«…C’è chi nasce co ‘na vocazione e chi co n’altra. Io sarò nato con la vocazione de morimme de fame» dice Stracci e Cristo risponde: «Sei un morto de fame e voti pe’ chi te fa morì de fame…»
La Ricotta è un cortometraggio di Pier Paolo Pasolini, che fa parte del film a episodi Ro.Go.Pa.G., Ovvero, laviamoci il cervello, il cui titolo comprende le iniziali dei registi: Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti, una chicca per gli amanti del gran cinema.
L’idea di parlare di questa meraviglia del poeta/regista friulano, l’ho avuta mentre si discuteva con la redazione sull’immagine di copertina del sito. Il viso di Orson Welles mi ha riportato al personaggio che interpreta nel cortometraggio, che altro non è, che l’alter ego del regista stesso, che si scopre palesemente quando recita potenti versi tratti dal poema La Realtà, presente nel libro Poesia in forma di Rosa, che Pasolini aveva pubblicato proprio in quel periodo.
…
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
…
È alla faccia di Orson e alla sua voce maschia, autoritaria e autorevole che Pasolini consegna la sua denuncia per quella devastazione chiamata modernità, consumismo, rifiuto della storia, della memoria. La meschinità di una società falsa, che tace e nega scandalizzata davanti alla provocazione, senza peraltro capire o interrogarsi.
La denuncia contro la borghesia benpensante e il giornalismo televisivo, teso a rubare la notizia sorprendente, a servirsi dei mediocri, come il giornalista, interpretato da Vittorio La Paglia, che nella gestualità del corpo e nella voce piatta e melliflua che incalza di domande idiote il regista, che lo guarda torvo, ridicolizzandolo, denudando la codardia, alla quale oggi siamo abituati, tanto da non farci caso. Il ridicolo, che oggigiorno si fa serio insegnamento di vita, ha invaso tutti gli ambienti della società, perché il veicolo rapido della televisione ha dato corpo a fantasie malsane, che hanno distrutto ogni genere di valore: politico, religioso e sociale.
Giornalista:“Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”
Regista: “Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”
Giornalista: “Che cosa ne pensa della società italiana?”
Regista: “Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”
Giornalista: “Che cosa ne pensa della morte?”
Regista: “Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione.”
Che verità assoluta, pagata a caro prezzo, ancora valida a tutt’oggi e questo è quello che più mi duole.
Ogni parola ha uno spessore infinito nel quale si esaltano i valori fondanti della poetica pasoliniana. In quell’intimo, profondo, arcaico cattolicesimo, si esprime l’amore e la disperazione per quel popolo analfabeta e il disprezzo per l’ignoranza della borghesia.
Se pensiamo che questi concetti per noi consolidati, ma non meno negati, questo grande Maestro e vate dei nostri giorni, li ha sbattuti in faccia a un’Italia ottenebrata dal boom economico.
Solo chi aveva orecchie per intendere, intese, come disse lo stesso poeta regista in un’intervista, citando il vangelo, cui spesso s’ispirava il suo messaggio, e in quel lontano 2 novembre del 1975, tutto gli fecero pagare; visto che il vilipendio, i processi e la lapidazione mediatica non erano riusciti a zittirlo.
La Chiesa del tempo, ancora rigida nei suoi schemi di falso moralismo, condannò quel Cristo, uomo rozzo del popolo che esprime con la saggezza di un povero cristo del popolo, il motivo per cui i poveracci non riusciranno mai a riscattarsi, armando la mano del loro aguzzino.
«Sei un morto de fame e voti pe’ chi te fa morì de fame…»
Non succede ancora oggi, che teoricamente siamo tutti alfabetizzati, muniti di cellulari, super informati e digitalizzati?
La critica alla corsa alla modernità di Pasolini non va intesa come contraria al progresso dell’umanità, alle scoperte scientifiche e tecnologiche, che avrebbe sottinteso una conoscenza e una coscienza storica in movimento, ma verso il consumismo, di cui oggi assistiamo, per “privilegio di anagrafe“, come avrebbe detto il Poeta, al suo declino, di cui ci spaventa l’ignoto destino, ci stiamo trasformando da società dei consumi, a società dei rifiuti.
Paradossalmente il protagonista Stracci, così diverso dai nuovi morti di fame di oggi, eppure così simile, è simbolicamente tornato al centro del discorso proprio perché Rifiuto della società, improduttivo e perciò scarto, come del resto lo sono gli anziani delle RSA, morti a centinaia durante la prima ondata di questo virus.
Una società che ha corso affamata e febbricitante verso il soddisfacimento del desiderio di possesso, al pari del nostro Stracci e della sua fame, soddisfatta fino a scoppiare di cibo o meglio di avanzi, muore lentamente, affogata dalla sua stessa ingordigia.
Ingordigia che ha messo ai posti di comando, soprattutto in Italia, non i più meritevoli e capaci ma i più rapaci e incapaci, piegati a un potere economico occulto che ha divorato la parte migliore del nostro Bel Paese.
Oggi osserviamo avviliti, arrabbiati e con scarse speranze a questo sgretolarsi di un sistema perverso e malato, senza peraltro avere soluzioni, così come il personaggio di Stracci, ideato da Pasolini, per sublimare l’umiltà e l’umanità del sottoproletariato, di cui diventa un Messia, che muore senza resurrezione. Non lasciando quindi un messaggio di speranza, una dottrina nuova, solo un’immagine che nel tempo sbiadisce tra il bianco e il nero.
La storia e la memoria che si tentano di negare, di dimenticare, per correre su motociclette fumose, assordati da una musica, che nella sua spensieratezza rispecchia la tragedia di una società amorale e priva di valori.
Pasolini è attento a ogni particolare. Le inquadrature devono comporre un poema e tutto è simbolico e si arricchisce nel tempo di nuovi significati, senza peraltro stravolgere il significante originale.
La questione ambientale nei primi anni Sessanta del secolo scorso era un problema che si ponevano in pochi, eppure il nostro autore, maestro profetico, la percepisce e la denuncia con le immagini di ambientazione del film, che ha per tema la vita e la passione di Cristo.
Le scene sono girate nella periferia Sud di Roma, aggredita dall’avanzata del cemento, che nel cortometraggio è rappresentato dalla fila di palazzi bianchi dell’Ina Case, che si vedono all’orizzonte, su un prato dall’erba scolorita, dove solo i rifiuti sono una nota di colore e non i fiori.
Oggi quei prati non esistono più, così come il sottoproletariato che ha amato il nostro autore, perché è avvenuta la mutazione antropologica, operata dalla televisione prima e dai social poi, che ha stravolto e creato falsi miti e false aspettative, che hanno imbrattato di sterco i valori e l’umiltà, che hanno fatto grande l’umanità.
Quel sottoproletario non esiste più, al suo posto un precario, un disoccupato, un extracomunitario, una piccola partita Iva.
Cambiano i costumi, a volte cambia il colore della pelle, ma di certo gli Stracci e gli Accattoni, privi di purezza e d’umiltà, si sono centuplicati, peggio del virus.
Questa pandemia ha chiuso tutto il nostro immaginario borghese fatto di aperitivi, ristoranti, vacanze, da cui dipende la sussistenza economica di migliaia di persone e dell’intero sistema economico nazionale.
Osserviamo le reazioni da quando si è diffuso il panico da “contagio“. Durante il lockdown, ma anche in seguito, tutti si sono sbracciati in riflessioni di ogni genere, da quelle filosofiche a quelle religiose. Questo virus invisibile, che ha avuto la forza di fermare il campionato di calcio e tutte le manifestazioni sportive e artistiche, che ha chiuso negozi, scuole, fabbriche è risultato più potente di qualsiasi altra minaccia ecologica paventata finora. L’invincibile uomo occidentale, il Rambo armato fino ai denti, al virus fa ridere a crepapelle.
L’alimentazione vuota del cibo spazzatura, ingozzato nelle mense aziendali sempre di corsa, per tornare a produrre, ha prodotto corpi malati, sorretti dal silicone, con denti di titanio. Corpi flaccidi come quello di Stracci su croci d’insaziabile consumismo, accatastati alla meglio e usati a scopi elettorali in ogni paese del mondo, che devono morire per farsi notare, come dice alla fine del film Orson Welles, il regista, costatata la morte di Stracci:
«Morire … era l’unico modo per farci vedere che anche lui esiste».
Leggi tutti i nostri articoli su Pier Paolo Pasolini
Per approfondire:
La Ricotta – dispensa del Prof. Michele Castiello, docente di cinematografia, per la Rassegna sul cinema di Pasolini a.s.2018/19
Pier Paolo Pasolini, La ricotta – Sinossi e commenti, Centro studi Pasolini Casarsa