Cartesio: la via del dubbio

Johannes Bosboom, Veduta di Utrecht

Eccoci al primo degli autori che ci siamo impegnati a trattare: Cartesio, o, per meglio dire, René Descartes. Perderci tra gli aneddoti della sua vita sarebbe inutile, ci bastino due o tre pennellate. Il nostro nasce nel 1596 e a undici anni viene mandato a studiare nel collegio gesuitico di La Flèche. Insoddisfatto dell’ambiente culturale tradizionale, appena raggiunge la maggiore età si arruola e gira l’Europa.

È il 1622 quando si licenzia dall’esercito: è giunto il tempo, egli ritiene, di riprendere in mano le “sudate carte”. Ma i primi del Seicento non sono certo anni facili per chi voglia proporre un qualche cosa di innovativo. La ferita aperta da Lutero ancora sanguina e l’Inquisizione ha paura di tutto ciò che si muove. Ne è un esempio la condanna di Galileo, evento che trattiene Cartesio dal pubblicare i risultati che aveva raggiunto negli studi sulla luce. Si dovrà aspettare ben quindici anni per vedere pubblicato qualcosa di suo.

Siamo nel 1637, Cartesio vive in Olanda e qui pubblica la sua prima opera: una raccolta di tre saggi intitolati Diottrica, Meteore e Geometria. Ma non è certo a questo che deve la fama. È la prefazione che lo rende celebre, il Discorso sul metodo. Fu come gettare una pietra in uno stagno: fece un enorme scalpore, difficile da raccontare oggi. Le sue idee sono innovative, danno nuove risposte ad antiche domande, e sono percepite addirittura come pericolose dalle istituzioni.

Nel dubbio, l’Università di Utrecht lo condanna.

Non bastano certo questi divieti a mettere a tacere il dibattito che le sue teorie stanno suscitando: quattro anni dopo usciranno le Meditazioni metafisiche, un breve opuscolo in cui Cartesio risponde alle obiezioni mossegli.

Ma perché suscita tanto scalpore? In primo luogo per l’afflato scientifico che guida l’autore. Certo, Cartesio non fa proprio il metodo della scienza, ma sicuramente ne interpreta lo spirito, ciò che la muove e che la fa essere ciò che è: rigorosa, sistematica, oggettiva.

Tuttavia, questo non esaurisce la ricerca di Cartesio. Il rigore, la sistematicità, non bastano.

Cartesio ritratto
Ftans Hails, Ritratto di Cartesio

Infatti, nel riflettere sulle basi di un sapere che sia realmente tale, Cartesio si accorge che non ci si può limitare a procedere al modo dei “filosofi naturali”, come si chiamavano all’epoca gli scienziati. La conoscenza empirica non basta. Bisogna prima confrontarsi con un ostacolo a prima vista insormontabile: cosa garantisce che la mia conoscenza sia vera? Che io non mi sbagli o che non sia indotto a sbagliarmi? Non potrebbe esistere un genio maligno – come lo chiama – che mi inganna?

La domanda, di per sé, non è nuova (basti pensare alla risposta che gli scettici diedero già nel V secolo a.C.). Ciò quello che è innovativo è il tentativo che fa Cartesio di risolvere questo problema. Cartesio afferma: io posso dubitare di ogni verità, pensare che le mie sensazioni mi conducano all’errore, mi portino a credere che il mondo esiste quando in realtà non sono altro che, per usare un’immagine contemporanea, un cervello che galleggia in una vasca (o addirittura nemmeno quello!). Ma questo è possibile se, e soltanto se, esisto.

La mia esistenza assurge a evidenza vera irriducibile a ogni dubbio. Io dubito (penso) dunque sono: cogito ergo sum. Può sembrare un ragionamento banale, scontato, Ma non lo è. Anzi, è la chiave di volta della filosofia moderna. Cartesio, infatti, con il suo esperimento mentale, si accorge che esiste un soggetto. Qualsiasi cosa possiamo affermare del mondo, lo possiamo fare perché ci siamo, perché esistiamo. Se non esistessimo, non potremmo affermare alcunché del mondo. Il mondo non sarebbe nemmeno pensabile. Sarebbe quasi come se non ci fosse. E dunque, per indagare il mondo, bisogna indagare innanzitutto chi lo guarda.

Nonostante lo scalpore che suscitò, quest’innovazione è in realtà profondamente figlia del suo tempo. Quella in cui opera il nostro è una contingenza storica che vede una sempre maggiore emancipazione del pensiero dal dogmatismo, in particolare quello cristiano. Le ragioni di questa trasformazione sono strettamente filosofiche (Cartesio si inserisce in un’onda lunga che vede alle sue spalle tentativi mirabili, come quello di Giordano Bruno, o di Copernico), ma anche economiche e politiche.

La borghesia si appresta a calcare le scene, reclama sempre più a gran voce spazi propri e valori che ne riflettano di più e meglio l’intima essenza, valori che non si confondano con quelli del vecchio mondo ormai decadente.

Cartesio discorso sul metodo

È nota, infatti, la relazione tra questo fenomeno sociale e il sorgere nel campo speculativo della centralità dell’individualismo. Meno evidente, però, come questo si traduca nell’ambito delle teorie sul metodo, quella che in gergo tecnico si chiama epistemologia.

Certo, la soggettività come «autodeterminazione assoluta della volontà»  non è un fenomeno tanto recente: il cristianesimo pone l’uomo come centrale, anche nella sua dimensione individuale, e porta con sé un lungo dibattito sul libero arbitrio, che si sviluppa proprio nei secoli precedenti a Cartesio. Eppure l’orizzonte del discorso non veniva tracciato attorno al soggetto come unicum, come ente ab-solutus, separato dagli altri.

Nessun filosofo prima dell’epoca moderna avrebbe asserito che siamo «monadi senza finestre», come avrebbe detto Leibniz[1]. Per Leibniz, infatti, la monade una sorta di “atomo spirituale”, reale essenza del mondo, che rifletteva l’intero universo dal proprio particolare punto di vista. Le monadi potevano percepire e appercepire (avere consapevolezza della propria percezione), eppure erano prive di relazioni tra di loro (erano per l’appunto “senza finestre”) e l’unica azione di cui erano capaci era un’azione preordinata da Dio all’interno di un’armonia cosmica. Tutto questo non era pensabile prima della modernità.

Tornando a Cartesio: porre il soggetto come punto di partenza della conoscibilità del mondo segna la rottura con la filosofia antecedente. Una filosofia che poteva o gettarsi nelle braccia dello scetticismo, oppure, più spesso, rimanere ancorata a un oggettivismo ingenuo, la cui garanzia di veridicità risiedeva o nella sicurezza immediata della relazione tra il mondo e l’essere umano, o nell’appello a Dio come suprema entità buona (impossibilitata nella sua perfezione all’inganno).

Le asserzioni cartesiane, in poche, semplici pagine, hanno scardinato e ribaltato l’approccio nei riguardi della conoscenza che era stato tenuto fino a quel momento. A partire infatti dalla sicura evidenza della mia esistenza, non soltanto posso “ritornare a Dio”[2], ma posso altresì a questo punto negare l’ipotesi del genio maligno e quindi dell’inesistenza della realtà. Insomma l’intero edificio, distrutto con il dubbio scettico, può venir ricostruito daccapo, ma finalmente con fondamenta più salde.

Ci bastino per il momento le parole che la mano di Hegel tracciò nel 1807, che ci sembrano quanto mai appropriate per la nostra conclusione:

La coscienza naturale mostrerà di essere soltanto concetto del sapere, ossia sapere non reale. Ma giacché quella ritiene sé, immediatamente, il sapere reale, questo itinerario ha per lei significato negativo e […] in questo itinerario […] perde la sua verità. Può quindi venir considerato come la via del dubbio[3].

 


In copertina: Johannes Bosboom, Veduta di Utrecht

Simone Coletto
Simone Coletto

Nato a Milano, classe 1993, laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia; lettore e appassionato di politica da sempre, ho avvicinato gli studi filosofici sui banchi del liceo (classico) e da lì ho compreso come questa disciplina dia ad ognuno la possibilità di capire e modificare il mondo.