Nella scorsa puntata abbiamo provato a delineare la riflessione hegeliana sulla responsabilità. La nostra trattazione sarebbe però incompleta se non ci soffermassimo ora su ciò in cui essa si traduce concretamente: il premio e la punizione.
Ora, l’abbiamo detto, il processo che delinea Hegel nei Lineamenti di filosofia del diritto, è un processo evolutivo. Differenti figure (o momenti) si succedono, tutte tese verso la piena realizzazione della verità dello spirito oggettivo (ossia della comprensione delle forme della socialità umana).
Per chiarire quale sia la posizione di Hegel in merito alla pena e al premio dobbiamo perciò ripercorrere il cammino da lui tracciato.
«La volontà libera in sé e per sé, com’essa è nel suo concetto astratto, è nella determinatezza dell’immediatezza[1]». Con questa frase di difficile comprensione inizia la sezione dedicata da Hegel al primo momento del “diritto”: il diritto astratto o borghese. Qui la volontà si configura come una personalità, un singolo individuo, che, nel porsi come tale, si riconosce come volontà libera[2].
Perché la libertà però si esprima è necessario, dice Hegel, che si oggettivizzi: «la persona deve darsi una esterna sfera della sua libertà[3]», deve affermarsi come volontà in qualcosa.
Grazie a questo movimento di fuoriuscita da sé, la cosa a cui la volontà si rivolge ne diviene la sua proprietà.In un modo piuttosto complesso, il nostro ci sta qui dicendo che, da un punto di vista logico, la prima cosa che devo fare se voglio affermare la mia libertà è possedere un oggetto
Ora, uscendo di sé, però, la volontà particolare non trova solo degli oggetti. Trova anche altre volontà particolari, con cui stabilisce una relazione. «La persona […] si rapporta a un’altra persona, ed è così che entrambe hanno esserci l’una per l’altra solo come proprietari[4]».
È questo il terreno in cui viene alla luce la forma del contratto, la persona (la volontà particolare) che cede la proprietà, necessariamente deve riconoscere e rapportarsi a una volontà identica alla sua, la quale diviene a sua volta proprietaria.
Io vendo la mia cosa ad un’altra persona. Vendendola, ne riconosco la libertà di possedere l’oggetto proprio come lo possedevo io.
Tuttavia, nel contratto le due persone si vedono come semplici atomi, come monadi mediate da oggetti. La loro singolarità, la loro individualità non può ancora costituire una volontà comune universale.
Questo limite è fondamentale per superare l’angusto spazio del diritto borghese. La proprietà infatti non espone soltanto la volontà particolare alla sfera del contratto. Essa espone la persona anche alla sfera dell’illecito e del delitto: la sfera della violenza. Cioè, in altre parole, la cosa che io posso scambiare legalmente, mi può anche essere sottratta illegalmente.
E proprio qui il diritto astratto mostra, appunto, i propri limiti. Incapace, come abbiamo detto, di costituire una volontà universale, l’atto dell’illecito si configura come danno mosso da una volontà particolare a un’altra volontà particolare. Come il contratto era un rapporto tra privati che scambiavano volontariamente le proprie proprietà, così l’illecito è tra privati che fanno o subiscono un danno.
In virtù di questa privatezza, la pena non può essere la riaffermazione di una volontà universale contro le pretese di una volontà particolare. L’unica punizione è la vendetta: tu mi fai un torto e io te lo rendo. Si tratta dell’ius talionis, della riparazione che la persona che ha subito il danno esige in misura uguale al danno subito. Un circolo vizioso di illeciti reciproci in cui è impossibile stabilire dove stia la parte del giusto.
Non solo. Così facendo la volontà particolare trascende la propria finitezza, la propria privatezza e si pone illegittimamente come universale. La singola persona cioè si fa giudice, giuria e boia.
Lungi dal riparare il danno essa commette un nuovo illecito, finendo per essere contraddittoria con le proprie intenzioni.
E come risolvere questa contraddizione?
Per Hegel la soluzione è chiara: bisogna liberare la giustizia «dall’aspetto e interesse soggettivo così come dall’accidentalità della forza [cioè dalla capacità effettiva di vendicarsi][5]».
Bisogna cioè costituire cioè una volontà universale che garantisca la punizione del delitto senza che questo si trasformi in ulteriore delitto. E l’unica figura in grado di garantire questo è una volontà universale che riaffermi nella pena la sua universalità di fronte alla singolarità della persona: è la Moralität (la moralità).
Ma ancora il percorso dello spirito non è da considerarsi completo. Il rapporto che la volontà universale instaura con la volontà particolare, infatti, non è – dice Hegel – saputo da quest’ultima. La moralità si para di fronte alla volontà particolare e si afferma come potenza estrinseca, a cui la volontà particolare si adegua, senza però ancora riconoscerla come propria sostanza, come propria verità.
La moralità è insomma un mero “dover essere”, un bene astratto da seguire. E, se nel diritto privato, il delitto era l’imposizione esterna di una persona su un’altra persona (il furto, l’omicidio…), qui – nella sfera della moralità – il delitto si configura come male morale, come mancata adesione interiore a una legge sentita come imposta dall’esterno (la cattiva azione).
Paradossalmente la libertà della volontà si esprime qui nel poter fare un’azione cattiva, nel poter negare la legge, nel potersene discostare.
È però un paradosso. Infatti la legge morale non è in realtà una cosa esterna alla volontà. La moralità è la sostanza più intima della volontà. Senza la moralità la volontà è un nulla, senza un’universalità la singolarità non può sussistere. Antropologizzando il discorso hegeliano, questo significa che senza la collettività, non si danno nemmeno i singoli individui.
E proprio riconoscere questo permette di superare il mero “dover essere” rappresentato dalla Moralität, permette di entrare cioè in quella che il nostro chiama la sfera dell’eticità.
Qui la volontà soggettiva riconosce come propria realtà la volontà oggettiva (o universale) e non concepisce più il dovere come un’estrinseca imposizione.
Ora, questa tesi fornisce a Hegel una doppia giustificazione della pena: oggettiva (che già abbiamo accennato discutendo della moralità e del diritto privato) e soggettiva.
Sul piano oggettivo la pena è perfettamente giusta (se proporzionale al delitto) perché il delitto rompe un ordine universale prestabilito. Nel delitto infatti, il singolo oppone alla legge universale la propria legge privata. Al non uccidere oppone l’uccidere, al non rubare il rubare. In questo modo la volontà del delinquente tenta di rendersi universale. La pena è esattamente il momento in cui la volontà universale, viceversa, si riafferma come tale. In cui riafferma il divieto di uccidere e di rubare. Se così non fosse, la volontà singolare si farebbe universale, ciò che era delitto diverrebbe legge, impedendo al vero diritto di valere.
Fin qua nulla di nuovo. È infatti la giustificazione metafisica classica della pena.
Ma Hegel aggiunge un secondo elemento, quello soggettivo. La pena è giusta anche dal punto di vista del delinquente. Egli, infatti, ci porta a chiederci: chi è che di solito non puniamo per un illecito? I bambini e i pazzi. Perché? Perché non sanno ciò che fanno. Perché non sono esseri pienamente razionali. Viceversa, punire il criminale significa implicitamente riconoscere la sua razionalità e quindi la sua responsabilità.
Il ragionamento viene qui ribaltato. Non è giusto punire il delinquente anche se può riconoscere lo sbaglio fatto. È giusto proprio perché può riconoscere lo sbaglio. E con questo riconoscimento si concretizza anche il suo essere parte razionale di una collettività con leggi e norme che lo sussumono.
Ma di questo parleremo nel prossimo articolo, dedicato specificatamente alla sfera dell’eticità.