Il non detto
organizza
paura
o sicurezza
nelle emozioni
e anche speranze
indecifrabili.Ma infine
ogni perla
nasce dal dolore
e la conchiglia
si fa poesia.
Ho sempre pensato che la poesia cerchi chi ama leggerla, in piena autonomia dal suo autore e dalle presentazioni, perché vive di vita propria. Un giorno ho avuto la conferma, quando mio figlio disabile, tornando da una passeggiata, mi ha portato un libro dimenticato su una panchina, sulla cui copertina c’è un bimbo che pasticcia con i colori, il titolo da una parte a caratteri bianchi: La parola e l’altrove. Il poeta è Giuseppe Aldo Zanecchia. C’è una dedica scritta frettolosamente e una data: ottobre 2016, è un libro di poesie, che è stato toccato e vissuto, ma in perfetto stato, non resisto e lo sfoglio.
Le poesie mi prendono subito, le parole sono spesse di senso e dissenso, la vita pulsa nei verbi e, come nella poesia Il non detto che ho messo all’inizio, «la conchiglia / si fa poesia» dopo il travaglio doloroso della vita.
Mentre invecchio,
guardo avanti
vedo il limite
per la prima volta.(…)
Giuseppe Aldo Zanecchia, l’autore di questi versi, che copierò in ordine sparso, è nato nel 1945 a Roma, sposato con figli, oltre a essere poeta è un sociologo. Ha lavorato nella sanità pubblica per 37 anni. Si è occupato di problemi sociali, in particolare quelli legati al mondo del lavoro. Ha collaborato a varie riviste del settore e ha pubblicato libri di poesia sin dagli anni ’70 del secolo scorso.
Queste informazioni le prendo dalla copertina del libro, poiché non sono riuscita a trovare quasi nulla sulla rete, in merito alla sua biografia, nonostante questo autore abbia un nutrito curriculum, riconosciuto ad alti livelli.
Torniamo alla poesia di Zanecchia, che assomiglia a un acquerello, piccoli schizzi, discorsi spezzati, che si arricchiscono dei pensieri del lettore. Piccole riflessioni di vita quotidiana come nella poesia Mentre invecchio, ci travolgono, soprattutto a chi in questo processo ci sta con un piede dentro e si guarda indietro.
(…)
In fondo al viale
solitudine
bellezza dimenticata.
Rimpiango di me
la parte che non conosco
altre strade sognate.(…)
Sembra di vederlo quel vecchio abbozzato in pochi colori che sfumano dal marrone al nero, davanti a una finestra senza tempo. È la vita che s’impara vivendo, che torna negli occhi del vecchio e diventa storia, memoria e accettazione di quel che non è stato.
La vita è pure ripensare a quella porzione di eventi storici, nei quali si è vissuto, soprattutto se, come Zanecchia negli anni Sessanta/Settanta è un giovane sociologo/poeta, che vive e canta un tempo magico, di grandi illusioni e grandi delusioni. Una generazione che ha provato a rompere i muri dell’ipocrisia, della borghesia clerico/fascista, e che è stata tradita dalla droga, dalla violenza terroristica e mafiosa, di chi sapeva come imbavagliare la coscienza.
Storia
parola desueta
un ideogramma forse
per nuove generazioni
coi loro pensieri
a risposta multipla.
Per noi
fu tenere unite le pazienze
il progetto,
tentare coerenza alle utopie
l’impegno,
non cadere in reazioni
provocate da poteri forti
la salvezza,
e la bellezza
come forma ineluttabile
del cambiamento
con idee, fiori, amore.
Ma il mondo cambiò…
È lunga la bellissima e struggente poesia dal titolo Storia, dove si snocciolano quegli anni lontani, quasi mitologici per i giovani di oggi, che percepiscono quel tempo come ideogramma e con lui anche la portata dell’impegno, con cui si sono affrontate battaglie, che hanno portato grandi successi nei diritti sociali, umani, sindacali di questa nazione. Diritti, cui siamo tutti debitori e che a stento riusciamo a mantenere. L’impegno e la tenacia se li è portati via il Novecento. Il disimpegno e l’ansia sono il vulnus di quest’epoca, nel quale l’umano, il popolo sembrano aver smarrito il senso di sé.
La poesia di Zanecchia è di quelle che parlano a tutto tondo e non solo ai sentimenti o al proprio ombelico pensoso e contratto d’angoscia. L’essere sociologo e poeta dà a questa poesia una sobrietà e una linearità di messaggio che contagia il lettore, non lo violenta ma lo conduce dentro e oltre il senso della parola.
Sappiamo dalle poche notizie sulla copertina che Zanecchia ha svolto il suo lavoro, occupandosi principalmente delle problematiche e dei diritti dei lavoratori.
Nella poesia Uscito dalla Galleria, è il sociologo che usa la potenza gentile dei versi, per denunciare lo sfruttamento e l’anonimato nel quale vivono e muoiono centinaia di lavoratori. Sottopagato e costretto a lavorare senza sosta, il popolo è schiacciato, come l’autotrasportatore senza nome, dalla macchina del denaro e delle Borse, dove l’apparire e l’osare valgono più che lavorare:
Uscito dalla galleria
il 17 dicembre 2010
si rovescia un Tir
vicino Firenze
muore l’autista.
Non so nulla di lui.
Mi stringe il cuore,
ugualmente
perché lo penso
solo
sotto il camion freddo
rovesciato
ridotto a titolo di cronaca
in questo Paese spudorato
che non gli concede nome
perché non è un’attrice
un politico o un mafioso
non ha derubato per anni il fisco
non ha sorriso di notte
sopra un terremoto
non è plurimputato
che passa per perseguitato.
È un autista soltanto
…
È molto lunga ma è un omaggio ai milioni di morti sul lavoro che non hanno nemmeno un nome sui giornali, quelli che meno contano, la poesia li canta.
Questo è un libro di poesie che non annoia mai, perché ogni poesia è una storia diversa dalla precedente, è un particolare o un frammento di vita quotidiana, disegnato a tratti leggeri, a tinte sfumate.
Vi propongo una manciata di versi di A mia moglie, una poesia lunga ma, come tutte quelle di Zanecchia in questo libro, frantumata, tratteggiata mollemente in parole di grande respiro.
In tante estati
apparecchiavi case
in vacanza.
Ti lamentavi
e non sapevi
ch’era ancora bello.
Abbiamo vagato
boschi di dubbi
incertezze
per trovare la perla
che ha illuminato
la nostra lunga storia.
Siamo stati in luoghi
dove ogni splendore
dileguava
e ogni certezza
svaniva sempre.
Dentro di noi soltanto
ci sentivamo al sicuro.
…
Il componimento continua trasportando il lettore in una storia d’amore di cui non sappiamo nulla e che potrebbe essersi conclusa o persa nei meandri del tempo passato. Quell’impreciso, quel non detto, che Zanecchia lascia alle sue parole, è la grandezza della sua poesia, che si apre a ventaglio per chiunque la voglia saggiare.
Poi c’è l’amore del padre, quel sentire intimo che fa osservare i figli nella loro evoluzione con una trepidazione per quel loro diventare adulti, altro da te che provoca una sensazione talmente paradossale, che solo la poesia può rappresentare.
Avevi paura
a varcare l’imprevisto.
In te fertile gioia
di luci nitide e calde
voce saltellante azzurra
somigliante al volo
chiassoso degli uccelli
eppure incline al silenzio
di quiete morbida
e saggezza.
Figlia mia
quante alberature ho spezzato
vagando tra uragani
per sapere tutto della tua stella.
In quante sere estate e inverno
osservavo orizzonti
precipitare alla fine del cuscino
e te risalire il buio universo
per raggiungere questa casa.
…
La lirica continua in un groviglio di emozioni, che mi hanno ricordato il rapporto con mio padre, così intenso, fatto di “buongiorno papà “ e altre piccole perle preziose, che ci strappa la vita d’un tratto. Nella poesia di Zanecchia anche il dolore è misurato, filtrato dal pensiero e dalla musica silenziosa dei versi, come ne l’incipit di La sera prima di morire, dedicata a un certo Simone, probabilmente un utente di una comunità, senza nome e senza etichette, perché l’inferno non ha classifiche e non ha bisogno di giudizi, basta la solitudine, la disperazione.
La sera prima di morire
in Comunità
ti eri sbarbato
e non era tuo solito.
Avevi telefonato
a tuo padre
parlato insieme
di filosofia;
sembravi già lieve
tenero
come le erbe del mattino.
Apparivi già in cammino
oltre la fine dell’inferno
immerso in spazi leggeri
dove anche la preghiera
tace
distrutta
da visioni di panna e oro
…
Come descrivere in maniera migliore un evento tanto doloroso? Quanto amore, quanta disperazione e al tempo stesso rassegnazione ci trasmettono queste parole, che sono altrove, nel silenzio infinito dei sentimenti.
Vi lascio con i versi di Il tempo della dismisura, tanto tragicamente attuali, che meritano di essere letti più volte e compresi davvero:
Canto la bellezza
che non ha più difesa
dalla disarticolazione
dei materiali
coi quali
costruivamo valori.
Ritorno di follia fascista
rossa e nera
mediocrità indegna
ironia tagliente
sboccata
su speranze perbene
mano che sporca
tutto ciò che tocca
e mente spudorata
tutti i giorni
per coprire d’oro finto
il bordello di cui si nutre.
Non ha più tempo
il sonno delle coscienze
per aprire dibattiti seri.
Il tamburo già rulla,
idiota e sicuro di sé
come è sempre stato
all’inizio
d’ogni umana follia.
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Giuseppe Aldo Zanecchia è nato a Roma nel 1945. Sposato con una figlia. Ha collaborato alle riviste “Psicologia lavoro e società” e “Educazione Scuola”. Ha scritto per Agenzia ISSOS, per Tempi Nuovi e La Perdonanza. Ha pubblicato raccolte di versi: Gli altipiani dei sogni, nel 1970 Biblioteca Internazionale di Roma, I giorni fuori le mura, edito da Edicoop, Gli occhi della neve, edito da Il Ventaglio; Ai piedi delle origini, edito da Niccolò Messina, Finalmente incerti, edito da Franco Angeli. Come fosse niente, edito da ETS Pisa 2007, Il guardiano della soglia, Maremmi Editori; La parola e l’altrove del 2016 di Nicolò Edizioni. È possibile trovare il libro sul catalogo della casa editrice ma anche su: www.ibs.it www.libreriauniversitaria.it , www.hoepli.it, www.lafeltrinelli.it