La democrazia della polvere da sparo

Barry Lyndon copertina

L’esercito di massa e l’allargamento del potere

 

Nel greco classico, la parola δήμος indica il popolo inteso come moltitudine, in contrapposizione all’élite dei nobili e dei possidenti. “Democrazia” nasce quindi come “il governo dei molti”, più che del popolo, letteralmente “il potere affidato ai molti” in contrapposizione ai “pochi”. Questo fa sì che diversi tra gli autori classici guardino alla democrazia con maggior sospetto e certo disdegno, vedendola al più come un sistema in grado di fare pochi danni e assolutamente non con l’ammirazione che noi moderni attribuiamo all’idea. Ma questa è una storia che non ci riguarda, e se ne parlerà in un’altra occasione.

Facciamo ora un salto avanti di circa duemila anni, in quel cruciale frangente della Storia dove assistiamo al passaggio tra Medioevo ed Età Moderna. Senza baloccarci nel vano compito di individuare il singolo passaggio o il singolo fattore che abbia determinato la discontinuità, ammesso che esista, possiamo invece constatare come, tra i numerosi cambiamenti intercorsi in quei secoli che permettono di trarre neanche troppo arbitrariamente una linea di demarcazione, si assista anche ad un profondo mutamento dell’arte della guerra, tale da giustificare per alcuni storici l’uso del termine “rivoluzione militare”. Questo cambio di passo non rimase confinato ai campi di battaglia, ma determinò nuovi rapporti di forza sia tra gli Stati sia all’interno della società, suscitando un’evoluzione che avrebbe portato in seguito all’ingresso compiuto delle masse nella Storia.

La rivoluzione militare prende l’avvio dall’introduzione sui campi di battaglia europei della polvere da sparo e dell’arma da fuoco. Inizialmente limitata all’artiglieria da assedio, dove pure scardina capisaldi della scienza poliorcetica rimasti indiscussi per secoli, nel corso del XIV e del XV secolo trova le prime timide applicazione nello scontro campale, con il suo impiego da parte della fanteria.

Gli intellettuali dell’epoca non rimasero intoccati da questa novità, e chi più chi meno si resero conto della portata innovativa delle armi da fuoco: Machiavelli nel suo trattato Dell’arte della guerra riconosce subito come le armi da fuoco condurranno al declino la cavalleria pesante, e quindi ridurranno il ruolo dell’aristocrazia montata nel comporre gli eserciti, fondamentale elemento per mantenere il potere; tuttavia, a differenza del suo contemporaneo Guicciardini, Machiavelli si illude che l’artiglieria possa venire impiegata soltanto negli assedi, senza intaccare il predominio in campo aperto di una fanteria cittadina che, forse per sentimento ideologico, il segretario fiorentino ritiene il nuovo baricentro della supremazia militare.

Ermanno Olmi Il mestiere delle armi
Fotogramma dal film Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi

Il tramonto della cavalleria e l’avvento delle armi da fuoco compaiono tra i mille fili intrecciati con mirabile maestria da Ludovico Ariosto nel suo Orlando Furioso: il Medioevo dell’umanista Ariosto è un luogo immaginario, che serve da specchio per il presente confrontando in maniera a tratti ironica a tratti malinconica un passato ideale («O gran bontà dei cavalieri antiqui!») e ormai irriproducibile con la contemporaneità e il suo disincanto. Tra le molte imprese compiute dal Paladino Orlando, fulgido campione della cavalleria e dell’eroismo, vi è il salvataggio di Olimpia, figlia del duca d’Olanda, rapita dal malvagio Cimosco, barbaro re di Frisia. Ma costui non è un nemico comune:

Oltre che sia robusto, e sí possente,
che pochi pari a nostra etá ritruova,
e sí astuto in mal far, ch’altrui niente
la possanza, l’ardir, l’ingegno giova;
porta alcun’arme che l’antica gente
non vide mai, né, fuor ch’a lui, la nuova:
un ferro bugio, lungo da dua braccia,
dentro a cui polve et una palla caccia.

Col fuoco dietro ove la canna è chiusa,
tocca un spiraglio che si vede a pena;
a guisa che toccare il medico usa
dove è bisogno d’allacciar la vena:
onde vien con tal suon la palla esclusa,
che si può dir che tuona e che balena;
né men che soglia il fulmine ove passa,
ciò che tocca, arde, abatte, apre e fracassa.[1].

Cimosco, re negromante e pagano, non solo era un nemico formidabile con le sue sole forze, ma grazie al possesso dell’arma da fuoco è in grado di sbaragliare qualunque nemico, vincendo con la perfida tecnica ogni valore e prodezza che gli si opponga. Egli non ha quindi timore ad accettare la sfida a duello lanciatagli da Orlando, confidando di poterlo uccidere facilmente, e poco manca a che riesca nel suo intento:

Dietro lampeggia a guisa di baleno,
dinanzi scoppia, e manda in aria il tuono.
Trieman le mura, e sotto i piè il terreno;
il ciel ribomba al paventoso suono.
L’ardente stral, che spezza e venir meno
fa ciò ch’incontra, e dá a nessun perdono,
sibila e stride; ma, come è il desire
di quel brutto assassin, non va a ferire.

O sia la fretta, o sia la troppa voglia
d’uccider quel baron, ch’errar lo faccia;
o sia che il cor, tremando come foglia,
faccia insieme tremare e mani e braccia;
o la bontá divina che non voglia
che ’l suo fedel campion si tosto giaccia:
quel colpo al ventre del destrier si torse;
lo cacciò in terra, onde mai piú non sorse.

Cade a terra il cavallo e il cavalliero:
la preme l’un, la tocca l’altro a pena;
che si leva sí destro e sí leggiero,
come cresciuto gli sia possa e lena.
Quale il libico Anteo sempre piú fiero
surger solea da la percossa arena,
tal surger parve, e che la forza, quando
toccò il terren, si radoppiasse a Orlando[2].

Ermanno Olmi, l'esercito di massa e le armi da fuoco
Fotogramma del film Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi

Orlando vince facilmente il duello, abbatte Cimosco e si impossessa dell’arma da fuoco, che getterà nel profondo del mare per impedire a tanta perfidia di perdurare. Pure lui, il più grande dei cavalieri, si è salvato per mera fortuna, o forse l’intervento della Provvidenza. E quando anni dopo la macchina infernale sarà riscoperta, la cavalleria medievale verrà falcidiata da fanti di infima estrazione, sconvolgendo un secolare ordine del mondo.

Ma la descrizione di Ariosto è, come è anche giusto, un’illustrazione poetica e romanzata. Al poeta preme l’immagine di quest’arma devastante, interessa l’effetto grafico e le visioni forti che può suggerire ai suoi lettori e ascoltatori, e trova più affascinante la suggestione dell’arma da fuoco che livella la cavalleria rispetto ad indagare davvero le radici di questo fenomeno. Spetta dunque a noi, uomini di minor talento e ingegno, di salire indegnamente sulle spalle di questi giganti per sperare di scorgere più in là. Esiste indubbiamente un legame tra l’introduzione della polvere da sparo e il declino della cavalleria come forza militare e potere sociale, ma la relazione potrebbe non essere così immediata come siamo portati a credere.

L’immaginario comune, rafforzato sicuramente da descrizioni letterarie come quella sopra presentata, assume che le armi da fuoco abbiano sorpassato la cavalleria aumentando il potere offensivo dei fanti: un qualsiasi contadino armato di archibugio poteva di punto in bianco uccidere un cavaliere senza che l’armamento pesante o gli anni di pratica con le armi potessero impedirlo; la forza, la destrezza e il valore venivano annullati e vanificati da un congegno meccanico, a cui non serviva nessun merito e nessun pregio per essere operato.

È un’immagine potente e di immediato fascino, il che spiega come abbia potuto radicarsi così a fondo nella nostra concezione dell’autunno del Medioevo. Tuttavia, è un’immagine imprecisa, che tende a rimuovere alcuni fattori dalla scena per concentrarsi sugli elementi che predilige. In primo luogo, è falsa l’idea che l’armatura completa sia stata resa obsoleta di punto in bianco dall’arma da fuoco: corazze e archibugi coesistettero per lungo tempo – portando alla nascita di un corpo militare dedicato precisamente a questo connubio: quello dei corazzieri, forze di cavalleria pesante in armatura e armata di moschetto[3] – e gli armaioli della prima Età Moderna avevano il vezzo di testare le armature fresche di fabbricazione sparandovi un colpo di pistola ravvicinato per saggiarne la robustezza, una pratica questa che sarebbe stata ridicola se l’armatura non avesse avuto la potenzialità di resistere. In secondo luogo, le armi da fuoco non erano certo state la prima innovazione capace di mettere in dubbio la supremazia fin allora indiscussa della cavalleria: nel corso del Trecento e del Quattrocento l’Europa aveva assistito a numerosi massacri in campo aperto di cavalieri.

Già nel 1242 Aleksandr Nevskij, principe di Novgorod, inflisse una tremenda sconfitta ai cavalieri teutonici tramutando quella che doveva essere il loro punto di forza in una debolezza fatale: attirandoli con l’inganno a dare battaglia nel luogo da lui prescelto, il lago dei Ciudi al confine tra Estonia e Russia, noto anche come lago Peipus, spinse i nemici sopra la superficie ghiacciata, che non resse il peso delle armature e dei cavalli bardati e si infranse, facendo annegare la gran parte dei crociati. Ma nei secoli successivi armi e tecniche furono sviluppate per negare i vantaggi della cavalleria: gli inglesi dominarono la prima fase della guerra dei cent’anni riportando notevoli vittorie a Crécy (1346) e a Poitiers (1356) grazie all’impiego dell’arco lungo gallese, il celebre longbow capace di lanciare fino a 10 frecce al minuto ad una distanza maggiore ai 200 metri, con spaventosa accuratezza.

Esercito: Ermanno Olmi Il mestiere delle armi
Fotogramma dal film Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi

I caduti francesi a Crécy sono stimati tra i 10.000 e i 30.000, tra cui 11 nobili e 1542 cavalieri, a fronte dei soli 1000 morti inglesi del computo più ampio. Un secolo dopo, la Borgogna cessò di esistere come ducato indipendente a seguito delle aspre sconfitte subite da Carlo il Temerario a Grandson (1476), Morat (1476) e Nancy (1477), dove lo stesso duca trovò la morte sul campo. Nuovamente la carica di cavalleria si dimostrò impotente contro i quadrati di picchieri, capaci di colpire da maggior distanza e impenetrabili all’assalto nemico. La falange svizzera avrebbe dominato i campi di battaglia fino al 1515, e solo l’impiego dell’artiglieria da campo poté sopraffarla.

Esclusi i cannoni, che avevano già dato prova del loro terribile potere distruttivo aprendo per la prima volta una breccia nelle fino allora invincibili mura di Costantinopoli, le armi da fuoco della prima Età Moderna non potevano vantare nemmeno efficacia e precisione a loro credito, né tanto meno rapidità d’uso: i primi schioppi non riuscivano a colpire oltre i 50 metri, richiedevano un sostegno dove posare la canna e si accendevano con una lunga e lenta miccia per dar fuoco alla

polvere. Le progressive innovazioni, l’introduzione dell’innesco a pietra focaia e il passaggio dall’archibugio al moschetto[4] migliorarono sensibilmente le caratteristiche delle armi da fuoco, ma è stato stimato che ancora alla battaglia di Waterloo (1815) i fanti inglesi al comando del duca di Wellington avrebbero generato un volume di fuoco assai maggiore e ben più preciso se invece dei moschetti di cui erano armati avessero imbracciato gli archi dei loro avi. Tuttavia, l’ultima battaglia in cui gli archi lunghi erano stati presenti in numero significativo era stata combattuta a Tippermuir in Scozia nel 1644, e già dalla battaglia di Flodden del 1513 il longbow aveva smesso di essere l’arma principale dell’esercito inglese.

Nell’arte militare i cambiamenti non nascono dal caso, e raramente sono dettati dalla moda. L’adozione massiccia delle armi da fuoco, ormai compiuta e irresistibile nel XVI secolo, deve quindi avere avuto delle ragioni. Ma quale mai poteva essere questo vantaggio che spingeva i sovrani ad armare i propri eserciti di imprecisi moschetti, quando le picche erano più sicure e gli archi più precisi? Se non la gittata e l’efficacia, e tanto meno la rapidità, su quale campo l’arma da fuoco primeggiava sulle sue contendenti? La risposta sta nella semplicità: non la semplicità nell’usarla, ma nell’imparare a usarla.

Esercito barry lyndon
Fotogramma dal film Barry Lyndon di Stanley Kubrick

Un arciere addestrato armato di longbow arrivava a scoccare 10 frecce al minuto fino a 220 metri; ma addestrare in primo luogo un tale arciere era compito che richiedeva anni, a partire dalla forza fisica: un arco lungo medievale aveva un peso di trazione di 150-160 libbre/forza, un carico erculeo, che ci ha lasciato in eredità scheletri di arcieri visibilmente deformati dal mestiere. Un celebre proverbio inglese ironizzava sulla lunghezza del tempo di addestramento: “Vuoi un arciere? Addestra suo nonno!”, e difatti furono emanate numerose leggi per obbligare gli yeomen, gli uomini liberi e piccoli proprietari, al dovere di esercitarsi con l’arco nel tempo libero, fissando addirittura degli standard minimi da raggiungere prima dell’età adulta. Di contro, un fucile richiede al portatore uno sforzo fisico nettamente minore, e soprattutto standard assai meno onerosi per essere usato in maniera efficace e un tempo sensibilmente inferiore per essere padroneggiato.

Le armi da fuoco consentivano così di avere eserciti operativi in breve tempo ma capaci di scardinare forze armate che richiedevano una formazione lunga e impegnativa. Questo contribuì in maniera sensibile al declino della nobiltà cavalleresca, che della pratica guerresca faceva il proprio stile di vita e raison d’être, e della leva su base feudale, sostituita in maniera assai più semplice ed efficace dall’arruolamento diretto da parte del sovrano in base alle necessità della guerra. Ciò rafforzò enormemente il potere centrale, e pose una delle basi indispensabili per la svolta assolutista che avrebbe definito il XVII secolo, portando alla creazione dello Stato moderno e della sua capacità di imporre la propria volontà sul suo territorio.

Questo progressivo monopolio dello Stato continuò ad accrescersi in maniera costante, senza mai che la tendenza si invertisse nonostante il ribaltamento del paradigma che l’aveva originata: se all’inizio l’adozione delle armi da fuoco aveva consentito di mantenere ridotte le dimensioni degli eserciti reali – Carlo V, sui cui domini non tramontava mai il sole, impiegava al proprio servizio circa 148.000 uomini sparsi su tutto il territorio del suo impero; il record rimase imbattuto per oltre un secolo, e solo nel 1670 le armate francesi superarono le 200.000 unità – nei primi due secoli dell’Età Moderna i militari arruolati aumentarono di dieci volte, mentre la popolazione totale europea solo della metà. L’impegno militare divenne gradualmente più totalizzante, arrivando ad assorbire fino all’80% delle entrate degli Stati e stimolando l’adozione di sistemi fiscali e produttivi più raffinati per sostenere questo sforzo. Divenne progressivamente impossibile per i soggetti più piccoli di uno Stato nazione, quali potevano essere gli stati minori o le aristocrazie locali, mantenere armate competitive, appannaggio del potere centrale.

Tuttavia, l’alzarsi del livello dello scontro e la progressiva tensione derivata dal multipolarismo europeo resero man mano insufficienti anche gli eserciti permanenti alle dipendenze dei sovrani, fino a quel momento composti prevalentemente da volontari. La durezza e l’intensità delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche – maggiori di ogni scontro dei centocinquant’anni precedenti – comportò la necessità di attuare per la prima volta delle leve di massa rivolte alla maggior parte della popolazione abile.

Allonsanfan taviani esercito
Fotogramma dal film Allonsanfan dei Fratelli Taviani

Fino a quel momento un impiego così massiccio sarebbe stato impossibile, perché avrebbe voluto dire sottrarre un numero troppo elevato di uomini alla produzione agricola ed economica, con la conseguente impossibilità sia di pagare sia di sostentare le proprie truppe. Ma la sensibile riduzione dei tempi di addestramento consentiva di avere molti più soldati pronti in meno tempo, riducendo così la contrazione della produzione. Senza questo passaggio, la guerra sarebbe rimasta un affare localizzato nei campi di battaglia e nelle immediate vicinanze, e non una situazione totalizzante come diventerà poi col progredire della tecnica. E se la guerra non fosse diventata un affare di massa, difficilmente le masse sarebbero entrate nella Storia: quando l’esercito diventa di popolo, il popolo diviene un attore politico, ed è così in grado di negoziare i propri rapporti col potere con forza maggiore e più efficace.

Fintanto che la capacità di armare e mantenere un esercito era rimasta esclusiva del sovrano, unico depositario dell’iniziativa bellica e titolare della cassa con cui stipendiarlo, era naturale che unicamente il sovrano potesse disporne senza dover rispondere ad altri. Non a caso tutti i tentativi di limitare il potere assoluto del sovrano, a partire dal Bill of Rights del 1689 e proseguendo con tutte le Costituzioni ottocentesche, non possono prescindere dal sottrarre al monarca il controllo sull’esercito, o quantomeno la possibilità di finanziarlo, devolvendo questo potere ai parlamenti; i quali iniziano progressivamente a delinearsi come il luogo deputato a raccogliere e rappresentare la volontà del popolo – inizialmente soltanto la classe dirigente borghese, ma certamente una fascia più ampia del vecchio potere feudale.

Di contro, dopo due secoli in cui la nobiltà aveva barattato il proprio potere di governo con ruoli di comando negli eserciti del re, l’esercito di popolo che sorge dalla Rivoluzione francese fornisce una concreta possibilità di ottenere, tramite la promozione di grado, un avanzamento sociale altrimenti assai difficoltoso; e come molti cambiamenti della Rivoluzione, i regimi della Restaurazione decisero di mantenerlo perché si resero presto conto di quale impareggiabile strumento di governo fosse.

L’esercito del popolo arruolato su vasta scala presentava anche un’ulteriore peculiarità: una leva generalizzata permetteva di portare a contatto tra loro abitanti delle diverse parti del regno, cosa altrimenti difficile in una società ancora incapace di spostamenti rapidi su vasta scala. L’incontro dei sudditi fu presto concepito come un’occasione per diffondere quel sentimento nazionalistico su cui vennero rifondati gli Stati nel XIX secolo, creando un’identità comune e nazionale da quelle che erano tante piccole identità locali. Per alcuni Stati, come l’Italia di recente unificazione, l’esercito divenne assieme alla scuola il luogo in cui favorire un’integrazione anche linguistica. Questo però avrebbe generato una conseguenza indesiderata: nel momento in cui il popolo viene a conoscenza della propria omogeneità, si rende conto di poter vantare un potere negoziale maggiore di quanto la classe dirigente avrebbe voluto concedergli; nel momento in cui poi è il popolo a pagare il prezzo delle guerre, per l’aumento della violenza delle battaglie e dei danni subiti dai civili, diviene naturale che il popolo rivendichi per sé la scelta se intraprendere o meno la guerra.

Dottor Zhivago
Fotogramma dal film Il dottor Zivago, di David Lean

Ciò trova il suo naturale esito all’inizio del Novecento, nel passaggio pienamente compiuto alla società di massa. Non a caso le rivoluzioni in Russia del 1905 e del 1917, e quella tedesca del 1918, hanno inizio con un ammutinamento delle forze armate: la corazzata Potëmkin e l’incrociatore Aurora diventano delle raffigurazioni in miniatura della società circostante, in cui una massa popolare stufa di pagare ad una classe dirigente ristretta e miope un prezzo giudicato troppo alto in termini di privazioni e sofferenze arriva al punto di rottura e si rivolta, e in questa ribellione fanno da apripista per un popolo tormentato e scontento che vede nella sollevazione l’occasione di ottenere maggiori diritti, e sa di poterli rivendicare in quanto parte costituente, ma ignorata, dell’esercito, strumento di proiezione della potenza sullo scenario internazionale.

È similmente un ammutinamento della Kriegsmarine ad innescare il crollo del fronte interno nella Germania imperiale, ponendo una classe dirigente militarista e bellicosa di fronte all’evidenza che il popolo, e gli stessi soldati al loro comando, erano stufi di quella guerra così sanguinosa.

Fu un processo lungo, e certamente non lineare né immediato. Trova il suo prologo nel tramonto della cavalleria a Crécy, vede il suo inizio nei primi archibugi e nei cannoni, sembra trovare un equilibrio tra la guerra dei trent’anni e le guerre di successione, per poi vedere la situazione sconvolta dalla Rivoluzione e dalle guerre napoleoniche.

All’inizio questo fenomeno portò ad una riduzione e ad un accentramento del potere, sottratto ai nobili periferici e riconsegnato allo Stato centrale, che così diveniva per la prima volta capace di esercitare appieno la propria sovranità necessitando di un numero minore di uomini per estendere il proprio controllo. Ma quando gli Stati alzarono il livello dello scontro, quando la guerra si fece così massiccia da richiedere un impegno fino allora inedito, allora occorse nuovamente mobilitare armate cospicue, e questo avrebbe consegnato alla moltitudine la consapevolezza di poter usare il proprio numero e la propria forza per costringere il Potere al dialogo e alla concessione.

Alla fine di questo lungo processo, vediamo la capacità dell’opinione pubblica di rifiutare o meno una guerra: una facoltà impensabile nei tempi in cui ciò era prerogativa esclusiva del sovrano, e giustificabile solo alla luce del fatto che ora era il popolo, in misura fino allora mai vista, a pagarne il prezzo.

 

 


Per approfondire:
Chris McNab, A History of the World in 100 Weapons, ed. italiana Storia del mondo in cento armi.
Geoffrey Parker, The military revolution. Military innovation and the rise of the West, 1500-1800, ed. italiana La rivoluzione militare.
Guy Hermet, Histoire des nations et du nationalisme en Europe, ed. italiana Nazioni e Nazionalismi in Europa.

In copertina: Fotogramma dal film Barry Lyndon di Stanley Kubrick.

Alessandro Sergio Martino Gentile, autore di Storie Sepolte
Alessandro Sergio Martino Gentile

Quando ero bambino, chiedevo che mi raccontassero delle storie. Mi affascinavano tutte, dai miti greci ai racconti dei cavalieri, dalle fiabe alle avventure di pirati. L'esito inevitabile era finire a studiare la Storia, con la s maiuscola, per tentare di capire da dove veniamo. Nel frattempo sono stato maestro di scuola e volontario del servizio civile, e collaboro dentro e fuori il palco del teatro con Associazione Studio Novecento. Amo il silenzio e la musica classica, la lettura e le camminate, la buona cucina di mano mia o altrui.