Quella della Forma Urbis è una storia avventurosa che ha attraversato il tempo tra oblio e riscoperta. Nel settore nord-occidentale del Celio, all’interno del parco archeologico che affaccia sul Colosseo, ha trovato spazio una delle più straordinarie testimonianze della Roma antica, la Forma Urbis: una monumentale pianta marmorea costruita per volontà dell’imperatore Settimio Severo tra il 203 e il 211 d.c. Di dimensioni colossali, occupava una superficie di 13.550.000 metri quadrati, snodandosi lungo uno spazio di 18 metri per 13. Era costituita da 150 lastre marmoree dipinte, sostenute da perni e costellate di sottili incisioni che mappavano la conformazione della Roma severiana secondo una scala di 1 a 240.
Quartieri con i loro edifici pubblici e i tempi sacri, le case e le ville, le botteghe e i granai, i castra e le terme, segnavano la conformazione di un’intera città e della vita che vi scorreva dentro. Provoca un’emozione appagante poter verificare personalmente la famosa fama dell’estro creativo, sempre associato a capacità tecniche sorprendenti, dell’antico popolo romano. Perché non si tratta della semplice mappatura di una città, ma di un reticolato urbano che prende vita e racconta di un tempo lontano ma sempre rievocabile.
Ogni elemento che compone la pianta ha un suo segno fatto di semplici geometrie che si incontrano e che potrebbero apparire come un’opera d’arte contemporanea se non si sapesse da chi furono ideate: era un enorme rilievo, che doveva sorprendere. Questo lo scopo per cui la Forma Urbis fu voluta da Settimio Severo e da suo figlio Caracalla.
Fu affissa, non a caso, sulla parete del Tempio della Pace: l’imperatore, gli imperatori, sono princeps pax, quella pace che deve essere mantenuta anche a costo di fare la guerra, e loro è il compito di garantirla.
Settimio Severo è un princeps romano, anzi, ancora di più: sotto il suo regno, il princeps che è investito del suo potere dal Senato, si trasforma nella figura del dominus legittimato dall’unico vero baluardo dell’Impero: le legioni. Fu innalzato infatti al soglio imperiale con l’appoggio della forza militare, riformò l’esercito romano, volle legittimare l’ufficialità della propria successione dichiarandosi, nella titolazione imperiale, figlio di Marco Aurelio, fratello di Commodo, e si fece riconoscere il titolo di deus dando origine al concetto di investitura per volere divino.
Fu commissionando una colossale rappresentazione del suo potere espanso sulla gloriosa città di Roma che il nuovo imperatore poté manifestare la grandezza della sua dominatio. La Forma Urbis ha un ruolo propagandistico, le sue dimensioni sarebbero altrimenti ingiustificate: chi entrava nel Tempio sarebbe dovuto rimanere esterrefatto, dominato da quello che gli si manifestava di fronte.
Infatti, nella posizione verticale in cui si trovava, una piattaforma marmorea di quella dimensione sarebbe stata impossibile da consultare integralmente. Lo sguardo poteva arrivare fino ad un certo punto, poi era obbligato a desistere e a contemplarne – semplicemente – la grandezza. Un’estensione considerevole e volutamente impossibile da cogliere nella sua interezza.
Forse il suo destino era quello di essere dispersa in tanti pezzi, chi sepolto, chi riutilizzato, nessuno avrebbe potuto più ricomporla nella sua interezza. Un’interezza che voleva essere negata sin dalla sua costruzione a vantaggio dall’imponenza di un manufatto, simbolo del potere di Roma e del suo imperatore. E infatti questo è accaduto. La Forma Urbis è stata dimenticata, poi riscoperta, e alla fine salvata.
Il Tempio della Pace venne inglobato nella Basilica dei Santi Cosma e Damiano (su una delle pareti sono ancora visibili i fori in cui erano stati posizionati i perni che sorreggevano la mappa severiana). Fu riportata alla luce solo nel 1562, grazie al mecenatismo di Alessandro Farnese (futuro papa Paolo III) che ne finanziò e favorì l’attività di recupero e di valorizzazione.
Ma la fortuna non è affidabile, spesso ci tiene in balia dei suoi capricci. Dopo un temporaneo interesse legato ai tempi e a uomini eccezionali più che alla coscienza storica, La Forma Urbis venne destinata a un nuovo oblio che durò fino al 1742 quando entrò a far parte della collezione dei Musei Capitolini.
Quel che resta oggi è circa un decimo del totale. Nel corso del tempo sono stati rinvenuti centinaia di frammenti, ma solo 200 sono stati identificati e idealmente collocati nella ricostruzione della pianta la cui ultima esposizione fu realizzata tra il 1903 e il 1924 a Palazzo dei Conservatori e fino al 1939 collocata, in parte, presso l’Antiquarium del Celio.
Dopo quasi un secolo la Forma Urbis trova una nuova sede e un nuovo allestimento. L’intenzione del progetto è stata quella di renderne possibile la fruizione e la leggibilità che il tempo e la monumentalità avevano sempre compromesso.
Per farlo, sul pavimento della sala principale del Museo archeologico del Celio, i frammenti sono stati sovrapposti alla Pianta Grande di Giovanni Battista Nolli, usata come base planimetrica. Una doppia storia che si può letteralmente ricostruire passo dopo passo, essendo tutta la superficie percorribile dall’osservatore.
Si tratta di una pavimentazione in vetro il cui fondale consiste nella riproduzione della pianta del Nolli e su cui, a sua volta, sono incastonati i frammenti della Forma Urbis. La sovrapposizione con la Pianta Grande permette di rintracciare, nella Roma settecentesca, l’antica collocazione degli edifici che popolavano il centro della Roma severiana.
Un gioco di rimandi, riferimenti e inaspettate corrispondenze che mostrano una Roma trasformata ma in cui è sempre possibile rintracciare qualche segno di continuità. Nella pianta del Nolli traspare una città che, al visitatore moderno, potrebbe apparire non così tanto stravolta rispetto alla metropoli che oggi gli si para davanti agli occhi.
Come il lavoro dietro la pianta commissionata da Settimio Severo anche quello del famoso cartografo e incisore settecentesco fu considerevole. Insieme al figlio Carlo e a nomi illustri come quello di Piranesi, nel 1748 riuscì a portare a termine l’opera. Inizialmente si dovette autofinanziare, ma ben presto venne sostenuto dal futuro Papa Benedetto XIV che, oltre all’aiuto economico, permise l’accesso a palazzi, giardini, proprietà private e perfino a conventi di clausura.
Ad essere giustapposte sono due storie ognuna appartenente in modo inequivocabile alla propria epoca. All’essenzialità geometrica della Roma antica segnata da linee che si congiungono tra loro su marmo bianco si sovrappone un tratto ornato, elaborato e netto di una Roma figlia del Settecento Barocco.
Insieme, questi due straordinari capolavori raccontano al visitatore un’unica storia in cui è possibile sperimentare le straordinarie trasformazioni del tempo che non cancella nulla ma che ha il potere di nutrire l’immaginazione. Camminando e ricostruendo, passeggiando su una liscia superficie di vetro (che, quando dalle finestre entra il sole di una bella giornata romana, è animata da pulviscoli di luce che si alternano alle ombre) in questo viaggio attraverso il tempo, ognuno di noi può scoprire come sia sorprendentemente possibile immergersi in un racconto che continua da secoli ad emozionare l’uomo.
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In copertina: foto di Roma Today