Orfeo cantava ruttando: Henry Purcell e gli allegri compagni

Gherardo delle notti, il gioioso violinista

AMBROGIO! E QUESTA ME LA CHIAMI UNA COLAZIONE SERVITA BENE? FA SCHIFO! E FAI SCHIFO ANCHE TU! DILLO CHE VUOI CHE TI LICENZI E CHE MI TROVI UN ALTRO MAGGIORDOMO, FIGLIO DI UNA GRANDISSIMA PUTT– eh? L’articolo è già iniziato? Ah.

Bonjour mesdames et messieurs, e benvenuti a un nuovo appuntamento con L’Esprit de Finesse, la rassegna culturale dedicata alle opere che hanno fatto la storia dell’eleganza e del buon gusto su questa biglia di Dio che è il nostro pianeta. Oggi, su richiesta della Lega delle Caste Fanciulle in favore della Raccolta Differenziata, presenteremo alcuni estratti da un capolavoro poetico-musicale che, se non ha ancora trovato nella cultura generale lo spazio che gli sarebbe proprio, è sicuramente a causa di un complotto ordito dai poteri forti.

Orsù, andiamo a cominciare.

Lasciando fuori il secolo Ventesimo, sul quale la mia ignoranza mi costringe a tacere, sono fermamente convinto che nessun altro momento della Storia della musica occidentale abbia conosciuto un fermento pari a quello esploso in Inghilterra nei quarant’anni che separano il 1660 dal 1700[1]. In quell’epoca, nel tentativo di svecchiare un idioma musicale nazionale percepito come antiquato e cervellotico, il re inglese Carlo II e i suoi successori si mostrano apertissimi ad accogliere e sostenere qualunque musicista che sappia insegnare qualcosa di nuovo ai loro sudditi. È come il fischio d’inizio di un’avvincente maratona che, in quei decenni, vede affrettarsi verso Londra compositori di tutta Europa.

A corte, il giovane e spigliato violinista Thomas Baltzar stupisce gli uditori con le virtuosistiche bizzarrie tipiche della scuola tedesca, mentre un bizzoso napoletano di nome Nicola Matteis fa «parlare il suo violino come se avesse una voce umana[2]». Pelham Humfre, un ragazzino formatosi come cantante alla Chapel Royal, torna da un viaggio a Parigi con una spocchia «da far girare le scatole a chiunque[3]», ma anche con l’abilità di comporre la musica da chiesa più struggente che la sua epoca possa concepire.

A teatro, gli ormai dimenticati Thomas Morgan e Thomas Tollett adornano le pièces più in voga con danze che non sarebbero fuori posto in una fiera dublinese, mentre il moravo Gottfried Finger si destreggia con uno stile francese ricco di clichés (che però abbandona in favore di una vena marcatamente italiana nelle sue sgargianti sonate). Dopo essersi fatto strada tra i cortigiani suonando il flauto – in ogni senso possibile dell’espressione, se vogliamo credere alle insinuazioni del pettegolo conte di Rochester – il grazioso francesino Jacques Paisible incanta le platee con meravigliose ouvertures, mentre il catalano Luis Grabu regala agli inglesi il loro primo dramma teatrale interamente cantato, nello stile appreso in Francia dal compositore di corte Jean-Baptiste Lully. Tutto è fresco, tutto è nuovo, tutto è bellissimo.

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È intorno al volgere del secolo che a Londra, nella bottega dello stampatore John Walsh, vede la luce una strabiliante raccolta, oggetto dell’interesse del presente articolo: The Catch Club, or, Merry Companions – La Società delle Catch, ossia gli Allegri Compagni. Che cos’è una catch? Chi ha qualche infarinatura di teoria musicale mi capirà quando dico “qualcosa di simile a un canone”, ma lasciatemi provare a spiegarlo anche a chi dovesse essere digiuno della disciplina. Questa è una catch:

Niente strumenti, solo voci – in questo caso tre. Una prima voce comincia a intonare un testo su una melodia di senso compiuto, che in questo caso copre i versi «Under this stone lies Gabriel John, in the year of our Lord one thousand and one». Terminata questa esposizione, entra una seconda voce che ripete esattamente la stessa melodia appena conclusa dalla prima, sulle stesse parole; nel frattempo, la prima voce va avanti intonando un seguito al primo testo su un’altra melodia, che si inserisce con perfetta armonia sulle note della seconda voce: in questo caso, è quella che copre le parole «Cover his head with turf or stone, ‘tis all one, ‘tis all one, with turf or stone ‘tis all one».

Terminato anche questo secondo passaggio, entra una terza voce che fa la stessa cosa: inizia a intonare la melodia e il testo della prima voce dall’inizio, mentre quella che era la nostra prima voce passa alla terza sezione della musica e del testo: «Pray for the soul of gentle John, if you please you may, or let it alone: ‘tis all one».

Per dirla in breve, è come se le tre voci si rincorressero a vicenda cercando di acchiapparsi: da questo deriva il nome di catch, che in inglese vuol dire, appunto, “afferrare”. Suona macchinoso, ma spero che l’ascolto dell’esempio serva a renderlo più chiaro. Se non avete capito, non preoccupatevi: sulle questioni musicali, nel resto dell’articolo, non ci soffermeremo comunque più di tanto.

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Ora, anche se ho scelto per il mio esempio una catch particolarmente lenta e lugubre, questa forma musicale ha di solito ben altre preferenze. Non nasce infatti come qualcosa di impegnato, ma come un espediente da fornire ai dilettanti di musica per divertirsi cantando insieme: benché il suo utilizzo in contesti pubblici (come gli spettacoli teatrali – sia documentato, i luoghi prediletti per l’esecuzione di una catch sono la casa, il salotto o la taverna. Se però pensate che alla composizione di simili piccolezze si dedicassero soltanto gli stessi dilettanti cui erano destinate, vi sbagliate di grosso: per racchiudere in un bigino buona parte della storia della musica inglese del tardo ‘600, basterebbe intrecciare fra loro le vicende biografiche dei compositori che contribuirono alla raccolta dello stampatore Walsh. Primo fra tutti loro, per arte e per fama, viene Henry Purcell.

Non dico che sia possibile fare una classifica qualitativa di tutti i compositori mai vissuti; dico solo che, se fosse possibile, Henry Purcell sarebbe tra i primi cinque. È un’affermazione drastica, ma sarei pronto a fare a botte con qualunque bambino sotto i dieci anni che si mostrasse intenzionato a smentirmi.

Morto a soli 36 anni per una polmonite (a quanto pare, la sua sbadata signora l’aveva lasciato chiuso fuori casa in una fredda notte d’autunno) questo genio usò la sua breve vita per rivoluzionare completamente la scena musicale della sua amata Inghilterra: la perfetta padronanza di ben tre stili musicali (italiano, inglese e francese) gli valse a buon diritto l’epiteto di Orpheus Britannicus con cui i suoi colleghi compositori presero a chiamarlo dopo la morte. È proprio con questo grande nome che desideriamo aprire il nostro résumé, presentandovi subito la prima gemma partorita dalla sua penna immortale e inclusa da Walsh all’interno del suo raffinato Catch Club.

Ah, lo stormire delle fronde! Ah, il mormorare dei ruscelli! Il testo di questo bonbon di eleganza, di un chiarissimo stampo bucolico-pastorale, consiste nel seguente dialogo tra almeno due personaggi, che chiameremo A e B:

A: «Pox on you!» B: «For a fop, your stomach’s too queasy.
Cannot I belch and fart, you coxcomb, to ease me?
What if I let fly in your face, and shall please ye?»
A: «Fogh, fogh, how sour he smells, now he’s at it again;
Out ye beast, I never met so nasty a man.
I’m not able to bear it». B: «What the Devil d’ye mean?
No less than a Caesar decree’d with great reason,
No restraint should be laid on the bum or the weason,
For belching and farting were always in season».

A: «Accidenti a te!» B: «Per essere un damerino, sei troppo schizzinoso.
Non posso forse ruttare e scorreggiare per mettermi a mio agio?
E se ti ruttassi in faccia, che ne sai? Magari ti piacerebbe!»
A: «Puah! Quanto puzza, questo! Ed ecco che ricomincia!
Bestia, non ho mai incontrato un uomo più schifoso di te,
Non ti sopporto!» B: «Che diavolo stai dicendo?
Nientemeno che un Cesare[4] ha decretato, con gran ragione,
Che al didietro e alla gola non bisogna porre alcun freno,
Perché il rutto e la scoreggia sono sempre andati di moda».

Il normale scambio di battute tra un damerino debole di stomaco e un inveterato scorreggione fornisce all’autore il destro per un quadretto musicale la cui melodia, apparentemente semplice, è costruita con grandissima ingegnosità; le pause iniziali consentono l’inserimento di alcuni rutti, prescritti dalla partitura originale.

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Jean Honoré Fragonard, L'altalena
Jean Honoré Fragonard, L’altalena, 1767

Dopo questo primo assaggio, alcuni dei nostri lettori potrebbero cominciare a farsi della nostra raccolta un’impressione fallace. Potrebbero persino – lo tolga il Cielo! – giungere a pensare che qui si stia parlando di qualcosa di immorale. Sono offeso. Numi, che offesa. Che onta. Vieni qui Ambrogio, fatti schiaffeggiare.

Non c’è nulla di più sbagliato, come dimostra il testo di una catch chiaramente devozionale, che riveste di una sublime poesia un famosissimo episodio della Bibbia. In esso, la giovane e avvenente vedova Giuditta riesce a salvare la sua città da un assedio seducendo il capo dell’esercito nemico, l’assiro Oloferne, per poi mozzargli la testa durante la notte. Tutto il dramma, tutto il pathos di una simile vicenda d’amore e di morte viene così riassunto dai Merry Companions, in un brano di rara poesia del quale purtroppo non esistono registrazioni:

When Judith had laid Holifernes in bed,
She pull’d out his falchion, and cut off his head;
The reason is plain: he’d have made her his whore,
So she cut off his head as I told you before.

Quando ebbe steso Oloferne sul letto,
Giuditta estrasse la sua spada e gli tagliò la testa;
Il motivo è chiaro: avrebbe fatto di lei la sua puttana,
Perciò lei gli tagliò la testa, come ho già detto prima.

Ah, il tradito condottiero! Ah, gl’ingannevoli sussurri della vedova! Né Caravaggio né la Gentileschi riuscirono a illustrare il famoso racconto con pennellate altrettanto felici! E tuttavia con l’autore di questo capolavoro, l’organista Michael Wise della cattedrale di Salisbury, la sorte non fu tenera: ripreso varie volte dai suoi superiori per ubriachezza molesta, finì col cervello spappolato da un colpo di spada per aver avuto l’infelice idea di insultare una guardia notturna.

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Un altro tema caro al mondo del Catch Club è quello dei rapporti fra i sessi. Un amore puro e idealizzato fa da sfondo all’intera raccolta, in cui timide giovani e giovinetti angelici ammiccano languidamente ai loro non corrisposti affetti. Tra i più alti cantori di un tale sentimento non poteva mancare il grande Purcell che, tradendo una conoscenza dell’antico stil novo toscano, narra del proprio tormentato rapporto con la donna amata, un’altezzosa fanciulla di nome Giulia. Vi prego di notare come la musica si sposi al testo in questo trionfo di britannica raffinatezza.

Ah, gli amorosi sospiri! Ah, il soavissim– LE soavissime pene! Per chi non avesse la fortuna di poter godere del testo nella sua lingua originale, ecco qui una rapida traduzione:

Once, twice, thrice I Julia try’d:
The scornful puss as oft deny’d,
And since I can no better thrive,
I’ll cringe to ne’er a bitch alive;
So kiss my arse, disdainful sow,
Good claret is my mistress now.

Una volta, due volte, tre volte ci ho provato con Julia:
Quella smorfiosa altrettante volte mi ha respinto,
E visto che non ho speranze di avere successo,
D’ora in poi non sarò più il servo di alcuna zoccola;
Perciò baciami il culo, sdegnosissima troia,
Perché adesso la mia unica amante è una bottiglia di rosso.

Da notare anche un’ulteriore finezza nella resa musicale del testo allorché, all’ingresso della terza voce, le pause nella melodia fanno sì che l’ascoltatore sia portato a intrecciare tra loro la prima voce con la terza; il risultato è che i due cantanti sembrano dire «so kiss my arse – once, so kiss my arse – twice, so kiss my arse – thrice» – «perciò baciami il culo – una volta, baciami il culo – due volte, baciami il culo – tre volte». Ah, sommo Francesco Petrarca! Anche in Inghilterra ci si è ricordati di te!

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L’ultimo brano che prendiamo in questione per questa succinta, ancorché incompleta, analisi è stato partorito dalla penna di un altro grande e dimenticato compositore. Nato nel 1668, John Eccles apparteneva a una generazione di musicisti successiva a quella di Purcell; un rinnovato interesse per lui ci ha fornito negli ultimi anni alcune registrazioni delle sue opere teatrali, testimonianze di uno stile ingegnoso e accattivante che, ai suoi tempi, seppe far presa sul volubile pubblico inglese.

La sua presenza nel gruppo dei Merry Companions è ben dimostrata da uno dei brani più famosi dell’intera raccolta, sapientemente costruito intorno a un testo molto semplice che ha fatto sudare generazioni di studiosi. È la stessa partitura a illustrare, in una breve introduzione, il triviale episodio che fa da sfondo ai mirabili versi di cui è stato ricoperto: «Mary, la mia cameriera, un giorno ruppe il manico della sua spazzola, e quando venne a sapere che il mio servo John aveva un bastoncino che avrebbe potuto rimpiazzarlo, gli chiese di infilarlo nella spazzola per lei». Ciò che l’anonimo poeta – forse lo stesso compositore? – riuscì a trarre da questa minuzia è un delizioso e garbato ritratto di intimità domestica:

Jean Honoré Fragonard, La gallina cieca
Jean Honoré Fragonard, La gallina cieca, 1750

My man John had a thing that was long,
My maid Mary had a thing that was hairy;
My man John put his thing that was long
Into my maid Mary’s thing that was hairy.
My maid Mary then stirr’d it about,

Till with stirring and stirring at length it came out,
But then my man John thrust it in once again,
And knock’d it most stoutly to make it remain.
But John with much knocking so widen’d the hole,
That his long thing slip’d out still in spight of his soul;
Till weary’d and vex’d and with knocking grown sore,
Cry’d: “A pox take the hole, for I’ll knock it no more!”

Il mio servo John aveva una cosa lunga,
La mia serva Mary aveva una cosa pelosa[5];
Il mio servo John mise la sua cosa lunga
Nella cosa pelosa della mia serva Mary.
La mia serva Mary, allora, cominciò a muoverla,

Finché – muovi e muovi – non riuscì a tirarla fuori,
Allora il servo John la infilò dentro di nuovo
Con gran vigore, in modo che non uscisse più.
Ma John, a furia di colpire, allargò così tanto il buco
Che la sua cosa lunga scivolò fuori suo malgrado;
Finché, stanco e infastidito, e stufo di colpire,
Gridò: «Accidenti a questo buco, io ci rinuncio!»

Numerose ipotesi sono state avanzate sull’interpretazione di questa miniatura poetica. Cosa mai si nasconderà dietro le ardite metafore dell’autore? I nomi di John e Mary – Giovanni e Maria – rimandano forse all’eterno mistero che avvolge la figura dell’apostolo Giovanni nell’Ultima cena di Leonardo da Vinci, da alcuni identificata con Maria Maddalena? Il buco di cui si parla nell’ultima quartina ha forse qualche legame con l’immortale distico di Orazio «Padre mio, se non mi sposo – Morirò senza quel coso»? Può la “cosa lunga” del servo Giovanni fare riferimento alle spade dei cavalieri templari, che difesero la città di San Giovanni d’Acri dall’assedio dei Saraceni nel 1291? Forse non lo sapremo mai.

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Molte altre meraviglie si celano all’interno di questa raccolta, che solo le esigenze redazionali mi impediscono di sviscerare più a fondo. Chi tra i lettori dovesse dilettarsi di musica potrà agevolmente reperirne una scansione completa in rete, e vi assicuro per esperienza diretta che una serata tra amici con vino e catch può essere un fantastico rimedio alle tensioni accumulate durante una giornata lavorativa.

Grazie per averci seguiti in questo nuovo appuntamento con L’Esprit de Finesse, il faro del buon gusto in un Internet fatto di sesso, porcherie e “piuttosto che” usati con funzione disgiuntiva. Vi salutiamo con un’ultima catch che, oltre a riassumere perfettamente il contenuto dell’intera raccolta, vuole essere anche un invito.

 

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Come testo di riferimento per la stesura dell’articolo ho usato proprio la prima edizione del Catch Club, or Merry Companions, reperibile su questo sito. Per tenere le note al minimo ho scelto di non indicare in quali pagine si trovino le catch che ho preso in esame: il lettore curioso potrà facilmente rintracciarle servendosi dell’indice posto in apertura del libro originale.

Federico Franchin
Federico Franchin

Sono nato a Monza nel 1991 e vivo a Milano. Ho una spiccata tendenza a occuparmi di scrittori e musicisti giudicati minori o semisconosciuti, perché seriamente convinto che anche a loro faccia piacere sentir pronunciare il proprio nome, ogni tanto.