Andavano e sempre camminando cantavano eterna memoria, e a ogni pausa era come se lo scalpiccio, i cavalli, le folate di vento seguitassero quel canto.
(incipit del romanzo)
Ho finito di leggere da poco Il Dottor Zivago di Boris Pasternak, un libro vecchissimo che ricordo da sempre nella libreria di mio padre. Infatti è un’edizione del 1966 di Feltrinelli, la cui traduzione è a cura di Pietro Zveteremich, riveduta da Maria Olsoufieva e Mario Socrate, che ha curato la traduzione delle poesie di Zivago, una corposa silloge, che impreziosisce questo romanzo. Le sue pagine sono ingiallite e la colla, decisamente migliore di quella attuale, comincia a cedere e ho dovuto fermare i fogli con dello scotch, per poterlo leggere. Un sapore d’antico e di letteratura vera trasuda da questo libro e, seppure il tema sia stato trattato in tutte le salse, non potevo non dire la mia su quest’opera e questo autore (che se non erro ho menzionato a proposito della poetessa Sofja Parnok, di cui era amico e uno dei pochi al suo funerale.)
Così si comincia
Così si comincia. Verso i due anni
ci si strappa alla balia per le tenebre delle melodie,
si cinguetta, si fischia, le parole
compaiono verso il terzo anno.Così si comincia a capire.
E nel fragore di una turbina in moto
ti sembra che tua madre non sia tua madre,
che tu non sia tu, la casa un paese straniero.Che può fare la terribile bellezza,
seduta su una panca di serenella,
se non realmente rubare bambini?
Così hanno origine i sospetti.Così maturano le paure. Come potrà consentire
a una stella di superare il suo limite
lui che è un Faust, lui che è fantasioso?
Così cominciano gli zingari.Così si schiudono librandosi in aria
sopra le siepi, dove dovrebbero stare le case,
mari improvvisi come un sospiro.
Così cominceranno i giambi.Così le notti estive, cadute bocconi
fra le avene supplicando: avvèrati,
minacciano l’aurora con la tua pupilla.
Così si attacca lite con il sole.Così si comincia a vivere di versi.
Boris Pasternak era un poeta, prima che uno scrittore raffinato, e da poeta ha scritto il suo Romanzo, che merita la erre maiuscola per la delicata poeticità con cui ci fa entrare nel racconto, facendoci quasi percepire suoni e profumi, e per l’incisività morale del messaggio, forse più comprensibile oggi, davanti alle macerie delle ideologie del Novecento. La lirca riportata sopra fa parte di una raccolta dal semplice titolo di Poesie, tradotte e curate da Angelo Maria Ripellino, edite da Einaudi del 1992; è tratta dal Dottor Zivago, ma è indicativa di come Boris intende l’approccio con i versi e quindi con la poesia in generale.
Nato nel 1890 da una famiglia di ebrei intellettuali, dimostra fin da giovanissimo un animo raffinato e incline all’arte della poesia e pubblica a soli 24 anni la sua prima raccolta di liriche. Prende parte al gruppo dei Cubo-futuristi per un breve periodo, poi, appassionato dei classici, ritorna al suo stile intimista. Pur condividendo gli ideali politici socialisti, che infervoravano gli animi dei suoi amici e colleghi, rimase sempre in disparte, critico e fedele all’ideale di una poesia libera da qualsiasi ideologia.
È amico di moltissimi intellettuali: poeti, pittori, scrittori e pensatori che, tra il 1910 e il 1920, diedero vita a un forte movimento di rinascita culturale, in linea con il fermento politico creativo presente in tutta Europa. Tra i poeti è molto amico con Anna Achamatova, Sofja Parnok, Vladimir Majakovskij, per il quale scrisse un poema dopo il suo suicidio, avvenuto il 14 aprile 1930, dal quale fu profondamente scosso: per Boris fu il gesto estremo di uno dei più grandi intellettuali, sostenitori della rivoluzione bolscevica, come l’autentica dimostrazione del fallimento degli ideali pre-rivoluzionari.
Siamo nel 1930. Sono già cominciate le tristemente celebri purghe staliniane, che videro sparire artisti, politici, pensatori, poeti e filosofi nei Gulag siberiani, insieme a tantissima gente comune. Gente che aveva creduto nella libertà e nella nuova Era post rivoluzionaria, aveva combattuto nelle due guerre civili che insanguinarono la Russia di quegli anni, e si erano sentiti accusare di tradimento, solo per aver espresso dissenso al grande Padre, come era chiamato Stalin; il primo dei tanti Zar mascherati della Russia (e l’ultimo sappiamo bene chi sia e come operi). Non sembra cambiato molto dai tempi di Zivago nell’Europa del 2019: cento anni sono bastati per gettare nell’oblio tutta la storia, che si ripete ogni volta con accresciuta ferocia.
Pasternak, pur non essendo ben accetto al regime, si salvò grazie al suo lavoro di traduttore di opere dei grandi della letteratura dell’Ottocento, graditi al dittatore e di questo suo comportamento schivo, ma mai di netto contrasto, sarà velatamente contestato da alcuni critici. Eppure leggendo il suo libro questo autore ci fa vivere le sensazioni provate da un intellettuale, che non è un eroe ma solo un uomo sbattuto da eventi, la cui tragicità soverchia e annichilisce ma non gli impedisce di pensare, di capire.
…Io credo che la collettivizzazione sia stata una misura sbagliata, un fallimento, e che l’errore non si poteva riconoscere. Per nascondere il fallimento, bisognava con tutti i mezzi dell’intimidazione far in modo che la gente disimparasse a giudicare e a pensare, e costringerla a vedere ciò che non esisteva e dimostrare il contrario dell’evidenza.
Non ci possiamo stupire se in Unione Sovietica questo libro non sia stato mai pubblicato integralmente, fino al 1988, periodo di grandi speranze, grazie alla presidenza di Gorbacev, dopo ventotto anni dalla morte dell’autore, avvenuta nel 1960, e da trenta dalla pubblicazione del libro. Pasternak/Zivago demolisce pezzo pezzo nel suo romanzo tutti i miti del socialismo reale, quelli che muovevano le masse occidentali verso una visione socialista e egualitaria degli Stati. Non a caso il libro, benché pubblicato da un editore d’avanguardia e rivoluzionario di sinistra come Giangiacomo Feltrinelli, nel 1957 trovò acerrimi critici proprio nel Partito Comunista di allora, che subì forti pressioni dal governo sovietico.
Oggi, mondati dall’acqua della storia, che tutto dilava e tutto rende più chiaro, sappiamo che le parole di quel libro sono i pensieri di un popolo, il popolo russo, e non sono quello. Ha pagato a caro prezzo l’enorme successo che il suo libro ebbe in Occidente, che gli valse addirittura il premio Nobel nel 1958, e che fu ritirato dagli eredi dopo l’apertura politica gorbacioviana. Boris, al suo tempo, dovette infatti rinunciare, pena l’esilio dalla sua amata Russia. Quali vessazioni deve sopportare un letterato! Non a caso Dante, che subì l’esilio, fa dire al poeta Stazio nel XXII canto del Purgatorio, stupito e fortemente contrariato del fatto che Virgilio avesse dimora nel Limbo, che Virgiilio avrebbe ben meritato il Purgatorio, dato che con l’Eneide ha dimostrato di essere un uomo pio, lui che con i suoi versi ha permesso ai posteri di salvarsi dall’Inferno. Perché il grande poeta a se stesso non giova mai: la sua parola lo condanna, ma salva chi la segue e la comprende.
Facesti come quei che va di notte,
che porta lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte.
I grandi letterati, pensatori e filosofi sono da considerarsi tali se a decine di anni dalla loro morte ancora illuminano le menti con il loro messaggio, con i loro versi, con la loro arte sublimata dal tempo.
Passati sessantadue anni dalla pubblicazione di questo libro, i bagliori della sua luce ci illuminano tuttora, basta saperli scorgere, cercare e divulgare e rendere così più “dotta“ la nostra sciatta epoca moderna.
Mi sembra che il socialismo sia come il mare nel quale devono confluire come rivoli tutte queste singole rivoluzioni individuali, il mare della vita, il mare dell’originalità, di ognuno. Il mare della vita, sicuro, di quella vita che si può vedere nei quadri, della vita portata al livello del genio, creativamente arricchita. E adesso gli uomini hanno deciso di non sperimentarla più nei libri, ma su se stessi, non nell’astrazione, ma nella pratica.
Riusciamo anche a capire cosa è andato veramente storto nella rivoluzione socialista, una rivoluzione giusta nella teoria ma difficile da tradurre nella pratica, perché il genio dell’arte, la mente aperta alla filosofia, alla letteratura, alla bellezza di un quadro o di una sinfonia è una mente critica, e il potere dittatoriale teme la critica, teme i libri e la diffusione della cultura. Nel libro questo è molto chiaro e le contraddizioni, poste in essere dal nuovo regime, sono incarnate dalle traversie subite da Zivago e da Lara.
… si convinse che l’arte è sempre al servizio della bellezza e la bellezza è la felicità di dominare la forma, che la forma è il presupposto organico dell’esistenza; e che, per esistere, ogni cosa vivente deve possedere la forma, e che, di conseguenza, tutta l’arte, non esclusa quella tragica, è il racconto della felicità d’esistere.
Parlare oggi di felicità di esistere sembra una banalità pubblicitaria. Ci hanno inaridito l’anima, spento i sentimenti e i desideri, condizionati anche quando sembrano rivoluzionari. Perché si è persa la bellezza dell’arte, il gusto raffinato di leggere versi. Dopo i campi di sterminio, diceva il grande Guccini, Dio è morto e ora, nell’era virtuale è addirittura putrescente. La bellezza della forma di cui parla Boris, oggi sono i lunghi serpentoni di cemento nelle periferie delle città moderne; quell’orrore delle nostre forme quadrate, dove il vecchio squadrismo si è mutato in folle dal viso nascosto nello schermo, senza ideali, perenni inseguitori di un benessere che ha il sapore acidulo della menzogna e che finisce per fare di queste menti della spazzatura consumista, razzista, fallita e drogata.
Dovremmo lavorare per rieducare la mente umana alla bellezza. Perché è nella bellezza che si nutre il sorriso, l’abbraccio, l’arte dell’ascolto e dell’umiltà, doni spezzati che mancano ormai da decenni, propalati a vanvera dietro pubblicità sempre più amorali, sempre più vuote, che condizionano la mente fin dall’epoca del pannolino, infatti il bambino è il consumatore compulsivo più appetibile.
Si accorsero allora che solo la vita simile alla vita di chi ci circonda, la vita che si immerge nella vita senza lasciar segno, è vera vita, che la felicità isolata non è felicità, …
La storia d’amore tra Zivago e Lara non subirà alcuno scivolone romantico, men che meno erotico. Sono entrambi sposati con prole, il loro è un incontro di silenzi, di conversazioni sincere, di strette di mano e di continui Addii o meglio Arrivederci. Il rapporto tra i due sarà l’unica linea d’azzurro in un cielo carico di nuvole grigie, una linea che si assottiglierà fino a svanire, come le speranze della rivoluzione, nutrite dallo stesso Pasternak. Scrive di lei in una meravigliosa lirica, tra quelle in calce al romanzo, dal titolo Separazione:
[…] Gli era così cara, lei,
in qualunque suo tratto,
come al mare son vicine le sponde
lungo la linea della risacca.
[…]Ed ecco, adesso è partita;
vi è stata costretta forse.
Il distacco tutti e due consuma
fino alle ossa l’angoscia li morde.
[…]
Lara è un personaggio davvero amabile, sposata con un uomo che sparirà inghiottito dal vortice feroce della rivoluzione, che lei seguirà nelle sue peregrinazioni con la figlia, per sfuggire alle numerose rappresaglie sommarie di quegli anni. È una donna di classe la nostra Lara, proviene da una famiglia di alto livello e il suo cognome è un serio pericolo per la sua incolumità e quella della figlia. Sarà affidandosi alla via di fuga, offerta da un uomo da lei sempre temuto, convinta dallo stesso Zivago per il suo bene e non solo, che riuscirà a salvarsi.
… Sono incrinata, ho una crepa per tutta la vita. Sono stata resa donna prima del tempo, delittuosamente presto, sono stata iniziata alla vita dal suo lato peggiore e nell’interpretazione falsata e volgare di un maturo parassita dei tempi andati, sicuro di sé e che credeva di potersi permettere tutto, valersi di tutto.
Con queste parole Lara racconta a Zivago il suo più intimo segreto, uno stupro subìto da giovanissima da parte di una persona, che ha sfruttato la posizione sociale per comprarsi il suo silenzio. Solo il marito sapeva e l’aveva accettata con le sue ombre e l’aveva rispettata e amata. Il merito di Pasternak è di aver trovato le parole più idonee per rappresentare la sensazione provata dalle donne, quando sono vittime di una violenza così subdola e feroce, dovuta in genere a una persona adulta, magari pure di famiglia, che esercita il suo potere, disintegrando l’autostima e lasciando un segno indelebile, pari a un’incrinatura, per tutta la vita di quella donna.
Io non amo la gente perfetta, quelli che non sono mai caduti, non hanno inciampato. La loro è una virtù spenta, di poco valore. A loro non si è svelata la bellezza della vita.
Questa è la folgorante risposta di Zivago/Pasternak a Lara, che con umile candore gli ha confidato i suoi segreti più intimi, i suoi errori, per i quali la logora un senso di colpa, di una colpa che non ha, per una violenza perpetrata al suo corpo e alla sua anima doppiamente. Per questo non potrà mai abbandonarsi all’amore e dovrà continuare a cercare e ad aspettare il marito, per il quale prova affetto sì ma anche riconoscenza. Quanta attualità si nasconde in queste parole, quanto dolore comune a molte donne, che ritratto d’Uomo con la U maiuscola è Yurij Zivago, che ascolta, che accarezza con la parola e riscalda con lo sguardo, rimanendo in un silenzio carico d’amore e rispetto.
Rispetto, parola in disuso ai giorni nostri, dove vince chi si mostra più arrogante, più ignorante. Per questo reputo necessario riscoprire la grande letteratura, dove la morale non è moralismo, ma nutrimento e ossigeno per la mente, accecata da luci abbaglianti e rumori assordanti che tendono ad annichilire, così come nel libro fa la rivoluzione, la guerra e la denigrante miseria. Nella grande letteratura troviamo le giuste risposte, per comprendere l’epoca storica nella quale viviamo e possiamo trarre speranza dal fatto che, quando sembra tutto perduto, c’è sempre l’Arte e la Bellezza a salvarci, a indicare la strada da seguire, a consolare con le sue pagine superbe d’Umanità.
Terminiamo questo piccolo ricordo del Dottor Zivago di Pasternak con una bellissima poesia, che il protagonista, non a caso poeta, ha scritto a Lara in una delle lunghe notti a Varykino, guardandola dormire a fianco della figlia, mentre il vento gelido dell’inverno russo imperversa con le sue raffiche inquietanti, che lasciano presagire il futuro oscuro e tormentato, che spetterà ai due personaggi.
Il Vento
Io sono già morto e tu vivi ancora.
E il vento, con gemiti e pianto,
fa oscillare il bosco e la dacia.
E non per proprio conto ogni pino,
ma tutti insieme gli alberi
nella loro distesa sconfinata,
come armature di velieri
sulla superficie d’una baia.
E non per tracotanza
o per vano furore,
ma per trovare nell’angoscia le parole
d’un canto di culla per te.