Ludwig Feuerbach occupa una delle posizioni più scomode di tutta la filosofia ottocentesca, e forse per questo non riceve il credito che meriterebbe: si trova infatti ad essere un discepolo di Hegel e il padre nobile del pensiero di Marx, ed accade così che questi due titani del pensiero facciano ombra e sovrastino un intellettuale che in altra epoca avrebbe potuto godere di luce propria. La filosofia di Feuerbach si sviluppa nel solco di Hegel, ma arriva ben presto a staccarsene per porre l’accento sulla libertà del pensiero e sul primato della filosofia e della messa in dubbio rispetto all’accettazione quasi giustificazionista del reale operata dal suo predecessore.
In particolare, Feuerbach ritrova nella filosofia la necessità di un superamento della religione e una sua riduzione ad antropologia: il cardine del suo pensiero, espresso ne L’essenza del cristianesimo, è il primato dello spirito originale dell’uomo rispetto ad un concetto di Dio che egli giudica costruito e proiettato, ma insussistente in sé, e come tale origine di una frattura che necessita di ricomposizione.
Nella sua concezione, non è Dio ad aver creato l’uomo, bensì l’uomo ad aver creato Dio, proiettando su questa figura tutto ciò che egli vorrebbe essere e avere. La ragione di questo è la mortalità: l’uomo teme che le qualità che lui possiede e ritiene desiderabili – la giustizia e la bontà, come l’eternità, l’onnipotenza e l’onniscienza – non possano trovare soddisfazione né compimento in una vita mortale e limitata, e dunque le attribuisce ad un’entità esterna cui conferisce del pari gli attributi di perfezione ed eternità. In questo modo, quelle qualità non saranno toccate dalla caducità e dal declino della mortalità, e potranno perdurare senza subire danno.
Tuttavia, questo processo non è indolore, ma reca una conseguenza grave e deleteria: nell’attribuire a Dio quelle qualità che riteneva desiderabili per preservarle dalla morte, l’uomo le ha separate da sé, e non ne è più in contatto. Si trova così costretto a doversi piegare alle necessità della fede e della preghiera, una preghiera sempre vincolata al soddisfacimento dei desideri mortali, e a sottomettersi ad un’entità pretesa superiore, quando in realtà è inconsistente: l’uomo si scinde e sottrae alla propria natura una parte fondamentale di ciò che lo costituisce quale uomo, e trasferisce questa parte ad un costrutto al quale deve poi piegarsi. L’esistenza di Dio non è affatto necessaria nell’ordine delle cose, ma deriva unicamente da questo travisamento profondo della natura: «Se l’uomo potesse ciò che vuole allora mai e poi mai crederebbe ad un dio, per la semplice ragione che sarebbe egli stesso dio [sic][1]». È questo il concetto di alienazione, già presente in Hegel, cui Feuerbach darà indissolubilmente un’impronta negativa che permarrà nel successivo Marx.
Una celeberrima e iconica raffigurazione di questo procedimento in letteratura è il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, ma, per una di quelle mirabili coincidenze che capitano di tanto in tanto, la si può scorgere anche in una delle opere di maggior successo degli ultimi vent’anni, vale a dire la saga di Harry Potter. Per la precisione, la struttura dell’alienazione descrive il meccanismo alla base di uno dei più importanti colpi di scena del finale della storia di J.K. Rowling, e pertanto mi vedo costretto ad avvisare di non procedere oltre chi non avesse ancora affrontato gli ultimi due libri, Il Principe Mezzosangue e I Doni della Morte, per non svelare uno snodo vitale della trama.
Nel sesto libro della serie, Harry Potter viene infine a conoscenza del segreto che ha permesso al suo acerrimo nemico di sfuggire ripetutamente alla morte: Lord Voldemort, il più grande mago oscuro di tutti i tempi, ha suddiviso in numerose parti la propria anima, vincolandole ad oggetti incantati e trofei di antico potere, che poi ha nascosto in vari luoghi come ancore di salvezza. Questi oggetti incantati sono gli Horcrux, contenitori di frammenti d’anima dotati di innaturale resilienza e capacità di autopreservazione, e fintanto che uno solo di essi rimane integro una parte dell’anima di Voldemort rimane vincolata alla terra, e dunque nessun danno subìto dal suo corpo umano può causarne la morte.
Il tema di uno stregone che usa la magia nera per ingannare la morte è antico quanto il desiderio di sfuggire ad essa, ed è stato affrontato in numerose versioni dal folklore e dalla letteratura: l’Unico Anello[2] di Sauron è forse l’esempio più familiare al pubblico moderno, benché sia riduttivo considerarlo solo sotto questo aspetto, ma non è certo il primo; già nelle fiabe russe era ricorrente l’Orco Koščej, significativamente chiamato Koščej l’Immortale, che aveva nascosto la propria anima in un ago, custodito all’interno di un uovo, dentro un’anatra contenuta in una sacca di pelle, rinchiusa in una cesta di ferro sepolta i piedi di una quercia nella fantastica isola di Bujan nel mezzo dell’oceano. La versione che ci arriva da J.K. Rowling tuttavia si presenta come affatto particolare e distinguibile, e si richiama in maniera approfondita al modello di Feuerbach.
Il funzionamento degli Horcrux infatti segue molto da vicino il meccanismo dell’alienazione: il mago ha in sé la propria anima e le qualità che le sono correlate, ma è anche condannato alla mortalità del proprio corpo; per allontanare da sé questa mortalità, tramite l’omicidio ed un rituale blasfemo spezza la propria anima e ne vincola un frammento in un oggetto esterno, e in tal modo costituisce un vincolo capace di superare la morte e preservarlo dal ferimento. Tuttavia, il mago ha dovuto letteralmente fare a pezzi la propria anima per arrivare questo punto, e nel trasferirne una parte al di fuori di sé ha rinunciato ad una parte della propria umanità. Ciò appare in modo assai evidente osservando la progressiva disumanizzazione cui va incontro Voldemort: la sua ossessione per l’immortalità e il terrore per la morte lo spingono infatti a creare di sua volontà ben sei Horcrux, a uccidere ripetutamente per assicurarsi senza possibilità di errore la propria sopravvivenza.
Un altro punto di contatto tra gli Horcrux e l’alienazione è la progressiva tendenza a fortificare l’oggetto della proiezione a scapito del soggetto originario. L’uomo spogliandosi delle proprie qualità per attribuirle ad un Dio cui riconosce eternità e invulnerabilità sta effettivamente rendendo quelle caratteristiche imperiture, al costo di allontanarle da sé. Similmente la creazione di un Horcrux trasfigura quello che era un oggetto comune in un artefatto dalla natura particolarmente resiliente. Per tutelare il frammento d’anima contenuto al suo interno, l’Horcrux deve essere estremamente durevole, e la sua distruzione richiede l’impiego di un metodo straordinariamente drastico e devastante, che gli impedisca di venir riparato dalla magia propria o altrui: il primo tra essi a comparire nella saga, il diario degli anni di scuola di Voldemort, quando ancora portava il nome di Tom Riddle, subisce un primo assalto quando Ginny Weasley cerca di sbarazzarsene gettandolo nei bagni, ma l’Horcrux aveva sopportato l’acqua assai meglio di quanto avrebbe potuto un comune quaderno, ritornando poi come nuovo; per distruggerlo, Harry sarà costretto a pugnalarlo con la zanna di un Basilisco, un temibile serpente magico il cui mortifero veleno possiede un unico antidoto, le lacrime di una fenice. Accade così che il mago oscuro nel vincolare a questi oggetti dei frammenti della propria anima li fortifichi oltre la propria originaria natura, e al contempo nella loro sopravvivenza ottiene il permanere del proprio sé.
Altrettanto rilevante è il concetto di reificazione, ovvero di rendere oggetto. Come rileva Feuerbach, le religioni primitive trovavano fondamento nell’adorazione di feticci e talismani, oggetti concreti nei quali vengono trasferiti i desideri e le preghiere degli adoratori. Al talismano il credente attribuisce potere poiché ne ha fatto la sede materiale e tangibile di ciò che altrimenti può solo immaginare.
Nel Mondo Magico di J.K. Rowling, l’esistenza dell’anima e la sua relazione con l’autocoscienza sono assodate come dato di fatto a causa della presenza dei fantasmi, ombre di maghi e streghe morti che conservano l’impronta della loro identità, ma per il resto l’argomento viene ignorato: gli studi sulla natura dell’anima e dell’Oltre sono praticati in segreto da pochi eruditi, e normalmente la popolazione magica non rivolge alcun pensiero al riguardo. L’esistenza dell’anima è presa in considerazione solamente nel caso assai particolare e terribile del Bacio del Dissennatore: i Dissennatori, le creature più oscure e malvagie del Mondo Magico, si nutrono di emozioni positive e ricordi felici, e quando hanno prosciugato la loro vittima ne afferrano la bocca tra le fauci e ne risucchiano via l’anima, condannando lo sventurato ad una condizione considerata peggiore della morte:
«Puoi esistere anche senza l’anima, sai, purché il cuore e il cervello funzionino ancora. Ma non avrai più nessuna idea di te stesso, nessun ricordo… nulla. Non è possibile guarire. Esisti e basta. Come un guscio vuoto. E la tua anima se n’è andata per sempre… è perduta»[3].
L’anima dunque per i maghi è qualcosa che esiste in uno stato trascendente, intangibile e astratto, separato dalla dimensione della vita presente se non in poche drammatiche interazioni. E la creazione di un Horcrux, forse uno degli esempi più riusciti di talismano nella letteratura fantastica contemporanea, è precisamente una di queste iterazioni, nonché una palese reificazione: con la magia oscura, viene dato un corpo fisico, maneggevole e circoscritto ad un oggetto esterno a ciò che prima esisteva solamente in forma astratta; l’anima cessa di essere un elemento ipotetico, accettato come esistente ma ininfluente, per caricarsi di immanenza e tangibilità ed assumere una presenza terribile e magnetica.
Ma il vero parallelo tra la teoria filosofica e la creazione letteraria sorge scrutando con più attenzione il concetto di alienazione: nel pensiero di Feuerbach, essa è strettamente legata alla dialettica hegeliana, intesa propriamente nel senso di negazione. Nell’atto di porre fuori di sé le caratteristiche umane, l’alienazione opera una trasvalutazione di ciò che è negativo in positivo, convertendo la mortalità umana in immortalità divina e la mancanza di potenza in onnipotenza. Una simile rapporto speculare e invertito intercorre tra la natura umana e la natura degli Horcrux:
«Un Horcrux è l’esatto opposto di un essere umano. […] Se io adesso ti infilzassi con una spada […] non farei alcun danno alla tua anima […], qualunque cosa accada al tuo corpo, l’anima sopravviverà intatta. Per un Horcrux è il contrario. Il frammento di anima all’interno dipende dal contenitore, dal suo corpo incantato per la sopravvivenza»[4].
E come la dialettica di Feuerbach si articola nella fase dell’in sé, le qualità umane dentro l’uomo, dell’altro da sé, le qualità proiettate su Dio, e auspica il ritorno riflessivo dell’in sé reso pienamente consapevole dal suo negativo, con il riappropriarsi dell’uomo di ciò che lo rende umano, così è teoricamente possibile riunire un anima mutilata e reintegrare un frammento che era stato separato. Ciò può avvenire soltanto tramite il rimorso, se il mago che ha creato l’Horcrux riesce ad acquisire la piena consapevolezza dell’atto che ha commesso e lo supera con un pentimento sincero, una condizione rara e in grado di scatenare un dolore tanto grave da poter distruggere chi lo tentasse.
È per questo che nel loro ultimo duello, al culmine della saga, Harry inviterà Voldemort a essere un uomo, a cercare di provare quel rimorso che solo potrebbe salvarlo dall’atroce destino cui si è consegnato. Nel tentativo di vincere la morte, propria della sua natura umana, Tom Riddle si è reso disumano spogliandosi di ciò che conferiva valore alla sua anima, considerando tutto ciò come sacrificabile di fronte alle doti innaturali ed esterne che i suoi Horcrux gli avrebbero concesso. L’unico modo che avrebbe Voldemort per riottenere ciò che un tempo era suo, per lenire un’anima lacerata e sfregiata, sarebbe di conseguire una consapevolezza delle proprie azioni e della propria malvagità tale da suscitare in lui un profondo rimorso. Il suo rifiuto di fare ciò, anche solo di contemplare le proprie azioni in cerca di un errore, sigilleranno la nequizia e la caduta del Signore Oscuro.
Non è solo una condanna morale che traspare dalla narrazione, ma anche una raffigurazione assai vivida di questo abbrutimento: con il passare degli anni e la progressiva mutilazione della propria anima, Tom Riddle passa dall’essere un giovane affascinante e di bell’aspetto e modi garbati ad una creatura mostruosa ed inumana, con occhi rossi, pupille a fessura e narici serpentine. Se in gioventù Riddle era capace di affascinare gli altri, di convincere chi gli stava vicino grazie alla persuasione e di pianificare con cura e misura le proprie mosse, Voldemort ormai non è più in grado se non di ispirare paura, e agisce in maniera sragionata e dominata da emozioni incontrollate.
La progressiva riduzione delle parti della propria anima contenute nel suo corpo lo rende progressivamente disumano, fino a lasciarlo come un guscio rinsecchito, privo di qualunque umanità e al di là di ogni speranza. La narrazione insiste ripetutamente sul valore che ha un’anima integra ed incorrotta, e questo sarà uno dei fattori che alla fine determinerà la vittoria di Harry; a questo valore Voldemort non ha mai creduto, per la propria superficialità ed ignoranza, e per questo egli nell’integrità dell’anima vedeva unicamente uno stato provvisorio da superare al più presto per trascendere la propria umanità ritenuta fallace, e nel fare ciò riesce unicamente a perdere ciò che era già suo senza acquisire in cambio ciò cui davvero ambiva.
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L’idea alla base di questo articolo nacque da una conversazione di ormai molti anni fa con Giovanna Laterza. A lei va dunque il mio ringraziamento. Naturalmente, qualsiasi limitazione o mancanza possa esserne sorta è da attribuirsi esclusivamente a me.
In copertina: Akinorevs, Horcrux.