Hegel Filosofia del diritto

«Il diritto di una volontà»: Hegel e il concetto di responsabilità

Il contesto della riflessione hegeliana sulla pena, a differenza degli autori che abbiamo trattato nello scorso articolo, non è quello metafisico della libertà e della volontà, da cui far discendere una più complessiva concezione morale. Non che Hegel non si preoccupi di dare il proprio contributo in merito, ma la stessa riflessione sulla responsabilità si innesta nella più ampia discussione sul diritto.

Pur cambiando il contesto dell’analisi rimane però ovviamente inscindibile il nesso tra responsabilità e pena. Ma, innanzitutto, cosa intende Hegel per responsabilità?

«[I]l diritto della volontà è di riconoscere nel suo fatto come sua azione soltanto quello, e soltanto di quello aver responsabilità, che essa nel suo fine sa dei presupposti del fatto, quello che di essi risiedeva nel suo proponimento[1]». Siamo nella Parte seconda dei Lineamenti di filosofia del diritto, dedicata al rapporto tra il singolo individuo e la legge morale. Qui Hegel esce dall’astrattezza del diritto borghese[2], momento iniziale e però essenziale nel percorso dello spirito oggettivo e delinea il rapporto della volontà libera con la sfera della moralità (da Hegel chiamata Moralität per distinguerla dall’eticità: Sittlichkeit; su questa distinzione torneremo in futuro).

Come ciò avvenga ne tratteremo nel prossimo articolo, ci basti qui sapere però che nella figura della moralità «la volontà soggettiva [l’individuo] riconosce il carattere essenziale della volontà universale [riconosce cioè la necessità di una legge morale], ma ne fa, non riconoscendosi come compresa in essa, un bene astratto un mero dover essere[3]». È la legge delle Tavole di mosaica memoria. Il «Non devi uccidere», dove l’accento è sul “devi”, inteso come costrizione operata dalla legge sul singolo individuo.

In altre parole, l’individuo riconosce sì di essere parte di una collettività, di un «universale» per usare la terminologia hegeliana. Epperò, si rapporta a quest’universale come ci si rapporta a un altro-da-sé. Non riesce a comprendere che la condizione di possibilità della sua libertà, riposa nella collettività. Che la sua libertà non viene limitata dalla libertà altrui, ma che piuttosto si completa con la libertà altrui. Perché questo riconoscimento avvenga bisogna aspettare che sorgano le necessarie contraddizioni. Al momento però lo spirito oggettivo non è ancora pervenuto a più alta considerazione di sé e della propria verità; al momento l’individuo si pensa come contrapposto alla collettività e accetta obtorto collo i doveri che questa gli impone.

Hegel ritratto

Ma per Hegel questo è solo il punto di partenza. In questo rapporto della volontà singolare con la moralità, in che modo può sorgere la figura della responsabilità?

Ora, a differenza del dibattito sei e settecentesco, la risposta a questa domanda non passa da una definizione delle prerogative dell’azione del soggetto: se esso sia libero da costrizione o dotato di un arbitrio assoluto. Porre così la questione significa, per Hegel, ribaltare il ragionamento, mancare di concretezza.

Piuttosto la libertà della volontà deve venir presupposta dal (o meglio giustificata nel) contesto in cui si discute della responsabilità e in particolare della responsabilità di fronte alla legge.

In questo confronto tra volontà singolare e universale, dice Hegel, il soggetto scopre nell’oggetto esteriore (oggetto che le si para dinnanzi) il proprio limite ma al tempo stesso il presupposto del suo stesso agire. In altre parole, l’azione del singolo può avvenire a condizione che esista un mondo esterno a lui. Un mondo fatto di oggetti e di altre volontà che gli si contrappongono ma al tempo stesso ne permettono l’azione.

Ma agendo in un mondo già dato, già precostituito, il soggetto si trova inserito in una «molteplice connessione[4]» che non controlla e non può controllare. Un’idea questa molto simile a quella della Teoria del caos (sebbene quest’ultima affermata da un punto di vista spiccatamente epistemologico): il battito di farfalla in Australia può provocare un uragano in America.

Viene così alla luce una tensione latente: da una parte abbiamo il proponimento della volontà, il suo fine, che indirizza l’azione; dall’altra abbiamo il mondo circostante, le «potenze esteriori[5]» in preda alle quali è data l’azione stessa, che il soggetto non conosce o sbaglia a conoscere.

Lineamenti di filosofia del diritto

Cadendo l’azione nel mondo, essa non può non produrre, oltre alle conseguenze previste, anche quelle imprevedibili. Tanto imprevedibili che possono tramutare il buon proponimento in una cattiva azione o viceversa.

E a questo punto (e soltanto a questo punto) può darsi la possibilità di imputare l’agente, di attribuirgli una responsabilità. Qui sta però anche la denuncia di Hegel della parzialità, dell’unilateralità degli autori che l’hanno preceduto. Non comprendendo il carattere ambiguo dell’azione, il suo essere in bilico tra il presente (il mondo come è fatto) e il futuro (il mondo come verrà trasformato dall’azione), essi hanno colto soltanto un lato del processo: quello delle conseguenze o quello del proponimento. Hanno tentato di definire giusta e buona un’azione soltanto prendendo in considerazione vuoi le prime, vuoi il secondo.

Allora diventa buono chi agisce con fini buoni, indipendentemente dalle conseguenze dell’azione, oppure chi produce buone conseguenze, indipendentemente dai propri fini. «Il principio: nelle azioni non tener conto delle conseguenze, e l’altro: giudicar le azioni dalle conseguenze, ed esse render misura di quel che sia giusto e buono, – l’uno e l’altro è ugualmente intelletto astratto[6]».

È su questa critica che si innesta il superamento hegeliano sia delle passate concezioni della responsabilità, sia della stessa contrapposizione tra determinismo e libero arbitrio. Considerando questa a partire sia dai fini sia dalle conseguenze, viene meno anche il giudizio sulla volontà come o assolutamente libera oppure soltanto libera da costrizione. La volontà è libera e allo stesso tempo determinata, cioè inserita in un contesto. Essa agisce come realmente vuole ma, agendo, trova un «presupposto oggetto esteriore[7]», ossia il mondo esterno.

Ma che responsabilità avrà, dunque, la volontà affetta da una strutturale deficienza epistemica? «Il fatto – risponde Hegel – può venir imputato soltanto come responsabilità della volontà». Che in altre parole significa che, oltre a ciò che risiede nel suo fine e in ciò che «sa dei presupposti del fatto[8]», non è possibile imputare alla volontà niente: ciò che non posso sapere non mi può venir imputato. La volontà insomma gode di un «diritto del sapere[9]».

Un diritto al sapere che condiziona anche la concezione della pena e della punizione. Ma per scoprire l’opinione del nostro in merito, dovete leggere il prossimo capitolo.

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