“Introduzione all’articolo ricca di retorica superflua e introdotta dagli usuali saluti, atta in apparenza a proporre un argomento a caso per poi vertere, improvvisamente o con delicata misura, verso il tema del numero odierno.”
Eh, sì. Sostenere che fossi a corto di idee per la stesura dell’incipit sarebbe un eufemismo. Preso atto della cosa, e non volendo suonare ridondante riproponendo una formula di cui mi sia già servito, ho deciso di affidarmi alla magia della descrizione generica. Sono quindi lieto di accogliervi, spettatrici e spettatori già comodi e ben preparati sul topic del giorno, al numero di Balloons dedicato, come anticipato, a…
…
Non funziona, eh?
E va bene. Riavvolgete tutto.
Dopo essermi dilungato, nel corso dei numeri passati, a descrivere fumetti dei quali ho sostenuto, con dedizione e talvolta con ferocia, la dignità artistica, e dopo essere penetrato, per quanto brevemente (non escludo di parlarne nuovamente, in futuro) nel campo tanto dibattuto dell’intrattenimento videoludico, credo sia giunta l’ora di parlarvi di qualcosa a cui il mondo stesso ha voluto attribuire la nomea di arte. Il tutto senza volermi in alcun modo allontanare dal mio campo d’indagine.
Introdotto come si deve il tema odierno[1], lasciate che vi presenti la persona che, agli occhi del mondo e della cultura tradizionale, ha reso il fumetto arte: Roy Lichtenstein.
Eh, sì. Con una faccia del genere e un dolcevita era impensabile questo individuo facesse qualcosa di diverso dall’artista.
O dal critico cinematografico.
O dal manichino espressivo con dolcevita.
Considerato uno degli esponenti più alti del movimento della Pop art[2], Roy Lichtenstein è noto per il suo “riuso” di vignette tratte direttamente da albi a fumetti, da lui colorate in maniera vivace tramite la tecnica della retinatura. Tale procedimento, che consiste nell’applicare il colore attraverso una griglia traforata, delineando quindi le sfumature tramite una miriade di punti, viene messo a nudo nelle vignette ingigantite dall’artista, rivelando la colorazione composta da una miriade di puntini, impercettibile nel piccolo spazio del disegno originale, ma dolorosamente visibile nel risultato finale; un po’ come le foto di classe rivelano e intensificano in maniera lampante la gravità dell’acne facciale.
Se l’arte di Lichtenstein si fermasse qui, credo sarebbe difficile attribuirgli lo status di “artista”. Ciò che conferisce a questo signore, americano di provenienza ma europeo in maniera impronunciabile di cognome, la dignità di un Picasso o di uno Chagall (per restare in anni recenti, senza andare a scomodare i pittori e gli sperimentatori che già praticavano centinaia d’anni fa), è, come per molti creatori d’arte moderna, il messaggio che si cela dietro alle sue produzioni grafiche.
L’arte moderna, per quanto mi riguarda, è puro concetto, è idealismo, è il trionfo della teoria sulla pratica artigianale e accademica. Che i risultati a cui perviene non mi siano sempre graditi è lungi dall’essere un segreto. Sarà un luogo comune, ma che un qualsiasi idiota possa disegnare un omino stilizzato su un opossum usando il cerume delle sue orecchie (ogni riferimento a fatti, cose e persone reali è totalmente casuale. Dico sul serio. Nel caso qualcuno avesse davvero disegnato un omino stilizzato su un opossum usando il cerume delle sue orecchie, PRETENDO UN LINK) e spacciare il tutto per una metafora della vita e guadagnare milioni mi sembra una cosa totalmente fuori dal mondo.
Grazie a quali concetti, dunque, Roy Lichtenstein viene elevato al di sopra di un qualunque disegnatore di opossum e definito artista?
Le riproduzioni fotografiche di Lichtenstein sono emblemi della banalizzante informazione di massa, un inno feroce al culto delle immagini che nel corso del ‘900 ha guadagnato sempre maggior terreno nella vita di tutti noi. Nel separare la parte dal tutto, nello strappare un filo alla maglia della visione pubblicitaria e commerciale, isolandolo e mettendone in luce le deformità, l’artista newyorkese si confà ai temi canonici della Pop art in maniera sofisticata e personalissima, dimostrando grande visione critica dell’innovazione ruggente della modernità.
Potreste trovare contraddittorio il fatto che, nel mio elogio della letteratura a fumetti, io abbia voluto portare alla ribalta il lavoro di un artista che ha sviluppato il suo sistema proprio mettendo in luce le “debolezze” della vignetta, intesa come valvola di sfogo di una cultura in cui l’immagine industriale e capitalista si è fatta preponderante. Rispondo, con grande semplicità, sostenendo il valore intrinseco dell’opera di quanti, impugnando penna o matita, siano in grado di dare vita a tavole inchiostrate al livello di quelle che hanno funto da materiale per Roy Lichtenstein (e a voialtri disegnatori di opossum ribadisco: fatemi vedere cosa sapere fare). Non dimentichiamoci poi come, nel panorama del fumetto come in qualsiasi altro, ci siano opere e opere. Dubito fortemente che un prodotto della qualità e della profondità di Watchmen sarebbe stato “banalizzabile” dalla retinatura dell’artista newyorkese[3].
Concludo, dopo avervi “innalzati alle vette” con un numero dedicato effettivamente all’arte, dicendovi che il fumetto, di contro, può toccare anche il “fondo” di quello che è comunemente avvertito come il sentire comune, senza che la cosa sia sempre negativa. Forse avremo modo di parlarne…
Alla prossima.
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PS: il numero odierno ha segnato una sorta di “ritorno alle origini” in relazione alle mie esperienze personali. Per ora non aggiungo altro. Forse un giorno vi dirò di più. Ci tenevo solo a farvelo sapere.