Giotto Basilica Superiore di Assisi, Storie di Isacco

Le Storie di Isacco e il loro mistero

La Basilica di San Francesco ad Assisi è forse uno dei luoghi più potenti in cui entrare: ci troviamo completamente circondati da affreschi dai colori intensi, brillanti, con scene in cui vivono personaggi lontani. La sensazione è di entrare in uno scrigno: ogni elemento è perfetto, quasi un gioiello, in totale contrasto con l’aspetto della facciata, bianca e austera. 

Questo contrasto rispecchia, in un certo senso, tutto il movimento francescano. Come si sa, la predicazione di Francesco d’Assisi fu particolarmente influente per la cultura medievale italiana, e anche per lo sviluppo successivo della Chiesa: la sua scelta pauperistica e il suo rigore colpirono molti fedeli, e nel tempo si creò uno degli ordini più importanti della Chiesa stessa.

La Basilica è, visivamente, la somma di queste due anime: un esterno semplice, rigoroso, e un interno invece riccamente decorato, pur senza lussi e sfarzi, e questo diventerà un elemento caratteristico delle fondazioni francescane. La chiesa, infatti, venne iniziata subito dopo la morte di Francesco (che ebbe uno dei più rapidi processi di santificazione di sempre) e venne da subito intesa come un grande tributo alla sua figura e alla sua importanza, anche se questo significava cedere rispetto alla radicale morigeratezza del frate stesso. Inoltre il cantiere si protrasse per più di vent’anni, dal 1228 al 1253, e gli affreschi vennero dipinti ancora diversi decenni dopo, in più fasi, per cui l’effettivo completamento si ebbe solo nei primi del Trecento. 

Uno degli aspetti più curiosi della chiesa è il suo svilupparsi su due livelli: non si tratta di un’unica basilica, bensì di due, una costruita sopra l’altra. La prima basilica, infatti, fu quella effettivamente edificata dai frati alla morte di Francesco, con gli affreschi di Cimabue, e, successivamente, ne venne aggiunta una seconda. Entrambe le chiese sono, come dicevamo, riccamente affrescate, e l’effetto grandioso e stupefacente è dato proprio da questi affreschi, organizzati in cicli tematici che spaziano dalla vita del santo a quella di Gesù e, per quanto riguarda la Basilica Superiore, alle opere dell’Antico Testamento. 

L’intento è – come sempre nell’arte medievale – sia estetico sia ideologico: si tratta innanzitutto di un elogio al santo, alla sua vita. Ma anche di un’opera monumentale e universale, in cui si ripercorre tutta la storia umana, legandola alla storia della salvezza divina. 

Giotto, San Francesco
Storie di San Francesco, Affresco, Basilica superiore di Assisi

Le opere più famose e apprezzate sono le Storie di San Francesco, nella basilica superiore, tradizionalmente attribuite a Giotto; meno conosciuti invece sono gli affreschi del ciclo tratto dalla Genesi, anche perché sono quelli meno conservati. Si tratta però di opere di grande fattura, attribuite a maestri della scuola romana, in particolare a Jacopo Torriti. Due di questi, nello specifico, hanno fatto discutere a lungo gli studiosi e gli storici dell’arte, in un dibattito che non si è ancora concluso: la cosiddetta “questione giottesca”. Infatti le due scene sono piuttosto diverse dalle altre, e per via del loro stile e della loro tridimensionalità sono state attribuite a Giotto, anche se non abbiamo alcuna prova né alcun documento a dimostrarlo e, almeno a prima vista, vi è una certa differenza con le opere di sicura attribuzione giottesca. 

Il dittico, detto anche Storie di Isacco, si trova all’inizio della Basilica Superiore, sulla destra, e riguarda l’episodio biblico di Giacobbe ed Esaù. La storia è piuttosto nota: il patriarca Isacco, ormai sul letto di morte, deve dare la benedizione al primogenito Esaù, che così diverrebbe il suo successore. Ma sua moglie, Rebecca, ordisce un intrigo per far benedire il secondogenito, Giacobbe.

Così Giacobbe si traveste, si mette del pelo animale per assomigliare a suo fratello (Esaù è un nome parlante e significa infatti “villoso”) e ne recita la parte di fronte all’anziano padre, il quale, cieco e ormai anziano, pur con qualche tentennamento gli concede la benedizione, pensando che si trattasse del fratello giusto. E, quando il vero primogenito si presenta alla porta, lo scaccia a male parole. Solo in un secondo momento Isacco si rende conto dell’errore, ma ormai il danno è fatto: la benedizione è data e non si può più revocare. 

È interessante osservare, en passant, come l’episodio biblico abbia una certa connessione con la materia fiabesca: anche qui, infatti, la benedizione, come la maledizione, non può essere revocata a piacimento: può al massimo essere alleviata, ma ormai ciò che è detto è detto, la legge è legge. Ed è interessante vedere come l’autore del dittico interpreta questa storia. 

Isacco benedice Giacobbe
Isacco benedice Giacobbe, Affresco, Basilica Superiore di Assisi

Sono due, dicevamo, le scene dipinte dal nostro pittore, e vanno lette da destra verso sinistra: la prima, purtroppo molto rovinata, mostra Isacco, disteso sul letto, che viene ingannato da Giacobbe; e la seconda, dove Isacco respinge Esaù. I due affreschi si somigliano: la scena è circoscritta da un letto a baldacchino, di cui vediamo la struttura e i pesanti panneggi rossi, che fanno da quinte dell’azione, e compaiono quasi gli stessi personaggi. A cambiare è solo Giacobbe nella prima, che viene sostituito da Esaù, nella seconda: la benedizione di uno, la maledizione dell’altro.

C’è però anche un’altra differenza. Mentre Isacco è sempre uguale, disteso quasi nella stessa posizione, nella prima scena vediamo Rebecca in primo piano, al centro dell’immagine, con uno sguardo fisso e determinato e il viso pulito, quasi giovane, mentre un’ancella, che si vede appena, sorregge il corpo di Isacco. Nella seconda scena, le due si scambiano: l’ancella è al posto di Rebecca, con uno sguardo preoccupato, piuttosto espressivo; Rebecca invece è di spalle, avvolta in un panneggio blu: l’inganno si è compiuto. 

Particolare è anche la caratterizzazione di Esaù: mentre nella Bibbia è descritto come un uomo rozzo e villoso, qui lo vediamo invece come un giovane nobile, dal volto contrito e incredulo rispetto al gesto dell’anziano padre. 

Da questa rappresentazione, dunque, appare un’interpretazione della storia piuttosto diversa da come ci viene presentata nella Genesi, in cui si mostra maggiormente il punto di vista di Giacobbe, che poi prenderà il nome di Israele e sarà il terzo grande padre del popolo ebraico: qui vediamo come, invece, il passo biblico venga ribaltato – probabilmente anche per via del pregiudizio antigiudaico che vede gli ebrei come gli uccisori di Cristo, e dunque come popolo infido e ingannatore – in favore di un’interpretazione più vicina a Esaù: quello che era l’intento del passo biblico, e cioè ribaltare il diritto di sangue in cui il primogenito era sempre il favorito, e quindi riscattare Israele, popolo reietto e senza alcuna nobile ascendenza, passa in secondo piano rispetto a un’interpretazione più letterale e più semplice del testo, in cui vediamo un vero e proprio inganno. Che, al di là dei giudizi semplicistici che se ne potrebbero ricavare, è anche un modo di leggere il passo più vicino alla nostra sensibilità contemporanea.

Inoltre la rappresentazione ha degli indubbi elementi di modernità: i corpi hanno un aggetto e una tridimensionalità quasi prospettica; le figure sono delineate in modo realistico ed espressivo, come fossero personaggi di un’azione teatrale e non come semplici simboli, com’era nella tradizione precedente; i volti (specie Giacobbe e l’ancella) sono molto debitori della ritrattistica tardo-romana, e dunque particolarmente realistici. Si vede un cambio di paradigma: mentre la pittura altomedievale è soprattutto simbolica, e dunque le proporzioni dei personaggi, il loro movimento, la loro posizione nello spazio non sono per forza realistici, qui vediamo invece che ogni elemento è innanzitutto realistico, e poi, in un secondo momento, si carica di un valore simbolico.

Isacco respinge Esaù
Isacco respinge Esaù, Affresco, Basilica Superiore di Assisi

Per questo si è fatto da più parti il nome di Giotto: si tratta dello stesso cambio di paradigma per cui il pittore divenne in poco tempo uno dei nomi più celebri e acclamati della pittura del suo tempo. Inoltre Giotto compare anche in diversi altri cantieri legati alla Basilica: ha probabilmente affiancato Cimabue negli affreschi della Basilica Inferiore, e a lui è attribuito sin dal rinascimento il ciclo delle Storie di San Francesco. Un giovane Giotto sembra essere una spiegazione plausibile, ed erano di questa opinione diversi storici dell’arte ottocenteschi, come Giovanni Battista Cavalcaselle, Robert von Zimmermann e, in epoca successiva, Pietro Toesca. Però, per quanto l’ipotesi appaia suggestiva, non abbiamo documenti né prove certe: si tratta solo di una congettura.

Apriamo qui una parentesi. La questione giottesca è una diatriba che, a più riprese, ha appassionato storici e studiosi in epoche diversissime, e continua ancora adesso ad appassionare. Perché? In fondo, potrebbe sembrare una questione speciosa: del resto, l’opera in sé è notevole e mirabile a prescindere da chi effettivamente l’ha creata. 

Eppure le attribuzioni sono sempre questioni che appassionano, intrigano, fanno discutere e litigare. Un po’, forse, per il loro assomigliare a un enigma: come in un romanzo giallo dobbiamo scovare l’assassino, qui c’è da scovare l’autore. Un po’, anche, per un certo feticismo da classificazione, come se si stesse collezionando farfalle. O, ancora, perché il concetto stesso di autore ha un’aura in sé, un fascino rassicurante: se si conosce l’autore, allora abbiamo l’impressione di aver capito l’opera, di poterla inserire all’interno di un quadro completo e coerente. 

Però, in fondo, non è questo il motivo per cui l’attribuzione è un nodo tanto cruciale nella storia dell’arte. Ogni volta che guardiamo un’opera, che la apprezziamo, che la analizziamo, non stiamo mai guardando l’opera “in sé”: la mettiamo sempre in relazione con altri elementi, con altre opere, con il suo contesto, con le influenze che ha avuto e quelle che eserciterà. In altre parole, nessuna opera è un’isola: ed è proprio questo, la relazione fra le opere, a farci desiderare anche un autore. 

Non è tanto il gusto effimero della catalogazione, quanto il desiderio di tracciare una mappa, con i suoi snodi, le sue filiazioni, le sue parentele: se un’opera è di Giotto anziché di Cimabue, sarà imparentata con una serie di altre opere, avrà altre relazioni e altri collegamenti.

Questo è proprio uno di quei casi in cui si vede particolarmente come basti cambiare un nodo della rete perché la rete stessa cambi: se il dittico non è di Giotto, infatti, dobbiamo concludere che il cambio di paradigma di cui abbiamo parlato, e che abbiamo sempre attribuito alla figura di Giotto, in realtà non è frutto esclusivo dell’estro del pittore, ma qualcosa che si respirava già in quell’epoca, un gusto condiviso anche da altri.

Al contrario, se l’opera è di Giotto, dobbiamo ancor di più rafforzare l’idea di una “rivoluzione giottesca” iniziata proprio da lui. Conoscere questo, quindi, ci permette non solo di conoscere meglio il dittico, ma anche un passaggio determinante dell’arte duecentesca, e, non meno importante, ci permette di riflettere su quanto potere abbiano i singoli di cambiare il corso degli eventi, o la mentalità di un’epoca.

Storie di Isacco, volto di Giacobbe (dettaglio)
Storie di Isacco, volto di Giacobbe (dettaglio)

Peccato, però, che in questo caso vi siano più dubbi che certezze. L’attribuzione a Giotto, infatti, non è soddisfacente non solo perché non si hanno carte e documenti – cosa abbastanza comune – ma perché il pittore sarebbe stato piuttosto giovane per una committenza del genere: se gli affreschi sono databili nei primi anni ‘90 del Duecento, l’artista avrebbe avuto all’incirca vent’anni. Più probabile che a un ventenne fossero affidati compiti di esecuzione, più che la progettazione e il disegno di un’opera.

Il primo ad avanzare nuove ipotesi fu Bruno Zanardi, che si occupò dei restauri dopo il terribile terremoto del 1997 e attribuì l’opera ai maestri della scuola romana, gli stessi che hanno dipinto la volta e gli affreschi della parte alta della chiesa. In particolare uno dei nomi più papabili potrebbe essere quello di Pietro Cavallini, maestro già ampiamente affermato all’epoca. L’ipotesi è stata accolta favorevolmente da Federico Zeri, noto critico d’arte, anche se gli studiosi sono molto divisi, e la proposta ha suscitato anche forti scetticismi. 

D’altro canto, però, bisogna aggiungere che nemmeno l’attribuzione alle Storie di San Francesco è certa: ne parla Lorenzo Ghiberti, ma in modo sibillino (dice che Giotto avrebbe dipinto tutta “la parte di sotto” della Basilica, senza che si capisca quale delle due); mentre il primo a darne per certa la paternità è Vasari, che però lo fa solo nella seconda edizione delle Vite (e sappiamo che non sempre la racconta giusta).

Vasari, dunque, potrebbe aver influenzato tutta la storiografia successiva senza che ci siano delle prove concrete a riguardo, e questo poi avrebbe influenzato anche l’attribuzione delle Storie di Isacco. Anche qui, dunque, si sono fatti i nomi di chi già lavorava o lavorerà alla parte superiore della Chiesa: Cavallini, Jacopo Torriti e in generale la scuola romana. 

Un’altra ipotesi peculiare, per le Storie di Isacco, è stata avanzata dalla studiosa Angiola Maria Romanini, con il nome di Arnolfo di Cambio. L’idea è la stessa: un nome chiaramente più affermato del giovane Giotto, e che sicuramente ha già diretto alcuni cantieri. Ciò che rende, però, questa ipotesi piuttosto stravagante – e anche abbastanza improbabile – è che noi conosciamo Arnolfo solo come architetto e scultore: queste sarebbero le uniche opere pittoriche giunte fino a noi. 

Il mistero, dunque, rimane fitto. È certo che tutti i cantieri medievali sono opere collettive, dove si avvicendano più persone e dove il nome del singolo spesso scompare. Eppure non possiamo fare a meno di farci delle domande: com’è possibile che più persone abbiano, casualmente, dato vita a un cambio di paradigma che vedremo operato da Giotto solo diversi anni dopo? E se invece sono stati Pietro Cavallini e la scuola romana, com’è che le loro altre opere non presentano dei tratti così marcatamente “giotteschi”? 

E se non è stato nessuno di questi, allora chi? Chi potrebbe mai passare inosservato, senza lasciare alcuna traccia di sé, dopo aver dipinto due affreschi così?

 

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Per approfondire:
A. M. ROMANINI, L’arte medievale in Italia, Sansoni Editore, Firenze, 1988.
SERENA ROMANO, La O di Giotto, Electa, Milano, 2008.
C. BERTELLI, G. BRIGANTI, A. GIULIANO, Storia dell’arte italiana- Volume 2, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori – Arte, Milano, 2009 (1990).

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