Seminando nella Commedia ricorrenti citazioni, riferimenti, allusioni mitologiche tra verso e verso, il sommo Dante ha davvero creato una selva oscura, in cui si fatica a trovare la strada. Anche quando non appare esplicitamente, l’opera del Sommo è intrisa di latinità, e non può essere compresa altrimenti.
Il celeberrimo ventiseiesimo canto dell’Inferno ne è un esempio: non conoscendo il greco, è proprio dai latini che il Sommo ha attinto per la figura di Ulisse. Non c’è quindi da stupirsi se essa risulta diversa da come Omero la presenta. Ma questa diversità è presente già in antico o è originale, frutto dell’ingegno di Dante? La questione è intricata e richiederebbe un vasto studio. Eppure, a volte, leggendo per caso, salta in mano il passo giusto, e si accende la lampadina.
(…) Et iam Iunonia laeva
parte Samos fuerant, Delosque Parosque relictae,
dextra Lebinthos erat fecundaque melle Calymne,
cum puer audaci coepit gaudere volatu,
deseruitque ducem, caelique cupidine tractus
altius egit iter. (…)(…) E già a sinistra Samo cara a Giunone
avevano passato, lasciate Delo e Paro;
a destra Lebinto vi era, e Calimne abbondante di miele,
quando il ragazzo iniziò a godere del volo audace
e abbandonò la guida, attratto da una forte brama di cielo
e più in alto spinse il suo viaggio. (…)[1]
Siamo nell’ottavo libro delle Metamorfosi di Ovidio, altro testo denso di storie e nomi, altra selva intricata di vicende. Questa volta il protagonista è Icaro, il fanciullo che andò troppo vicino al sole, che sciolse la cera che teneva insieme le sue penne.
I richiami sono evidenti, ritorna subito in mente «da la man destra mi lasciai Sibilia / dall’altra già, mi avea lasciato Setta»; poi, soprattutto, da «audaci volatu» a «folle volo», il salto è breve. E tutta la vicenda di Dedalo e Icaro è intrisa di parallelismi con la vicenda odissiaca: l’intelligenza di Dedalo nel creare il labirinto del Minotauro, il suo desiderio di tornare nella terra natale, la sua nostalgia, e quindi di nuovo l’arguzia nel costruire delle ali per sé e per il figlio.
Intelligenza, arguzia, nostalgia: tutti termini comuni al buon Odisseo. Ma già «nostalgia» non calza più per l’eroe dantesco: Dante trasforma l’eroe del ritorno nell’eroe della scoperta. Forse, in questa metamorfosi, ha in mente proprio Icaro. L’ardore di Ulisse, pur essendo un sentire più assennato, quale il «divenir del mondo esperto, de li vizi umani, e del valore», assomiglia molto alla «forte brama di cielo» di cui parla Ovidio. Icaro è in effetti il personaggio della scoperta, della curiosità pura, pura e incosciente, che si spingerà oltre il consentito.
È l’altra faccia di Dedalo: al machiavellismo dei suoi labirinti oppone la semplicità dell’osservazione, di chi inventa non dopo molti e sofferti ragionamenti, ma così, per talento naturale. Allo stesso modo l’Ulisse dantesco è spinto da un’idea specularmente opposta a quella di Odisseo: una forza centrifuga, che non si accontenta di un’esistenza normale, dentro le quattro mura di una casa, ma che, al contrario, dopo aver viaggiato tanto, sente che il senso della sua vita è proprio quello, continuare a viaggiare.
E in questo è molto simile al ragazzino che si bruciò per essere arrivato troppo vicino al sole: «Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / a la quarta levar la poppa in suso / e la prora ire in giù, com’altrui piacque, / infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».
Bibliografia
Ovidio, Metamorfosi, a cura di Piero Bernardini Mazzolla, 1979 Einaudi, Torino.
Dante, Commedia, a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, 1991 Mondadori, Milano.
Q. F. Orazio, Le lettere, a cura di Enzo Mandruzzato, 1983 Rizzoli