Sono il servo di Ares dominatore
e ben conosco delle muse il dono amabile.
Archiloco. Chi era costui? Solo nelle aule di qualche ginnasio si traduce qualche suo frammento, ma al di fuori della stanca istituzione gode del più perfetto anonimato. Eppure fu uno dei maggiori poeti, amato dagli antichi e paragonabile a un Rimbaud. Anzi, quasi più interessante di un Rimbaud.
Siamo nell’epoca della lirica greca, a cavallo tra settimo e sesto secolo a.C, l’epoca di Alceo e della celeberrima Saffo. Un po’ come i poeti di oggi (quelli che sopravvivono), che si trovano davanti una mole sterminata di opere grandiose e sentono che la sopravvivenza stessa di quest’arte pesa soltanto sulle loro esili spalle, anche questi poeti fanno da elemento di congiunzione con l’antico, con Omero ed Esiodo. Ne sono debitori, a volte rubano qualche perla qua e là: il bellissimo epiteto «Eros che scioglie le membra» di Saffo, ad esempio, lo ritroviamo tale e quale in Esiodo. Ma non dobbiamo pensare al fiore della poesia greca come se fossero dei manieristi, incapaci di un proprio apporto artistico. Al contrario, si sforzano di trasportare questa eredità all’interno di un mondo totalmente diverso: non sono più poeti epici, appartengono ad una nuova sensibilità, la sensibilità dell’individuale. Non esistono più eroi: esistono soltanto uomini, e di questi uomini si deve cantare.
Si compiace, uno dei Sai[1], dello scudo,
arma immacolata che non volendo
lasciai presso un cespuglio.
Eppure sono salvo: e chi si cura
più dell’arma? Faccia la ruggine,
uno non peggiore mi conquisterò con valore.
Soldato di professione, Archiloco ci narra della guerra, di un duro mestiere che, al contrario di quanto si dice, lascia poco spazio per l’onore, ma è solo fatica, tormento, paura. Questo frammento è emblematico: capovolge il concetto omerico di onore sul campo, di valore militare. Lo scudo, importante nell’antichità quanto la bandiera per un esercito moderno, da simbolo qual era nel mondo omerico, passa ad essere un mero strumento. Il poeta è salvo: è questo che conta. La nostra traduzione, pur sforzandosi, non riesce a ricreare la musicalità del testo originale, e questo ci impedisce di apprezzare un fatto nuovo nella poesia.
Un fatto che nasce proprio con Archiloco: l’impoetico in poesia. L’esclamazione al penultimo verso, ad esempio, è quanto di meno classico si possa scrivere. Eppure nell’originale il termine (ερρέτω[2]) si amalgama perfettamente con il testo: il significato, aspro, non suona aspro all’orecchio. E su questa discrasia tra forma e contenuto gioca molta poesia archilochea, fino a farne un vero e proprio genere: il giambo, l’invettiva: «Le ricchezze scorrono limacciose / nel ventre della donna di bordelli», scrive, e anche qui in modo estremamente musicale.
E giunge addirittura ad un certo gusto dell’orrido (quasi un Lucano ante litteram) e in generale l’idea della vita come un grande, altalenante cataclisma. Ne è esempio un componimento dedicato ad un’eclisse solare: «da quando Zeus Padre Olimpio /pose la notte a mezzogiorno / celando il fulgore di Elios sfavillante / e sopraggiunse fluente angoscia sugli uomini», o la bellissima poesia in cui afferma che è necessario riconoscere «quale ritmo soggioga gli uomini». E, infine, ecco l’esplosione di questo sentimento:
Tutto fanno gli dei: spesso
nella sventura ritemprano
uomini riversi sulla terra atra;
spesso li rovesciano, ed eccoli
di nuovo giacere piegati. Così
nasce tremenda disgrazia
errabonda signora di violenza e follia.
Personalmente, quando mi sono trovato davanti quest’ultimo verso, che si faceva tradurre così, senza bisogno che vi aggiungessi nulla, sono rimasto sbalordito. «Errabonda signora di violenza e follia» mi sembra un verso bellissimo e tremendo, un verso da Rimbaud, da poeta veggente.
E non abbiamo ancora considerato che si tratta di frammenti: gran parte della poesia di Archiloco è andata perduta. Eppure quello che rimane è incredibilmente suggestivo. È proprio da questa oscurità, da queste righe sparse come gocce di pioggia che nasce la vera poesia, cioè la forza evocativa, espressiva. Sono versi capaci di costruire tutto un mondo passato. E raramente un poeta è così sublime da poter essere tagliuzzato, macellato dal tempo, e conservare la sua forza primigenia. Se prendessimo a caso pezzetti di un Rimbaud, di un Baudelaire, (per non parlare di un Sanguineti o uno Zanzotto) riusciremmo a trovarvi lo stesso spirito? O ci troveremmo davanti dei pezzi insignificanti, incapaci di rendere un quadro unico, completo?
Forse una delle capacità più sconvolgenti degli antichi è proprio questa: donare di massima bellezza ogni singola parte del proprio componimento: curare ogni singolo verso al massimo delle sue potenzialità. Come facevano i pittori fiamminghi, che riempivano di dettagli minuscoli l’intera opera, e in ogni quadro mettevano diecimila altri quadri, così i nostri antichi erano capaci di stupirci con versi già di per sé squisiti. Ed è così che dei piccoli frantumi ci sembrano delle poesie intere:
Molto tra mari costellati di sale canuto
supplicando il dolce sapore del ritorno
Non sappiamo niente di tutto il resto, eppure ha una forza incredibile: è un insieme di metafore, sentiamo l’anelito del ritorno e l’aria salmastra. Oppure questi frammenti erotici, sconvolgenti se si considera che sono stati scritti duemila e settecento anni fa:
Con lo stelo di mirto stringeva
della rosa il bel fiore.Quella sua chioma gli omeri
le ombreggiava e i fianchie caderle sulla pelle inebriante
e imprimere ventre a ventre, cosce a cosce.
Ecco che vediamo come Archiloco ci costringa a prestare attenzione ad un singolo aggettivo, ad un malconcio verbo sopravvissuto. E da questo scaturisce tutto un affascinante universo impalpabile, quest’ultimo effluvio dolce e combattivo di un mercenario che sapeva sognare.
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Tutte le poesie presentate sono in nostra traduzione. Il testo di riferimento è G. Tarditi, Archilochus, Roma, 1968.