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Dire amore in giapponese. Tre racconti di Inoue Yasushi

Ascoltando certe canzoni di Chet Baker provo nostalgia per dei momenti che non ho vissuto: a volte, sono delle indecifrabili città piovose sommerse dalla nebbia; altre, invece, una relazione amorosa agrodolce, spenta solamente a metà, come il mozzicone di una sigaretta. Insomma, sono sicuro che capiti anche a voi: sentire malinconia per qualcosa che non è esistito davvero.

Allo stesso modo, si potrebbe interpretare la sensazione che ci danno certi romanzi quando ci affezioniamo ai protagonisti e ci sentiamo svuotati quando li finiamo. In questo caso, però, possiamo aumentare la posta in gioco: parliamo di Ai (愛, Amore) di Yasushi Inoue (井上 靖), tre racconti scritti tra il 1950 e il 1951 e poi raccolti e pubblicati nel 1959.

Quello che colpisce d’immediato dei tre scritti di Yasushi Inoue è l’estrema facilità con cui siamo trascinati dentro alla narrazione. I tre racconti sono brevi, ma in nessun momento sentiamo pressione da parte dell’autore nel dirci «ehi, mancano poche pagine, devi entrare ora nel cuore della storia se vuoi assaporarla davvero», semplicemente perché sin dalle prime frasi siamo già caduti nella sua trappola. Questo contesto ristretto, ma non claustrofobico, appare subito ben decorato: a tratti più che leggere sembra di star osservando un’opera di Ukiyo-e; un tramonto rossastro dipinge le labbra di una ragazza mentre cammina in un universo totalmente ordinato. I colori pastello risaltano in ogni istante l’inesatta imperfezione dei momenti che compongono i tre racconti, suscitandoci una malinconia ancora più fitta e a tratti irreale.

Ohtsu Kazuyuki, Giardino di Pietra, 2006
Ohtsu Kazuyuki, Giardino di Pietra, 2006

“Giardino di rocce” (石 庭) presenta la vita di Uomi Jiro e Mitsuko: i due sposi decidono di trascorrere la loro luna di miele a Kyōto che, per Uomi, rappresenta una seconda casa, dato che trascorse gli anni da studente universitario proprio lì. In cerca di tranquillità, decidono di andare a vedere il giardino roccioso di Ryōan-ji: il loro percorso (forse più simbolico che fisico) li porta a prendere gradualmente le distanze, fino a separarsi brevemente. Giunto in giardino, Uomi ricorda che proprio lì si sono verificati i due momenti più drammatici della sua vita: lì ha discusso con il suo ex migliore amico Totsuka Actarus e anche lì, anni dopo, ha interrotto la sua relazione con Rumi, la cameriera di cui i due amici si erano innamorati al punto da litigare per lei e poi separarsi.

È importante fermarsi qui per un momento e sottolineare che ciò che sorprende delle tre storie non è la trama. Devo confessare che, dopo aver letto abbastanza letteratura giapponese, guardando solamente le tre storie, ho avuto la sensazione di un persistente retrogusto di “già visto”. Il punto della questione è un altro: è necessario scovare la poesia nascosta in ciascuna di esse e trarne lezioni che possono mitigare leggermente questa malinconia che, chissà come, ci ha piacevolmente intossicato.

In Giardino di rocce dobbiamo estrarre con la prudenza di un chirurgo il primo elemento: la distanza. La misura dello spazio, nella narrazione di Yasushi Inoue, costituisce un elemento quasi fondamentale di connessione tra i personaggi: più vicini sono tra loro, maggiore è l’unità fisica e spirituale. La distanza rappresenta anche la misura del grado di separazione di un’idea dalla sua realizzazione: se un personaggio osserva un panorama lontano in cui progetta qualcosa di utile al suo scopo finale, la distanza tra i due termini condensa in sé il grado di unione e fermezza dell’idea con la sua esecuzione. In questo senso, progettare qualcosa contiene, nei personaggi di Yasushi Inoue, una sorta di riluttanza e apatia a realizzare effettivamente quel concetto.

Shotei Takahashi, Scena notturna di Mabashi, 1936
Shotei Takahashi, Scena notturna di Mabashi, 1936

Questo primo pezzo chiave appare anche nella seconda storia, Anniversario di matrimonio (結婚 記念 日), che consiste in un singolo flashback che racconta l’ultima avventura di una coppia sposata e spiega anche perché Karaki Shunkichi, dopo la morte della moglie Kanako, non si risposerà mai. Shunkichi vince alla lotteria diecimila yen e, insieme alla moglie, decide non senza sforzo (perché estremamente cauti a causa della loro povertà) di risparmiare metà del guadagno e di spendere il resto per una breve vacanza nella città termale di Hakone. Durante il viaggio, poco prima di raggiungere l’albergo, arrivano a un bivio. Pensando che le due strade si uniranno in seguito, decidono di sfidarsi a vicenda chi arriverà per primo alla città. I due sentieri, però, si incontrano in un punto in cui i due, per un malinteso, non arrivano; pertanto si perdono di vista per molto tempo. Dopo un po’ di agitazione e aver ripercorso la strada del ritorno, si ritrovano da dove erano partiti e finalmente decidono tristemente di tornare a casa.

La distanza fisica che li separa fa riaffiorare una sorta di impazienza reciproca, momentaneamente latente nel breve divertimento del viaggio. È rimasto ben poco di ciò che era amore tra loro e la distanza esacerba questa perdita; questo passaggio introduce perfettamente il finale della storia (il migliore delle tre, secondo me) e il secondo tassello chiave del puzzle che stiamo mettendo insieme: il desiderio. Se tutto, nelle storie di Yasushi Inoue, ci regala una sensazione di fragilità come se stesse per spezzarsi, compreso l’amore, è proprio in questo momento che la tenerezza e la nostalgia per quella persona con cui condividiamo piccole parti della nostra esistenza diventa quasi eterna e risplende di luce propria. La lotta quotidiana che portiamo avanti contro chissà cosa ci unisce a chi abbiamo vicino in qualcosa che è più forte dell’amore stesso.

Un’ideologia dell’amore, si direbbe.

Hasui Kawase, Shn Hanga
Hasui Kawase, Cliff

La morte, l’amore, le onde (し と こ い と な み) è l’ultima storia e la più lunga delle tre. Le onde scorbutiche sbattono furenti contro una scogliera, sulla cui sommità si trova un piccolo hotel: è la cornice ideale per morire, o almeno così pensa Sugi, mentre l’indaco del mare si rispecchia e lotta nei suoi occhi stanchi. Si è concesso un lusso singolare: tre giorni, il tempo necessario per leggere il racconto del favoloso viaggio che Willem van Ruysbroeck fece nel XIII secolo nell’impero mongolo. Terminata la lettura del libro, non ci sarà nessun’altro legame a trattenerlo in vita. Ma, in un sottile scherzo del destino, anche l’unica altra ospite dell’hotel, la giovane Nami, al momento del check-in ha indicato che “mors” (morte in latino) è il motivo del suo soggiorno.

Qui la distanza diventa millimetrica e, in pochi movimenti, Yasushi Inoue costruisce una rete di connessioni tra parole non dette, lacrime evaporate e una sorta di complicità arcana. La nostalgia è tesa attorno a un gesto estremo sussurrato e condiviso da entrambi i protagonisti, incapaci di allinearsi sulla stessa frequenza d’onda per capirsi, interpretarsi e addirittura disposti a negare l’esistenza stessa dell’amore.

E proprio quando tutto sembra portarci all’epilogo più ovvio e parossistico, Yasushi Inoue inserisce l’ultimo tassello mancante: la speranza. Che è quasi un sussurro flebile, ma percettibile. E forse vale la pena lottare contro la distanza, il dolore, la nostalgia, le sconfitte della vita, il disonore: e se provassimo a vivere per catturare quell’universo oscuro e ingannevole che si apre dietro la parola “amore”?

 

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