Umberto Eco, nelle Postille al Nome della rosa (nello specifico in “Costruire il lettore”), scriveva: «Cosa vuol dire pensare a un lettore capace di superare lo scoglio penitenziale delle prime cento pagine? Significa esattamente scrivere cento pagine allo scopo di costruire un lettore adatto per quelle che seguiranno[1]».
Ecco, se dovessimo applicare questa norma aurea a tutti i romanzi, Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien non farebbe affatto eccezione. L’autore ci prende per mano e nelle prime duecento pagine della trilogia, dà forma al suo lettore ideale, colui che lo accompagnerà per le successive mille. Immersi in una dimensione fiabesca, al di là del tempo e dello spazio, si diviene bambini che, seduti dinnanzi a un camino e avidi di racconti, spronano il nonno a narrare, mentre immagini eteree prendono forma negli occhi volando sulle ali dell’immaginazione.
È potente la scrittura di Tolkien, limpida, dalla sintassi piana ma sicura, impreziosita, nella traduzione di Vittoria Alliata di Villafranca (e rimaneggiata più tardi da Quirino Principe), da termini ricercati e desueti che trapuntano il romanzo e donano un vivo piacere alla lettura.
Sarebbe una fatica superflua ricostruire la trama e, qualora anche la si affrontasse, faremmo un torto al romanzo. D’altro canto non ci proveremo nemmeno in una di quelle curiose ma, alla lunga, tediose, operazioni di identificazione dell’opera con la realtà in cui viviamo. L’opera d’arte, sì, parla del mondo, ma parlandone si aliena da esso, lo trascende, diventa un prodotto autonomo dal contesto in cui sorge e dall’autore, per lasciare la libertà a chi ne fruisce di goderne senz’altro.
E per questa ragione apprezziamo, oggi come ieri, Il signore degli anelli. Per la sua capacità di far emergere l’essenza dell’eterno mutare del mondo, di dare voce a quella domanda originaria che tanta importanza ha avuto nella storia del pensiero. «Perché qualcosa piuttosto che niente?» si e ci chiede Tolkien.
La risposta è semplice ma non banale. Perché – suggerisce l’autore – il tutto è il Bene. E, in ultimo, e anche il Male è funzionale alla suprema affermazione di questo principio. Una prospettiva quasi consolatoria, si potrebbe dire, e certamente non priva di tensioni.
Ora, l’identità tra la totalità e la bontà non appare mai come frutto di un nostro giudizio. Cioè: il mondo non è buono perché noi lo definiamo tale, piuttosto noi lo possiamo definire tale perché la sua essenza è il Bene. Nostro compito è riconoscere quest’identità e agire in funzione di essa.
Non un’operazione meramente teoretica, dunque. Anzi: l’elemento soggettivo che entra nella relazione tra gli individui e la realtà è piuttosto l’esito di un “giudizio pratico”, ovvero normativo, che i soggetti (buoni) comprendono e adottano come legge interna. Kantianamente si potrebbe definire un “imperativo categorico”, la cui formulazione potrebbe essere: conserva sempre il mondo per come esso è.
Nell’adesione a questo principio pratico risiede la sostanza della contrapposizione Bene-Male. Da una parte coloro che operano unicamente per mantenere inalterata la realtà, donando quindi una sorta di “eternità” all’ordine prestabilito (ecco un altro concetto centrale nell’opera). Dall’altra chi, per ragioni che in fondo potremmo definire “psicologiche” (l’invidia è una categoria centrale per spiegare la presenza del Male, specie nel Silmarillion), invece si orienta verso la trasformazione del mondo, l’alterazione di quell’ordine.
Ma in questo emerge una delle tensioni a cui accennavamo. Infatti, se il Male è, in sé, alterazione, come può l’azione di cura e di conservazione, che in quanto tale apporta necessariamente delle modifiche al contesto verso cui si rivolge[2], non alterare il mondo? essere compatibile con un ordine che si pretende immutabile?
Non solo, a questa contraddizione viene ad aggiungersene una ulteriore. Il Male pensato da Tolkien è, infatti, un male “assoluto”, senza possibile determinazione. Alla Luce, dice l’autore, non si contrappone il buio, ma la Tenebra. E “tenebroso” infatti è uno degli aggettivi più utilizzati per descrivere Sauron (e, in altri testi, Morgoth: il Primo Avversario dell’epica della Terra di Mezzo). Ma, ed è qui il problema!, il Male in quanto assenza di Bene, deve necessariamente determinarsi. All’ordine del mondo si deve contrapporre il disordine, il quale però è a sua volta un ordine (alternativo, differente, ma pur sempre ordine). Di più, il fatto di concretizzare il Male, di trasformarlo anch’esso in un principio prescrittivo (che più o meno dovrebbe recitare così: agisci per fare il maggior danno possibile), conduce Tolkien ad una scelta in ogni caso controproducente.
Da un lato infatti è necessitato a descrivere gli atti malvagi singoli, in un certo senso svilendoli, banalizzandoli. Attenzione però. Quella descritta non è la “banalità del male” della Arendt, in cui la malvagità dell’atto scaturisce dal fatto di essere pensato come privo di implicazioni di ogni sorta. È il male comprensibile, quindi neutralizzabile e perciò in fondo inoffensivo. Ma poiché questa conseguenza banalizzerebbe anche il Bene e sarebbe pertanto inaccettabile, Tolkien deve necessariamente provare a dare una connotazione eroica alla Tenebra. E così finisce per scegliere un’alternativa se possibile ancora più problematica!
Innanzitutto perché un Male eroico diventa un Male talmente maestoso da rendere ogni descrizione impossibile. Ma anche quando l’autore si sforza di dare anche solo delle vaghe indicazioni (per esempio nei capitoli in cui Frodo e Sam attraversano Mordor), la potenza che promana lo rende meraviglioso, sublime, mostruoso (nel senso latino: di stupendo e allo stesso tempo orribile).
E allora il Male perde ogni caratterizzazione oppositiva e diviene principio autonomo, per noi affascinante e attraente. Molto di più delle belle descrizioni dei boschi elfici, al cui confronto fanno la figura di pezzi da museo, assolutamente privi di vitalità e autonomia (il che, se consideriamo che la Tenebra è Morte e che la morte può esistere solo se esiste la Vita cioè la Luce, è una conseguenza del tutto paradossale!).
La struttura dell’opera – una struttura intrinsecamente teologico-filosofica – è tale da lasciare aperti gli interrogativi, più che darne delle risposte. Ma forse proprio in questo sta la grandezza artistica di Tolkien: una grandezza che le contraddizioni e i tentennamenti non possono offuscare, consegnandolo, senz’altro, al pantheon dei Classici.
Un autore in grado di raggiunge le vette più alte di lirismo, un lirismo che trae la sua linfa dal rapporto con l’alterità, l’assolutamente inesplicabile Altro.
In copertina: Minas Tirith, illustrazione di Alan Lee