Storie di animali nel medioevo – VII
Qual è l’animale più simile all’uomo?
Le risposte a questa domanda sono cambiate nel corso dei secoli anche se in Europa, almeno in epoca storica, soltanto tre animali sono stati considerati come legati all’uomo da vincoli di somiglianza, prossimità o parentela: l’orso, il maiale e la scimmia.
Per Aristotele e Plinio la più vicina all’uomo è la scimmia. Nel Medioevo però questa somiglianza viene rifiutata, soprattutto da un punto di vista teologico, perché si riteneva la scimmia una bestia diabolica, oltre che vile e brutta. Il caso del maiale è più ambiguo: la somiglianza tra questo e l’uomo era stata riconosciuta dalla medicina greca e poi confermata dalla medicina araba secoli dopo. Inoltre, dal momento che la Chiesa aveva proibito la dissezione del corpo umano nelle scuole di medicina, i giovani aspiranti medici non potevano far altro che esercitarsi sulle scrofe o sui verri. Tuttavia, anche se i medici ritenevano che il maiale fosse anatomicamente più simile all’uomo, non lo ammettevano apertamente, lasciando che i chierici sostenessero che fosse l’orso, il re della foresta che stavano combattendo da secoli.
In effetti, a prima vista, nessun altro animale presenta un aspetto più nettamente antropomorfo. Anche se più massiccio, l’orso possiede la stessa statura dell’orso, può stare in piedi anche se per poco tempo e, inoltre, privato del pelo, il suo corpo è identico a quello dell’uomo. A ciò si aggiunge anche la dieta onnivora dell’orso e la varietà di colori del suo mantello, paragonabile alle diverse sfumature che possono avere le barbe e i capelli degli uomini: nero, bruno, fulvo, rosso, biondo, grigio.
I bestiari medievali hanno sviluppato un’idea del tutto singolare, e oltretutto non riscontrabile in natura, ma solo in un passo dell’VIII libro della Storia Naturale di Plinio il Vecchio: l’idea secondo cui, a differenza degli altri quadrupedi, l’orso si accoppiasse con l’orsa more hominum, cioè guardandola in faccia.
Per la mentalità comune il fatto che gli orsi si accoppiassero come gli uomini era ritenuto un prodigio, una peculiarità che allontanava la fiera dal mondo animale e lo avvicinava a quello degli uomini. Per i chierici, però, questi amplessi avevano qualcosa di inquietante se non addirittura di mostruoso. Certe pratiche sembravano contrarie all’ordine voluto da Dio e non potevano che essere conseguenza di una natura viziosa e causa di gravissimi peccati, soprattutto la lussuria, che infatti sarebbe sempre stata associata all’orso nel sistema scolastico dei sette peccati capitali.
Gli autori che si occuparono della questione presero di mira soprattutto l’orsa, la quale, per il piacere di copulare, partoriva i suoi cuccioli prima del tempo così da potersi concedere nuovamente all’orso. Ciò, sempre secondo questi autori, causava spesso molti danni ai cuccioli che nascevano informi e senza pelo se non addirittura morti. Pentita, l’orsa leccava i suoi cuccioli per dar loro la vita e li teneva al proprio fianco per diversi mesi per proteggerli dai predatori. Sebbene Sant’Ambrogio leggesse questo comportamento come un simbolo del battesimo per i cristiani, un simbolo del ravvedimento e della contrizione, l’immagine di cattiva madre licenziosa fu quella che si impose ed ebbe maggior credito nel corso degli ultimi secoli del Medioevo.
L’orso maschio, dal canto suo, costituiva per molti autori non solo l’immagine della collera incontrollabile ma anche quella del desiderio brutale, un desiderio di possesso spesso rivolto alle donne, per cui nutriva una passione smodata, un’ossessione.
Talvolta innamorato o seduttore, più spesso rapitore o violentatore, l’orso si impadroniva delle malcapitate, le portava nella sua caverna e intratteneva con loro un mostruoso commercio carnale che qualche volta dava origine a creature metà uomo e metà orso.
La mitologia greca conosceva questi ratti di giovani fanciulle da parte di orsi, ma non ne parlava. La mitologia celtica risultava invece più esplicita, dal momento che spesso presentava storie di orsi violentatori e dei misfatti compiuti dai giovani mostri nati da quest’unione contro natura.
Malgrado il vigile filtro del cristianesimo, queste storie hanno lasciato tracce relativamente numerose sino ad epoca feudale, soprattutto nelle saghe e nelle epopee o nei romanzi cavallereschi.
Un esempio molto interessante è un romanzo arturiano in versi composto tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo: È questo il nome del giovane nobile che, pur non conoscendo il padre, giunge alla corte di re Artù per diventare uno dei cavalieri della Tavola Rotonda. L’eccessivo interesse dimostratogli dalla regina Ginevra suscita la gelosia di Artù che rifiuta di armarlo cavaliere finché non avrà compiuto qualche impresa.
Un giorno, mentre si trova nella camera delle dame, in compagnia della regina, ecco che appare un orso enorme, un orso fuggito dal serraglio reale. A mani nude, il giovane Yder combatte contro la bestia: è una lotta violentissima, lunga e dall’esito incerto, dalla quale però il giovane riesce ad uscire vincitore.
Questo episodio costituisce il centro del romanzo e contiene diversi motivi e temi tratti da tradizioni molto più antiche. La lotta di Yder contro la bestia rappresenta un rito di passaggio, l’impresa obbligata per diventare cavaliere. Ciò che però più ci interessa, in questo caso, è il comportamento dell’orso del re. Questo di fatti non fugge nella foresta una volta che è riuscito a scappare dalla propria gabbia ma preferisce inerpicarsi su una torre e raggiungere le donne della corte. In sostanza preferisce assecondare il suo desiderio carnale piuttosto che riconquistare la tanto agognata libertà.
Nella letteratura cortese di quegli anni, e soprattutto nel ciclo bretone, si può riconoscere una trama sotterranea composta da continui riferimenti ad una mitologia più antica che aveva l’orso come protagonista e che venne poi soffocata quando il plantigrado venne sostituito come re delle bestie dal leone.
Da quel momento l’orso perse sempre maggior terreno e da procace amante di fanciulle venne ridotto a misero e goffo accompagnatore di giullari e pagliacci, come nel Roman de Renart.
Per approfondire:
M. Pastoureau, L’orso. Storia di un re decaduto, Einaudi, Torino 2008, pp. 68 – 86.