailles col Maestro in persona potesse sguazzare in questa fortunata serie di circostanze come una paperella nello stagno.
Nel giro di un anno il ventenne Kusser approntò una collezione di danze in perfetto stile francese, mandandola poi alle stampe col promettente titolo di Composition de Musique suivant la Méthode Françoise (1682). Era un biglietto da visita eccezionale. Le melodie del giovane di Bratislava mostravano una padronanza dello stile francese che aveva dell’incredibile, ma la vera sorpresa i suoi ammiratori dovettero averla buttando un occhio alle sue contre-parties per viola. Kusser le aveva ridotte da tre a due (consuetudine in realtà assai comune fuori di Francia), e vi aveva profuso una maestria compositiva che la maggior parte degli stessi francesi poteva tranquillamente sognarsi. Se in Francia i violini cantavano, i bassi li sostenevano e le viole li accompagnavano, nelle danze di Kusser i violini intonavano melodie di uguale bellezza, ma sia i bassi che le viole si univano al canto con una libertà e una partecipazione affatto sconosciute al di là del confine.
L’arte del giovane Johann Sigismund (che ora si firmava spesso Jean Sigismond Cousser per darsi un tono) non tardò a procurargli una buona schiera di estimatori. Negli anni ’80 lo ritroviamo un po’ ovunque, impegnato a saltabeccare tra questa e quella corte: lì scrive un’opera, lì insegna al despota di turno come ballare la gavotta à la mode de France; lì, rimbrotta il primo violino perché non fa sentire abbastanza gli accenti mentre suona la courante; lì, spiega all’oboista che sì, puoi metterlo un trillo su quella nota, ma se Lully lo sentisse sai dove te lo infilerebbe, quell’oboe?
Fu inoltre in questo frangente che Kusser, imbevuto fino al midollo di stile francese, ebbe modo di impratichirsi con un altro degli stili all’epoca imperanti: quello dell’opera tedesca, che ai tempi di Jean Sigismond consisteva in quello che in gergo prettamente musicologico si definirebbe uno strambo mischiotto di stili diversi.
La lingua adoperata era il tedesco, lo stile di composizione delle arie un qualcosa a mezzo tra la leggerezza del gusto italiano, la nobile compostezza del tedesco, la raffinatezza del francese; i recitativi erano fatti alla maniera italiana, e balletti perfettamente francesi erano inseriti tra un atto e l’altro dell’opera per il divertimento degli spettatori. Kusser, ungherese di nascita, educato dal padre alla musica tedesca e da Jean-Baptiste Lully alla musica francese, dovette in qualche modo trovarsi a suo agio in una simile farragine di differenti stimoli: di opere non ne scrisse molte, ma tutte quelle che scrisse furono applaudite.
Kusser lavorava indefessamente, ma allora come in ogni tempo era difficile dimenarsi tanto nella vita di corte senza pestare i piedi a qualcuno. Alcuni cortigiani, cui poco andava a genio il non facile carattere del Maestro, malignavano sul fatto che questo insolente francioso di Bratislava perdesse più tempo ad allestire opere di altri compositori piuttosto che a scriverne egli stesso di nuove. Era vero, ma bisogna aggiungere che all’epoca, quando l’unico modo per ascoltare della buona musica era quello di ascoltarsela dal vivo, se un compositore riteneva che l’opera di un collega fosse qualcosa che il pubblico avrebbe udito con piacere non si faceva scrupolo a metterla in programma al posto di una propria. Kusser, esasperato da queste critiche a mezza voce, si scocciò ben presto dell’andazzo e infine, in seguito a uno spiacevole episodio che lo vide contrapporsi al poeta Bressand della corte di Wolfenbüttel, Johann Sigismund fece armi e bagagli e se ne partì per Amburgo.
Nella città anseatica Kusser si trattenne alcuni anni in qualità di direttore del locale teatro d’opera, il primo aperto a chiunque, di qualunque classe sociale, avesse i soldi per comprarsi il biglietto. È in quest’occasione che il cantante e compositore Johann Mattheson ebbe modo d’incontrarlo, lasciandoci di lui e del suo caratterino l’unico ritratto che purtroppo ci sia giunto.
Era instancabile nel dare istruzioni – scrive Mattheson – e permetteva a ogni persona posta sotto la sua supervisione, dalla più alla meno importante, di andare a casa sua. Cantava e suonava per loro ogni singola nota per mostrare come voleva che fosse eseguita, e lo faceva con una tale cortesia e dolcezza di modi che non si poteva non amarlo ed essergli immensamente grati per le sue istruzioni. Poi però, quando le cose si spostavano sulla scena, durante le prove, quasi tutti avevano paura e tremavano davanti a lui, non solo nell’orchestra, ma anche sul palco, perché sapeva redarguire un uomo per i suoi errori in modo tanto aspro che spesso gli occhi del malcapitato si riempivano di lacrime. Subito dopo, d’altra parte, si calmava immediatamente, e cercava con ogni attenzione di curare le ferite che aveva appena prodotto con una gentilezza incredibile. In questo modo riuscì ad avere successo in cose che nessuno prima di lui era riuscito a mettere in scena. Può essere preso come modello.
Le doti di Kusser come direttore d’orchestra gli assicurarono il rispetto e la stima dei suoi colleghi, ma le intemperanze del suo carattere continuarono a non rendergli la vita facile. Dopo mesi e mesi di continui litigi con i pezzi grossi del teatro si rimise in strada, e decise di metter su una compagnia itinerante di cantanti per allestirsi le opere che più gli garbavano senza render conto a nessuno che non fosse il pubblico.
Tra un successo e l’altro trovò anche il tempo di tornare più a sud, dove si mise ad allestire saltuariamente opere nelle corti che richiedevano i suoi servigi e a pubblicare, di nuovo a Stoccarda, altre tre raccolte di danze francesi (tra le quali spicca quello che, nel genere, può essere definito il suo capolavoro, la raccolta intitolata Le Festin des Muses, comprendente sei suites di danze d’ispirazione teatrale). Fu infine nel 1704 che, proprio il giorno di Natale, il girovago ungherese poté posare il piede sul suolo della penultima città destinata ad accoglierne l’estroso genio: Londra.
Erano ormai passati quasi dieci anni, ma l’Inghilterra piangeva ancora la scomparsa del suo Orfeo nazionale, Henry Purcell. Ne aveva ben donde, perché in tutta la Storia della musica inglese non si è in realtà mai riuscito a trovare qualcuno che possa eguagliarne i meriti in campo musicale. Dopo la sua morte, tuttavia, c’erano parecchi musicisti che ci provavano, con risultati più o meno felici
Lo stile di composizione degli inglesi, al pari di quello tedesco, doveva molto allo stile francese sin dall’organizzazione dell’orchestra, e anche le melodie risentivano pesantemente dell’influsso di Lully, pur possedendo un carattere tutto particolare che rende ancora oggi quasi impossibile per l’addetto ai lavori lo scambiare una melodia di Purcell per una di un qualsiasi Francese. Fu dunque per la terza volta che Kusser dovette reinventare il proprio stile adattandolo alle esigenze del caso. E il buon Kusser, che un genio lo era per davvero, ci riuscì pienamente.
Dopo tre anni di soggiorno londinese, eccolo nuovamente in partenza, stavolta per Dublino. Vi giungerà nel Luglio 1707, e vi resterà per vent’anni, sobbarcandosi l’annuale onere di una composizione celebrativa per il compleanno dei regnanti inglesi. Di queste serenate, piccole opere con personaggi allegorici, poche ce ne restano, ma almeno una di queste è un vero capolavoro.
Scritta per il compleanno della regina Anna nel 1711, The Universal Applause of Mount Parnassus è la prova incontrovertibile di come Kusser fosse riuscito a far proprio anche lo stile inglese, unendovi personalissimi caratteri che solo le esperienze in Francia e Germania potevano avergli fornito. Fu proprio in quell’anno, inoltre, che il compositore ricevette l’ultima delle sue onorificenze: il titolo di Maestro di Cappella del Trinity College, che conserverà fino alla morte.
Gli ultimi anni della sua vita, Kusser li spenderà componendo e scribacchiando sul suo taccuino, un documento preziosismo che ci è giunto intatto, e ancora oggi ci consente per qualche istante di entrare nella testa di un uomo – e che uomo – del ‘700.
Sulle pagine oblunghe di questo grazioso libriccino troviamo affastellati in cinque lingue (tedesco, francese, italiano, inglese e latino) indirizzi, brani musicali, esercizi di composizione, preghiere, liste di giorni fausti e infausti per condurre i propri affari, rimedi della nonna per lievi infermità, il tutto infarcito da qualche timido disegnino a penna che le figliolette di Kusser devono avervi scarabocchiato mentre il padre era in altre faccende affaccendato. Qualche sprazzo di humor vi fa anche capolino di quando in quando, come nei brevi epigrammi inglesi che il compositore ha voluto ricopiarvi o nei rigorosi esercizi di contrappunto a quattro voci intonanti tutte il medesimo testo: «Insolent, impudent, foolish, impertinent!»
Ma ora basta, miei signori. Ho abusato della vostra pazienza anche troppo, e ve ne chiedo perdono. Farvi venir qui in cerca di un articolo sull’arte per poi sbattervi sotto gli occhi la storia di un compositore oggi quasi del tutto dimenticato non è stata certo una cosa gentile.
Il fatto è, però, che io a questa storia ci tengo. Ci tengo perché, qualunque sia stato o sia il vostro corso di studi, nessuno in nessuna scuola vi farà mai il nome di Johann Sigismund Kusser. Se siete appassionati di quel tipo di musica forse farete come me, lo scoprirete per caso nel leggere la vita di qualche altro compositore più famoso che ha gravitato intorno alla sua orbita (e ce ne sono stati parecchi).
Se di quel tipo di musica non può fregarvene di meno, forse da oggi potrete usarlo come scusa per attaccar bottone nei pub, anche se, io ve lo dico, fino ad oggi il tentare un approccio flautando un «Ciaaaaaaoooo, io conosco a memoria tutti i minuetti di Kusser» mi ha fatto rimorchiare molto poco. Molto, molto poco. Per Kusser, però, è ancora valido il discorso che può essere fatto per qualsiasi altro compositore, per qualsiasi altro artista della Storia: tutti, praticando l’arte, all’arte aggiungono qualcosa.
Alcuni, solamente, aggiungono più di altri, ma non sempre chi più aggiunge viene più onorato e ricordato da chi viene dopo. Io non so cosa la Storia della musica avrebbe perso senza Johann Kusser. Noi, però, avremmo perso Johann Kusser, e credetemi: basta accostarsi appena appena alla sua musica per accorgersi che sarebbe stato davvero un gran peccato.
In copertina: Adolph Von Menzel, Concerto di flauto per Federico il Grandei, 1852