Non solo vergini: i frammenti del romanzo greco

William Adolphe Bouguereau, Ninfe e satiro, 1873

Tra le opere che la clemenza del Tempo ci ha fatto pervenire dai primi secoli successivi alla nascita di Cristo, spicca per singolarità un piccolo corpus di narrazioni in prosa piuttosto estese, redatte in lingua greca. Gli studiosi che vi si sono accostati in età moderna, temendo che il classificarle come “storie di giovani amanti cui sfighe improbabili vietano di fare sesso” potesse assottigliare ulteriormente un bacino di lettori che già si preannunciava piuttosto esiguo, hanno optato per etichettarle con la più sbrigativa – ma efficace, ancorché anacronistica – definizione di “romanzi”. I romanzi greci che oggi possiamo leggere sono cinque, tutti composti tra il I e il III secolo: il Romanzo di Calliroe di Caritone di Afrodisia, Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, Dafni e Cloe di Longo Sofista, le Storie efesie di Senofonte di Efeso e le Etiopiche di Eliodoro di Emesa.

Ora, bisogna dire che, pur con tutte le differenze del caso, farsi un tour de force di lettura di romanzi greci è come andare a far degustazioni alla sagra della grappa al mirtillo: è buona quanto vuoi, ma dopo il quindicesimo assaggio ogni sorso ti sa un po’ di già sentito[1]. La trama di tutte queste storie è incentrata sulle peripezie di due giovani amanti (sposi o promessi tali), bellissimi e rigorosamente vergini. A un’iniziale situazione di quiete fa seguito un incidente che divide i due amanti, che da quel momento in poi si ritrovano sballottati di qua e di là per terre ignote in un caleidoscopio di avventure e colpi di scena; colpi di scena che impediranno ai nostri eroi di riunirsi e vivere felici e contenti consumando il matrimonio[2] fino alla fine del romanzo.

Nella vita reale, una storia con questi presupposti di desiderio carnale costantemente frustrato si ridurrebbe a un susseguirsi di «[Nome del protagonista], che stai facendo in bagno da mezz’ora?», ma nel magico mondo del romanzo greco gli autori sembrano fare a gara per tenere il lettore col fiato sospeso in mille modi diversi ed ingegnosi, se non proprio sempre originali.

È automatico, per esempio, che a un certo punto del romanzo interverranno dei pirati a rapire l’eroina, che qualcuno tenderà insidie alla sua castità e che prima o poi il suo amato amante la crederà morta, tentando subito d’uccidersi a sua volta. Convenzioni a parte, però, i romanzi greci erano – e restano tuttora – un genere letterario ben definito, con una sua piena dignità, e un genere di cui quei cinque testi che ancora possediamo nella loro interezza ci consentono di ricavare con sicurezza le caratteristiche generali.

François-Louis Français, Paesaggio con Daphni e Chloe
François-Louis Français, Paesaggio con Daphni e Chloe.

Giusto?

Perdio, ovviamente no. Altrimenti l’articolo finirebbe qui e io sarei costretto a riempire il resto della pagina con fotografie del castoro della Bassa Sassonia.

Questo tipo di ragionamento filava fino al tardo ‘800, fino a quando cioè una delle più sensazionali scoperte archeologiche della Storia non rimescolò tutte le carte in tavola a metà partita. Tra le migliaia di frammenti di papiro rinvenuti a partire dal 1896 a Ossirinco, in Egitto, ve n’era anche un certo numero cui le antiche mani dei copisti avevano affidato il testo dei loro romanzi preferiti. Nessuno di questi frammenti era in realtà gran cosa da un punto di vista strettamente narrativo: nessuno di essi ci ha restituito un episodio compiuto in se stesso, o una porzione di testo tanto estesa da renderne godibile la lettura. Quel poco che oggi riusciamo a leggere, tuttavia, basta a farci capire che, se prima da un romanzo greco ci saremmo aspettati solo castigate storie di amanti illibati[3], ora la cosa si faceva più complessa.

Nel frattempo un altro uomo, nudo, si avvicinò cinto d’un perizoma rosso, e dopo aver sbattuto a terra di schiena il corpo del ragazzo gli aprì il petto, ne estrasse il cuore e lo mise sul fuoco. Poi lo tirò fuori e lo fece a fette. Ne cosparse la superficie di grani d’orzo e le bagnò nell’olio, e quando ebbe terminato i preparativi le distribuì agli iniziati; ordinò a tutti quelli che avevano una fetta in mano di giurare sul sangue di quel cuore che non si sarebbero mai arresi né avrebbero tradito i loro compagni[4]

Questo gaio quadretto bucolico appartiene all’unico dei frammenti ritrovati ad Ossirinco che sia riconducibile con sicurezza a un romanzo con un titolo e un autore: le Storie fenicie di un certo Lolliano, che di sé non ci ha lasciato che il nome[5]. Altri frammenti ascrivibili allo stesso romanzo mettono in scena la deflorazione di un giovane ad opera di una cortigiana, l’apparizione di un fantasma e un’orgia omosessuale cui si abbandonano i suddetti briganti cardiofagi.

Non tutti i frammenti ritrovati ad Ossirinco sono così estremi, sia chiaro, ma anche quelli più innocenti ci appaiono piuttosto sconcertanti per la varietà dei temi trattati. In altri scarni lacerti di romanzo troviamo scene d’amore tra giovani regnanti assiro-babilonesi nel pieno dell’adolescenza (Romanzo di Nino), fanciulle travestite da uomo che guidano eserciti in battaglia (Romanzo di Calligone), ragazzi che si fingono eunuchi sacerdoti di Rea Cibele per ragioni a noi ignote, ma sicuramente validissime (Romanzo di Iolao), e molto altro[6].

Alcune di queste scene ci saremmo aspettati di trovarle in quel genere di libri che sono un po’ i fratellini stronzi dei romanzi greci, e cioè i romanzi latini[7]. Le scene descritte da Lolliano non farebbero poi meraviglia se fossero inserite nel Satyricon di Petronio o nelle Metamorfosi di Lucio Apuleio, ma stridono in modo eclatante in un contesto letterario in cui persino il più rozzo dei pirati, quando ha in suo potere l’eroina del romanzo, tenta di mendicarne la pietà con queruli accenti d’amore invece di saltarle addosso gridando all’arrembaggio.

Jean-Leon Gerome, Interno greco, 1848
Jean-Leon Gerome, Interno greco, 1848

Questi ritrovamenti misero in seria discussione quanto si era creduto di sapere fino a quel momento sul romanzo greco. Quello che fino alla fine del XIX secolo era parso un genere letterario minore, poco rappresentato e basato su ferree regole convenzionali, cominciava ora a manifestarsi come un fenomeno culturale molto più articolato e complesso, che toccava una varietà di temi del tutto insospettata.

Era chiaro, tuttavia, che poche righe tracciate su frustuli di papiro accartocciati non potessero aiutarci più di tanto a farci un’idea della complessità del fenomeno; ce ne facevano intuire la portata, ma non ci davano che un misero strumento per indagarla più a fondo. L’abbiamo già detto, no? Noi possiamo leggere per intero solo cinque romanzi greci. Solo di questi cinque possiamo conoscere la trama nel dettaglio, e quindi ci è del tutto impossibile immaginare come potesse svilupparsi, nell’ambito dello stesso genere, un intreccio diverso da quelli che rispondono al modello per noi più familiare.

Giusto?

Signori, no. Come ve lo devo dire? No. Ci siete cascati ancora. Oppure siete veramente curiosi di vederlo, questo castoro della Bassa Sassonia.

Nella seconda metà del X secolo, il patriarca Fozio di Costantinopoli fece un grande favore a suo fratello Tarasio e un immenso favore all’umanità. In risposta a una richiesta di Tarasio si mise a recensire in modo dettagliato più di 200 libri, quelli che per necessità o per diletto si era trovato a leggere negli ultimi anni. Questa enorme collezione di recensioni, opportunamente battezzata Biblioteca, costituisce per noi una fonte insostituibile di informazioni per quanti tra i libri di questa lunga lista sono ormai andati perduti. In questo caso specifico, poi, la collezione di Fozio ci è doppiamente utile perché l’austero patriarca, nei suoi momenti liberi, non disdegnava la lettura di un buon romanzo. Altri due romanzi greci ci sono noti attraverso il riassunto approntato da Fozio per il suo amato fratello; senza di lui, di due autentiche meraviglie letterarie quali le Storie babilonesi di Giamblico e le Meraviglie al di là di Thule di Antonio Diogene non ci sarebbe rimasto nulla.

La trama delle Storie babilonesi, stando a quel che si ricava dal riassunto di Fozio, seguiva lo stesso schema dei romanzi che ci sono giunti completi. I due protagonisti, Sinonide e Rodane, vengono separati nel giorno delle nozze da Garmo, re di Babilonia, che tenta di sedurre la prima e destina il secondo alla crocifissione[8]. I due amanti, tuttavia, riescono a fuggire, e qui ha inizio una lunga serie di avventure che, se in linea di principio sono simili a quelle tipiche del romanzo greco, sono però più intricate e fantasiose di quelle di ogni altro romanzo in nostro possesso.

Peter Paul Rubens., La morte di Adone, ca 1614
Peter Paul Rubens., La morte di Adone, ca 1614

Seguendo la divertente epitome che Susan Stephens e John Winkler premettono alla loro traduzione del riassunto di Fozio, possiamo dire che gli sfortunati protagonisti «vagano per tutto il Medio Oriente inseguiti da due eunuchi cui sono stati mozzati naso e orecchie. Incontrano api dal miele avvelenzato, una principessa d’Egitto lesbica, un brigante cannibale e due fratelli di nome Tigri ed Eufrate che, già simili tra loro, sono anche l’esatta copia del protagonista, oltre alla piuttosto distinta figlia di un contadino che viene costretta dall’eroina del romanzo a dormire con un boia che è in realtà un sacerdote di Afrodite che aiuta suo figlio Eufrate a scappar via di prigione facendolo travestire con gli abiti della figlia del contadino[9]».

Le Meraviglie al di là di Thule, invece, sono un vero enigma. Lo stesso Fozio, che pure riesce a riassumere con chiarezza la complicatissima trama delle Etipoiche di Eliodoro di Emesa[10], sembra trovarsi in difficoltà di fronte a questo colossale romanzo in 24 libri. Il riassunto del patriarca è per noi una vera sfida, perché cerca di metter giù in modo intelligibile un intrico di storie e sottostorie che conducono i protagonisti in ogni angolo del mondo conosciuto, da Atene fino alle misteriose terre al di là della mitica isola di Thule. Qui il classico intrigo del “lui-lei-l’altro” sembra venire abbandonato in favore di una vera e propria enciclopedia di meraviglie magiche e fantastiche, e notevole è anche il fatto che il libro, invece di portare direttamente in scena le peripezie dei protagonisti, sembra essere basato solo sui racconti d’avventure che i personaggi della storia si scambiano l’un l’altro.

Nuova carne al fuoco, dunque. Nuovi pezzi di un puzzle di cui, chissà, forse un giorno altri ritrovamenti archeologici ci permetteranno di distinguere meglio l’immagine. Poca roba, rispetto al numero di romanzi che dovettero effettivamente circolare entro i vasti confini del mondo greco; abbastanza, però, per farci venire una certa acquolina in bocca. Di cosa parlavano le truculente Storie fenicie del misterioso Lolliano? Per quanto tempo l’astuta Calligone riuscì a nascondere la gonnella sotto le vesti di comandante dell’esercito? Quali terribili prove dovette affrontare l’innamorato Metioco per ottenere la mano della sua bella Partenope[11]? E Nino quella, ambitissima, della cugina Semiramide? Di chi era il fantasma che, in un frammento di poche righe, appare all’incredulo Glaucete? E insomma, chi cazzo è Glaucete?

Nomi. Di storie che riempivano chilometri di papiro e, più tardi, pagine e pagine di libri, null’altro ci resta. Di un romanzo che ha tenuto col fiato sospeso il patriarca Fozio e, con lui, centinaia di altri entusiasti lettori, magari non resta che il titolo, o una frase, o il nome del protagonista. E io, che i romanzi greci li amo, piango tantissimo. Piango perché se la Storia mi avesse lasciato i miei cinque romanzi completi senza farmi sospettare l’esistenza degli altri, sarei stato più ignorante ma più felice. Ora invece, ora che so cosa ho perso, ogni volta che leggo i frammenti è tutto un fiorir di madonne. E piango.

E accidenti a voi che mi avete fatto ripensare a questa cosa. Col castoro della Bassa Sassonia tutto questo non sarebbe successo.

 


In copertina: William Adolphe Bouguereau, Ninfe e satiro, 1873

Federico Franchin
Federico Franchin

Sono nato a Monza nel 1991 e vivo a Milano. Ho una spiccata tendenza a occuparmi di scrittori e musicisti giudicati minori o semisconosciuti, perché seriamente convinto che anche a loro faccia piacere sentir pronunciare il proprio nome, ogni tanto.