Samba, i limiti di un film sui nostri tempi

Samba

Se è vero che l’arte è sempre una riflessione sul mondo, ci sono alcune opere che manifestano più di altre il loro debito nei confronti del periodo in cui vengono alla luce. L’ésprit du temps che si condensa in questi prodotti culturali fa sì che attraverso di essi si possano disvelare i tic, le tendenze, i flussi sotterranei che si muovono al di sotto della variopinta scorza del reale.

Samba, film francese del 2014, appartiene esattamente al novero di queste opere. Sinceramente non penso che si un film che meriti la qualifica di “opera d’arte”. Tuttavia è un godibilissimo prodotto culturale, in grado di far pensare lo spettatore, di costringerlo a riconsiderare alcuni dei pregiudizi che, anche in modo non consapevole, si annidano nelle pieghe del senso comune di cui tutti siamo bene o male pregni.

Questo, unito ad un’indiscutibile verve comica che regala scene molto gustose, è il suo merito maggiore.

Eppure…

Facciamo un passo indietro. Siamo nella Francia di Hollande, ma potrebbe benissimo essere quella di Macron o l’Italia di Conte. Samba è un uomo senegalese immigrato da dieci anni nel “Paese dei diritti dell’uomo e del cittadino”, lavora come lavapiatti in un ristorante di lusso e intanto aspira a diventare chef.

Samba

Se la precarietà è la cifra esistenziale di tutta la nostra generazione, per chi ha intrapreso la difficile strada dell’emigrazione questo problema si ingigantisce a dismisura. Quando il capo cuoco gli propone un impiego pienamente regolare, una sorta di “scatto di livello” dalla situazione di “lavoro grigio” in cui si trova a quella “normale” (le virgolette sono d’obbligo vista la diffusione delle irregolarità lavorative che costella l’Europa tutta), la sua vita viene letteralmente stravolta.

In un mondo in cui la concessione sussume il diritto, in cui la dignità cede il passo all’umiliazione, il fatto che per ottenere un lavoro regolare sia necessario un rapporto “di lunga durata” con il proprio capo già fa incazzare. Ma al confronto di ciò che succede dopo questo vulnus dei diritti è nulla.

Per convalidare il contratto Samba infatti ha bisogno di un permesso di soggiorno, di un pezzo di carta che ne validi la sua esistenza, che dica: «Sì, tu esisti». Si reca quindi agli sportelli di un’associazione che si occupa dei diritti degli immigrati, ma… coup de théâtre, invece del permesso di soggiorno il giudice che deve vagliare la sua domanda gli consegna un bel foglio di via. I diritti dell’uomo e del cittadino… sì: bianco, maschio, eterosessuale!, per riprendere la critica del movimento femminista e antirazzista.

Dopo un periodo di permanenza nel centro per i rimpatri (l’equivalente del nostro CPT, poi CIE ora CPR), a Samba viene consegnata l’ingiunzione a lasciare la Francia e un biglietto aereo destinazione Dakar.

Alt: spiegone time

Charlotte Gainsbourg in una scena del film

Abbiamo fatto cenno al centro per i rimpatri. È questo forse il punto più dolente che il film tocca. Credo valga la pena soffermarci brevemente sulla storia di questi dispositivi carcerari (almeno per quanto riguarda la realtà italiana, quella che ci coinvolge più da vicino). Nel 1998, in concomitanza con la prima massiva “ondata migratoria” dall’estero, il governo Prodi I, di “centrosinistra”, istituisce i Centri di Permanenza Temporanea, i CPT (legge Turco-Napolitano, ovvero legge 6 marzo 1998, n. 40: quel Napolitano che diede il nome alla legge in futuro sarà proprio il Presidente della Repubblica).

I CPT sono sostanzialmente delle carceri per persone che non hanno commesso reati e che semplicemente non sono in possesso di un documento che “giustifichi” la loro presenza sul territorio italiano. Carceri particolari però, perché oltre a detenere persone che non sono formalmente incriminate per nulla, vengono gestiti da delle cooperative dietro bando. Il modello, aberrante, è quello delle carceri private americane, in cui delle “imprese del settore” lucrano sulla detenzione delle persone.

Quando Berlusconi sale al governo nel 2001, la maggioranza di “centrodestra” riconferma l’impianto legislativo della legge Turco-Napolitano ma ritiene che “Centri di Permanenza Temporanea” sia un nome troppo blando per descrivere la famigerata lotta all’“immigrazione clandestina”. Decide quindi di cambiare i CPT in CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione). La legge legge 30 luglio 2002, n. 189, ai più nota come “Bossi-Fini”, è tutt’ora in vigore e secondo Amnesty International lede alcuni diritti delle persone migranti, tra cui quello d’asilo. Inoltre, ben presto, i CIE diventano dei luoghi invivibili, in cui le persone sono tenute in condizioni igienico-sanitarie pessime, le cooperative risparmiano sul cibo, chi vi è rinchiuso non può comunicare con l’esterno… Insomma le proteste si moltiplicano, alcuni migranti muoiono, gli atti di auto-lesionismo non si contano (alcune persone arrivano a cucirsi le labbra in segno di protesta). Alla fine i CIE vengono man mano chiusi.

Nel frattempo però monta la campagna diffamatoria contro le ONG che salvano le persone in mare (accusate di essere dei «taxi del mare»), il razzismo diventa moneta elettorale corrente, la destra sembra riscuotere sempre più successo e nel 2017 il governo Gentiloni presenta il decreto 17 febbraio 2017, n. 13. Dodici giorni dopo verrà convertito in legge: la Legge Minniti-Orlando. Tra le altre disposizioni previste, compresa l’abolizione di un grado di giudizio per i migranti a cui viene rigettata la richiesta di asilo e altre piacevolezze da più parti considerate incostituzionali e contrarie ai diritti umani, la legge prevede che i CIE risorgano sotto nuovo nome: Centri di Permanenza per i Rimpatri.

Un nome che descrive in modo schietto ed efficace il loro scopo: delle carceri dove stipare le persone prima di buttarle fuori dall’Italia. Sono previsti venti Centri, uno per regione. L’apertura però procede a rilento. In un anno sono morte già quattro persone, nonché svariati episodi di rivolta per le condizioni inumane in cui si trova a vivere chi vi è detenuto.

Fine dello spiegone, torniamo al film.

Samba

Samba non ha nessuna intenzione di tornare indietro dopo dieci anni di vita in Francia, ed entra così nel magico mondo dell’“immigrazione clandestina”: termine osceno ormai entrato nel lessico comune per qualificare chi non riesce a ottenere quel famoso diritto ad esistere di cui parlavamo prima, quel pezzo di carta che convalida la legittimità ad occupare uno spazio determinato in un momento determinato: un permesso di soggiorno insomma.

Nel frattempo entra in contatto con una serie di personaggi che costelleranno l’intreccio narrativo: Alice, ex dirigente d’azienda in pausa dal lavoro dopo un esaurimento nervoso, Wilson, immigrato irregolare con cui condivide una serie di avventure tra il tragico e il comico (nel duetto di questi due personaggi si consumano forse le scene più divertenti dell’intero film), Jonas, un uomo rinchiuso nel centro per i rimpatri, lo zio Lamouna… Una selva di persone che fanno da contorno alla sua vicenda personale, influenzandone in maniera determinante l’esito.

Non vi sto a raccontare il resto del film, lascio che vi godiate lo spettacolo. Tuttavia sia permessa una riflessione sul finale. Vi anticipo che il film è una commedia e ha quindi un lieto fine. Il tragico si stempera nel sorriso rassicurante.

Questo è il limite più grande del film. A differenza ad esempio della commedia all’italiana dei decenni scorsi (penso a Monicelli con il suo La grande guerra, per fare solo un esempio), in cui il comico lasciava posto nel finale alla tragedia, qui i registi (Olivier Nakache ed Éric Toledano) decidono di operare esattamente nel senso opposto. Questo meccanismo narrativo impedisce allo spettatore di cogliere, grazie alla vivida crudezza della morte o della violenza estrema, l’inaccettabilità di un problema e la necessità di agire per trasformare il reale. Tutto finisce nella bambagia, nel “in fondo con un po’ di fortuna vedi che tutto si sistema”.

Samba fotogramma

«E invece no!», verrebbe da rispondere. È un’idea falsa, parziale, sbagliata che un accomodamento alla fine si trova sempre. Questo mondo è, per dirla con Gramsci, «grande e terribile» e noi dobbiamo avere la forza morale e intellettuale di farci i conti, di cambiarlo.

E il problema non è soltanto, per così dire, “ideologico”. Non si tratta solo del fatto che il film anestetizza ogni possibile reazione alla disumanità delle condizioni in cui versano i migranti. È un problema anche narrativo. Poiché si è deciso che il film deve finire bene Samba deve riuscire (un po’ fortunosamente e, per lui, fortunatamente) a sistemarsi. Ma poiché è l’unico a riuscire in questa impresa, poiché è un successo unicamente individuale, le persone con cui entra in relazione nel corso del film, soprattutto le persone migranti che sono il fulcro del racconto, devono sparire. Wilson ad esempio esce di scena senza valide ragioni e senza spiegazioni. Così il punto di forza del racconto diventa il suo punto di maggiore debolezza e il film si trasforma in una commediola romantica che rischia di non lasciare nulla.

Ed è un peccato, perché alcuni dei cliché propri delle opere cinematografiche sui migranti qui non vengono solo evitati, ma individuati e disinnescati. In una scena abbastanza toccante, per esempio Samba parla al telefono con la madre, che è rimasta in Senegal. Il senso di vergogna per il fallimento, l’idea che la Francia sia tipo l’Eden in cui «c’è lavoro per tutti, quindi se non trovi lavoro è colpa tua che non hai voglia di darti da fare», viene portato alla luce e offre l’occasione per una riflessione più complessiva sul rapporto che il migrante ha con la terra e la società in cui giunge, le illusioni che porta con sé, i pregiudizi che lui stesso cova. Di fronte alla complessità che il film è in grado di tematizzare sarebbe stato più appropriato ben altra chiusa.

Insomma, per farla breve. Come dicevamo prima Samba è un bel film, in grado di far riflettere, di costringere lo spettatore a riconsiderare alcuni dei pregiudizi che porta con sé.

Eppure…

 


Per ulteriori informazioni consigliamo la lettura di questo articolo, nonché dei materiali raccolti dalla “Rete Mai più Lager – No ai CPR” che trovate qui.

Simone Coletto
Simone Coletto

Nato a Milano, classe 1993, laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Pavia; lettore e appassionato di politica da sempre, ho avvicinato gli studi filosofici sui banchi del liceo (classico) e da lì ho compreso come questa disciplina dia ad ognuno la possibilità di capire e modificare il mondo.