Sono trascorsi vent’anni dalla fine del Novecento ma, nonostante le nuove tecnologie, la globalizzazione e lo sfaldamento delle grandi ideologie, non riusciamo a intravedere qualcosa di nuovo e di positivo all’orizzonte, anzi annaspiamo, risuscitando mostri, che solo la memoria di quel che furono, può ricacciare nel sottosuolo, in cui la storia e il tempo li ha seppelliti.
Il Novecento è stato un secolo nel quale si sono realizzate tutte le follie politiche e filosofiche, coltivate e razionalizzate nei secoli precedenti.
Il nostro Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, tanto letta e apprezzata da poeti come Varujan e Mandel’stam, durante quelle ore terribili di persecuzione e di morte, ha dato l’interpretazione più azzeccata dell’Uomo Occidentale, mettendola in bocca a Ulisse, simbolo dell’astuzia, dell’intelligenza, della conoscenza e dell’intima crudeltà umana, che è cresciuta nel tempo, distorcendo l’etica del pensiero umano, fino a concepire la sua stessa distruzione con genocidi, olocausti, bombe atomiche e inquinamento globale:
Fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
Ogni espressione artistica, letteraria e musicale ha seguito questa evoluzione, non a caso siamo approdati nel Novecento con le forme sempre più spezzate, fino a scomparire del tutto nell’astrattismo; con i suoni che nel jazz e nel blues hanno il vocalizzo dell’anima umana, travolta dalla sua stessa vita moderna disumana; con i versi dalla rima rarefatta, dove la retorica lascia il posto al silenzio, al vuoto della sintassi, alla rarefazione delle congiunzioni, per lasciare nuda la parola. Parola che ha perso il ruolo di Logos ed è perseguitata, uccisa, martoriata.
Bianca Maria Frabotta, una poetessa contemporanea, già insegnante universitaria alla Sapienza di Roma, al funerale di Amelia Rosselli disse che il Novecento è stato un secolo “divoratore di poeti”.
Un secolo che ha visto esplodere movimenti letterari, artistici e politici in tutta la sua virulenza, tanto quanto ha visto velocizzare il suo tempo con l’avanzare dell’industrializzazione e della motorizzazione, che tante illusioni ha prodotto. Illusioni comprese come tali dai poeti, che sono i primi a gridare nei loro versi, i primi a morire sotto i colpi implacabili delle dittature borghesi o socialiste.
Fatta questa lunga premessa, torniamo ai nostri poeti, che come abbiamo detto sono tanti e tutti finiti tragicamente.
Qui voglio prendere in considerazione Daniel Varujan, sublime e raffinato poeta armeno, cui ho dedicato un articolo, massacrato con altri milioni di suoi connazionali, nel Genocidio del popolo armeno, perpetrato in soli tre giorni nell’aprile del 1915 dai Giovani Turchi , un gruppo estremista, che prese il sopravvento politico sul sultano ottomano. Gli armeni, dalla fine dell’Impero Romano d’Oriente fino a pochissimi anni fa, hanno vissuto da ospiti non graditi nella loro terra, fra l’altro bellissima. La convivenza con l’impero Ottomano, guidato dal Sultano, per molti secoli era stata tollerante e rispettosa. Aveva cominciato a dare segnali d’intolleranza razziale fin dalla fine dell’Ottocento, ma è nel secolo nuovo che si arriva a concepire l’idea della Razza pura e quindi del Genocidio, che comincerà con gli armeni e continuerà con gli ebrei.
Dobbiamo gli scritti di Varujan alla ricerca capillare e testarda dei sopravvissuti, che con fatica e amore hanno cercato di ricostruire la cultura armena, distrutta per sempre, attraverso la lingua, usi e costumi di un popolo.
Il carro dei cadaveri
Verso sera per le strade deserte
passa un carro cigolando.
Un cavallo sauro lo tira, dietro
cammina un soldato ubriaco.E’ la bara dei massacrati, che va
al cimitero degli Armeni.
Il sole al tramonto distende
sul carro una sindone d’oro.Il cavallo è magro: trascina a stento
il raccolto dei suoi padroni crudeli.
Con le orecchie pendenti, sembra
riflettere intensamente a quantisecoli servono per arrivare all’ultimo
fienile dei santi mietuti…
E sui muri intorno la sua coda pendente
spruzza sempre, sempre sangue.E ancora sangue continua a sgorgare
dai cerchi delle ruote,
come se il carro trasportasse rose, come se fosse
dell’aurora il carro di fuoco.Sono uno sull’altro i cadaveri, il figlio
nei riccioli della madre avvolto.
Uno ha ficcato l’intero pugno
nella calda ferita aperta dell’altro.E un vecchio con la mandibola in frantumi
fissa gli occhi nel cielo,
dove una maledizione e una preghiera
si mescolano alla nera vendetta.L’intestino uscito fuori di un altro
penzola giù dal carro:
un cane da dietro l’afferra
e si dedica a divorarlo.Non hanno più forma né testa: portano
ferite di mille armi.
Il loro corpo è già fratello alla terra:
ecco, vanno al cimitero.Su di loro nessuno viene a piangere
o a dare l’estremo saluto:
nel silenzio della città solo l’odore del sangue
va attorno con lo zefiro.Ma nel buio di finestra in finestra
ecco, candele si accendono:
sono le nonne che pregano di nascosto
sulla bara rossa.E allora su un balcone
esce bella una vergine,
e piangendo lancia un pugno di rose
sul carro che passa.
Ora entriamo nella magia della poesia, delle sue parole, che ognuna è una storia, un’immagine. Quel carro dei cadaveri che ci ricorda quello manzoniano dei morti di peste, facendoci piombare sulla scena, come pipistrelli o falene della notte. Il poeta ha occhi che guardano oltre, che costruiscono una storia, scomponendo le parole, aggiungendo senso al senso.
In quel carro si accatastano i corpi martoriati di un popolo inerme, destinato a morire, solo per l’avidità, la presunta superiorità o altre fandonie che ancora resistono maledettamente.
Dietro le false ideologie razziali e razziste, si nasconde sempre un altro problema, per lo più di natura economica. Gli armeni, laboriosi e studiosi, erano molto ricchi e il genocidio, così come l’olocausto ebreo, aveva solo motivi economici e politici.
Negli anni in cui i Giovani Turchi strapparono gli occhi a Daniel Varujan, in Russia c’era un grande fermento politico e letterario. Fin dai primi del Novecento, si era formato tra gli scrittori russi, il Movimento dell’Acmeismo, cui aderirono tra l’altro, Anna Achamatova, Boris Pasternak, Majakowskii. Il più grande, considerato l’unico vero rappresentante di questo movimento, è un uomo piccolo, esile e dall’aspetto irriverente e trasognato da vero poeta: Osip Mandel’stam.
Sto nel cuore del secolo
Sto nel cuore del secolo; incerta è la strada; e ogni
mèta col tempo sfuma all’orizzonte:
il frassino stremato del bordone,
la miseranda patina del bronzo.14 Dicembre 1936
Ho scelto questi versi perché, come sempre nella poesia che si fa Grande portatrice di verità, vi è racchiusa l’essenza del nostro tempo passato, sempre drammaticamente presente, proprio per quella strada incerta, per la mèta che sfuma, che si confonde fino a prendere un’altra forma, rimanendo sempre la stessa.
Oggi abbiamo in comune con i nostri fratelli del primo Novecento, la stessa mèta smarrita, lo stesso straniamento, che non è più dettato da grandi ideologie o illusioni, ormai svanite nell’immoralità di chi le ostenta, ma dall’inquinamento delle nostre cellule. Così al pari delle balene e delle tartarughe marine vaghiamo e ci spiaggiamo coperti dal particolato su distese d’immondizia.
In questi quattro versi si legge tutta l’evoluzione ideologica antecedente alla Dittatura bolscevica. Tutto l’ardimento politico e poetico, distrutto dalle purghe staliniane, di cui rimarrà vittima lo stesso Osip, troppo irriverente per una dittatura opprimente. Morirà nel 1938 nel gulag Vlostok.
Ariosto
In Europa fa freddo. In Italia è buio.
Il potere è repellente come le mani d’un barbiere.
Oh, se si spalancasse, ma al più presto,
un’ampia finestra sull’Adriatico.Sulla rosa muschiosa il ronzio di un’ape,
nella steppa a mezzogiorno un grillo muscoloso,
sono grevi i ferri del cavallo alato,
la clessidra è gialla e aurata.Il linguaggio delle cicale irretisce col suo miscuglio
di mestizia puskiniana e di fretta mediterranea,
come un’edera fastidiosa, che s’avviticchia tutta
egli mente con coraggio, combinandone con Orlando di tutti i colori.La clessidra è gialla e aurata,
nella steppa a mezzogiorno un grillo muscoloso,
e dritto alla luna spicca il volo il contafole spalluto.
Gentile Ariosto, volpe d’Ambasceria,
felce in fiore, veliero, aloe,
tu udivi sulla luna i versi dei calenzuoli,
e a corte eri savio consigliere dei pesci.Oh, città di lucertole, in cui non v’è anima viva,
dalla strega e dal giudice hai partorito prole siffatta,
Ferrara dal cuore di pietra, alla catena lo tenevi:
e l’astro del rosso intelletto si levò dal folto del bosco.Noi ci stupiamo del banchetto del macellaio,
del pargolo appisolatosi sotto una rete di mosche azzurre,
dell’agnello sul monte, del monaco sull’asinello,dei soldati del duca, un po’ folli in Dio,
per le bevute di vino, la peste e l’aglio,
e della recente perdita, come l’aurora, ci stupiamo…1933; 1935
Grande studioso e appassionato della letteratura italiana e di quei grandi come Dante e Ariosto, cui si sentiva fratello di poesia, di dolore, di emarginazione sociale. Si racconta che leggesse ai suoi compagni di prigionia, versi dall’Inferno di Dante, sbocconcellando pezzi di pane duro.
Pasolini diceva nel meraviglioso poema Una disperata vitalità:
la morte non è
nel non poter comunicare
ma nel non poter più essere compresi
e il poeta che della comprensione dei suoi sintagmi, fonda l’essenza del suo pensiero, è incompreso dalla massa ma ben compreso dal potere, che lo annienta in ogni modo.
Nei versi di Varujan e in quelli di Mandel’stam c’è lo stesso terribile messaggio di morte, che aleggia come la peste nei vicoli della Milano di Renzo e Lucia. Sono i fili invisibili della letteratura che si tendono in ogni tempo, che abbracciano poeti e scrittori, anime nude, essenza di verità sconcertata e attonita davanti all’immensità delle incongruenze umane.
La pestilenza della violenza, la pestilenza dell’uomo moderno ormai privo di morale, che corre impazzito verso la sua distruzione, quella che cantano piangendo i poeti.
La parola si smembra in immagini virulente, che graffiano l’anima, che costringono a pensare vedendo nel passato, il futuro di chi lo ha dimenticato.
I WEGGEBEIZT o meglio conosciuta come ATEMKRISTALL ( cristallo di respiro )
CORROSA E SCANCELLATA
dal vento della tua lingua
la chiacchiera versi colore
dei fatti vissuti – la linguacciuta
mia poesia, la nullesia.
Nella parola di quest’altro grande poeta del Novecento, Paul Celan, ebreo rumeno classe 1922, sfuggito al rastrellamento nazista, nel quale furono deportati i genitori. Figlio unico, mente brillante, ebbe la soffiata dell’arrivo dei tedeschi e disperatamente cercò di convincere sua madre, quella più ostinata, religiosissima e certa nell’aiuto divino, fu incapace di credere a quanto stesse succedendo. L’accorato appello del figlio non la convinse e fu irremovibile. Le rimase accanto il marito, rispettoso della moglie, mentre Paul fuggì e si salvò dalla morte ma non dal campo di lavoro.
Seppe dopo la liberazione della morte dei genitori e questo segnò definitivamente la sua poetica. La parola era diventata nulla, nel momento in cui non aveva salvato neppure la vita ai suoi genitori. Pesò nell’anima del poeta quella fuga dalla morte e divenne poema, il Todesfuge appunto, scritto nel 1945, che lo ha reso celebre in tutto il mondo.
In questo poema si miscela il dramma dell’olocausto con quello personale del poeta. La parola ha uno spessore sconfinato, ha la pennellata nera che cancella per sempre il bianco immacolato del latte, la purezza originaria, che è l’essenza della Poesia. Essenza che fugge la morte, perché nata per esaltare la vita, per celebrarla nei suoi aspetti migliori, per guardarla nel profondo dei suoi occhi.
La poesia è sfuggita alla morte, ma quei campi di concentramento hanno minato per sempre la stabilità strutturale del verso, così come al poeta quella mentale. Morì suicida nel 1970 gettandosi nella Senna.
Todesfuge
Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera
noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta strettoNella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete
egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano
egli aduna i mastini con un fischio
con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda e adesso suonate perché si deve ballareNegro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta strettoEgli grida puntate più fondo nel cuor della terra e voialtri cantate e suonate
egli estrae dalla cintola il ferro lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
voi puntate più fondo le zappe e voi ancora suonate perché si deve ballareNegro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca colle serpi
Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Maestro di Germania
grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete come fumo nell’aria
cosi avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta strettoNegro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio la morte è un Maestro di Germania
noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo
la morte è un Maestro di Germania il suo occhio è azzurro
egli ti coglie col piombo ti coglie con mira precisa
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tomba nell’aria
egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Maestro di Germaniai tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith
Altra storia e altro tempo di quello di Daniel e di Osip, eppure il filo tra loro è teso e vibrante. Fra l’altro Celan è stato uno studioso dell’opera poetica di Mandel’stam, del quale si sentiva epigono nello studio della parola, intesa come Logos, nella sua accezione etica, rivelatrice dell’intrinseca verità degli eventi e dei turbamenti dell’umanità.
In piena rivoluzione digitale, dove la spia ha gli occhi di velluto del nostro cellulare, dove la libertà è uno slogan elettorale, quanto è necessario riannodare i numerosi fili della poesia e quindi della storia, per mantenere viva la memoria e tenere accesa la lampada critica della verità.
Per approfondire:
Poesia di Crocetti editore n. 344;
Centro studi Nazariantz di Bari, Centro diretto dal Prof. Carlo Coppola;
“Il canto del pane” di Daniel Varujan: una musica ipnotica e intossicante di Alberto Carollo;
Articolo di Gianfranco Lauretano su Osip Mandel’stam:
Il silenzio e la poesia di Mandel’stam su Zest, blog di letteratura sostenibile;
Profezia privata di Andrea Temporelli;
La presenza della poesia, saggio su Celan di Amelia Valtolina;
La poesia di Varujan è tratta dall’ultima incompleta raccolta Il canto del pane;
Le poesie di Paul Celan sono tratte dalla raccolta edita dal Meridiano della Mondadori.