I giorni della scuola – IV
Giusto lo scorso anno è ricorso il cinquantesimo anno dalla pubblicazione di Lettera a una Professoressa, che ho riletto con piacere. Proprio in quei giorni mi è capitato tra le mani il libro di Danila Talamo e Marco Rodi e, dopo averlo letto, mi è venuto di pensare alla decadenza della scuola italiana: dalla Scuola di Barbiana alla Buona Scuola; da Lettera a una professoressa, a Professore mi fai incazzare.
Sono appunto cinquant’anni che si avvicendano riforme su riforme che riguardano il mondo della scuola e tutte, ma proprio tutte, sono state ricche di belle parole, concetti altisonanti, volti all’integrazione e al pieno sviluppo dell’istituzione scolastica. Peccato che alle parole non siano mai seguiti i fatti, perché non sono stati fatti investimenti economici, per rendere l’istituzione scolastica al passo coi tempi.
Il libro di Danila e Marco, edito da Ala Libri di Livorno, pur nei suoi tratti quasi comico grotteschi, propri della mentalità toscana, è molto amaro; rappresenta molto bene il logorio della vita degli insegnanti, costretti dalla legislazione vigente ad andare in pensione in età avanzata, a essere costantemente aggiornati e flessibili, a sopportare, soprattutto per alcune materie d’insegnamento, la continua perdita di posto, con conseguente pendolarismo sfiancante per un giovane, figuriamoci per un sessantenne!
È amaro nella sua leggerezza lessicale, perché ci rappresenta il futuro, letto negli occhi e nei gesti degli alunni; il loro disorientamento è lo specchio di una società che si è spogliata dai tabù del passato senza discernimento, rimanendo vuota, attaccata a stereotipi feticci, che alimentano la frustrazione e la solitudine.
La scuola italiana annaspa davanti alla crescente violenza verbale e comportamentale, che dalla società degli adulti, si riversa sui banchi di scuola. È di questi giorni l’episodio accaduto a un’insegnante di un istituto tecnico campano, sfregiata da un alunno, uno dei tanti nostri frugoletti incapaci di gestire le frustrazioni, le emozioni a valanga dell’adolescenza, perché non sono stati educati al rispetto, ma all’arroganza e alla presunzione, al denaro facile, tutte cose che sono antitetiche a qualsiasi messaggio educativo.
Lo sappiamo tutti che l’origine di questa violenza, di questa insoddisfazione, di questo razzismo è nelle vuote aspettative di cui siamo nutriti, da un sistema economico che non ha ideali, che si muove istrionico e lascia fantocci di uomini e donne, ad accapigliarsi inutilmente.
In questo libro non troviamo risposte e neppure ricette di bravi insegnanti affannati. Troviamo la semplicità di due esseri umani alle prese con una realtà distorta e maleducata, nella quale rappresentano l’esempio, l’educatore.
Dice Pasolini, in uno dei suoi scritti sulla scuola e la figura dell’educatore, una frase illuminante per questo libro e quasi profetica per il ruolo che al giorno d’oggi ha il docente:
«Il professore diviene così una specie di feticcio a cui il ragazzo tributa il suo più o meno cosciente terrore»
Danila, insegnante di informatica, da nemmeno un anno finalmente in pensione e suo marito Marco, professore di matematica, pensionato già da qualche anno, hanno deciso di raccontare un anno scolastico, un anno impreciso e attuale, un anno come tanti.
La prima parte, dal titolo: Pillole di veleno quotidiano (Ai giorni nostri), è scritta dalla Talamo, insegnante di informatica, classe di concorso che nel corso degli ultimi anni ha visto ridurre le ore d’insegnamento, risultando quasi sempre perdente posto e costretta a un pendolarismo massacrante, oppure a cambiare proprio materia d’insegnamento, a dispetto della preparazione e della formazione. Eppure l’amore per la professione la porta a scrivere come incipit al suo racconto:
È con animo leggero che quest’anno mi avvio a prendere servizio nella nuova scuola.
Ogni anno una nuova scuola, nuovi colleghi, nuovo dirigente e nuovi meccanismi. Ogni scuola è un mondo a sé, fatto di grandi gesti d’amore e squallide chiacchiere; di dinamiche da conoscere per entrare in sintonia con bidelli e colleghi. Poi ci sono gli alunni, che ti accolgono come l’ennesima insegnante, che probabilmente cambierà il prossimo anno. La precarietà e l’insicurezza sono elementi che permeano tutta la parte di Danila. Sembra di percepire il suo respiro affannoso, la sua voglia di lasciare qualcosa a quei ragazzi, nonostante tutto.
Dei primi giorni ci regala uno spaccato di cosa si prova a stare dall’altra parte della cattedra, davanti a tanti occhi accesi sulla figura dell’insegnante.
I primi giorni sono sempre quelli più difficili. Ti valutano, ti pesano, ti tastano il polso. Ma anch’io faccio lo stesso con loro. È come lo studiarsi di due pugili quando, appena saliti sul ring, la guardia coperta, cominciano a girarsi intorno senza decidersi a sferrare il primo pugno.
È dura da digerire quest’immagine, che ricorda più un western di Sergio Leone, che la poetica immagine di scambio amorevole pedagogico, che vorremmo avere della scuola e del lavoro dell’insegnante. Infatti poco più avanti Danila, profondamente sconsolata e stanca, afferma:
Ma io non avrei nessuna voglia di un incontro di pugilato. Non sono lì per mettere in difficoltà i ragazzi né per combattere con qualcuno; sono lì per fare il mio lavoro, che consiste nell’insegnare…
Quante volte ho sentito gli insegnanti, in questi ultimi anni, dire: vorrei fare il mio lavoro, ma per farlo c’è bisogno di continuità, di classi meno numerose e di ragazzi motivati a imparare e non.
costretti dai genitori, con un preconcetto di fondo e una strategia ben precisa: quella di fregarti, di ostacolarti in tutti i modi e di fare il meno possibile. Studiare è faticoso…
È faticoso studiare e pure poco redditizio, in un mondo dove i soldi coltivano ignoranza e la formazione è ridotta in pezzi, possono ben poco gli insegnanti a motivare, a parlare, a urlare e pure a mettere note sul registro. Tutto si riduce a una farsa, una specie di teatro vivente dell’assurdo, dove il vissuto di ognuno prende vita e vigore per un nonnulla, provocando tragedie serie o semi-serie: questo è il bello e il brutto dell’insegnare.
Danila Talamo ci esprime senza pudore la sua stanchezza di affrontare la quotidiana lotta tra la mamma e la docente, tra la psicologa e la docente, tra la pendolare sfinita e la docente, combattuta nel corso del suo percorso lavorativo, così come moltissime sue colleghe. Sono amare le sue considerazioni finali sulle leggi italiane in merito al sistema pensionistico, che ha visto stravolgere nel corso di vent’anni tutto il meccanismo, con la conseguente penalizzazione delle lavoratrici donne, che hanno visto allungarsi di parecchi anni la chimera della pensione. La stanchezza e l’incertezza che hanno caratterizzato i suoi ultimi anni di servizio sono le pillole di veleno quotidiano che Danila ha ingoiato e di cui ci ha parlato.
La seconda parte, dal titolo In punta di fioretto (Gli anni ’80-90), è scritta da Marco Rodi, insegnante di matematica in pensione ormai da diverso tempo, così sembra.
Diversamente dalla moglie, Marco non ha la stanchezza del pendolare, la frustrazione di un lavoro diventato solo fatica e di scarsa soddisfazione morale. Il tempo del racconto si colloca in un periodo storico completamente diverso, eppure scopriremo nel leggere i diversi episodi di vita quotidiana, quanto simili siano gli studenti, quanto nella scuola si anima che accomuna decenni dentro melodrammi adolescenziali.
Se nella prosa di Danila è costante una morbidezza quasi poetica e languida, che ci fa come appoggiare una mano virtuale sulla sua stanca spalla; quella di Marco è asciutta e concisa, ma non meno attenta alle dinamiche psicologiche e sociali dei suoi alunni.
Si interroga molto sul suo ruolo di insegnante, quanto del coinvolgimento emotivo nella vita degli alunni, deve essere considerato ai fini di una valutazione globale del rendimento scolastico. Ma lascio la parola all’autore:
Mi vengono spontanei alcuni interrogativi:
Quanto entrare in intimità con uno studente?
Quali rischi si fanno correre ai ragazzi, mostrando loro troppa disponibilità?
Quali sono i rischi che l’insegnante corre facendosi troppo carico dei problemi dei ragazzi?
Non c’è pericolo di confusione di ruoli?
Scolasticamente parlando, quanto tenere conto delle situazioni personali?
Insegnare è come camminare in mezzo a rogge tumultuose, dove è necessario non perdere mai di vista i punti fermi della propria etica individuale, che si spostano continuamente come i sassi su cui poggiamo i nostri piedi. È l’interrogarsi continuo a smuovere e a ricomporre come un puzzle il rapporto con la classe, attraverso la conoscenza e l’amore verso i singoli alunni, ma l’insegnante non lo sa, o almeno non è mai certo, al punto da finire i suoi interrogativi dicendo:
Non ho tutte le risposte, solo incertezze.
La prosa di Marco Rodi è scorrevole e divertente, racconta le varie vicende avvenute nel corso della sua carriera, alcune imbarazzanti come ne L’Importanza del sesso, ci fa quasi ridere:
«Professore, quanto è importante per voi uomini il sesso?»
Credetti di diventare viola, anzi diventai proprio viola.
«Come scusa?», risposi, fingendo di non aver capito e sperando che Laura avesse voglia di scherzare.
Il sesso è un argomento ancora scabroso da affrontare in classe. Marco non si nasconde dietro la letteratura, ammette tutto il suo sgomento e nello stesso tempo la sua voglia di essere vicino ai suoi alunni, prestando orecchio ai loro problemi di cuore e di sesso, che soprattutto per le donne è avvolto da paure ancestrali. Cerca però di non lasciarsi coinvolgere troppo, di non spostare troppo l’attenzione dalla sua materia d’insegnamento; infatti alla fine della lezione riflette:
Sarò stato anche un pavido, ma addentrarmi con un allieva in una discussione di sesso, non mi sembrava proprio il caso.
La lucidità e la freddezza con la quale ha impostato tutti i rapporti con i suoi allievi, gli ha dato frutti nel tempo, quando ormai adulti, incontra alunne e alunni che lo hanno fatto disperare, finalmente sistemati che gli chiedono:
«Professore, si ricorda di me?»
«E chi ti dimentica», le risposi pronunciando immediatamente il suo nome e il suo cognome e battendomi il palmo della mano in fronte, in segno di disperazione.
«Davvero si ricorda di me?»
Come si fa a dimenticare certe storie che ci sono capitate, gli alunni non sono pratiche senza volto, sono persone vive che ci fanno disperare, ridere, piangere e incazzare a morte. Vederli adulti che ti dicono con aria disarmante “sono cambiata“ non può non riempire il cuore di gioia, davanti allo scambio di ruoli e di emozioni.
La terza parte e ultima parte è un’analisi al libro stesso di Virginio Banio, eminente psicoanalista lacaniano, nel quale si tenta di dare una spiegazione ai comportamenti problematici segnalati nel corso degli episodi.
In questo libro non troverete l’esaltazione retorica dell’universo Scuola, a volte forse rimarrete interdetti davanti alla realtà dei fatti, quelli sempre sottaciuti, che avvengono dietro alla cattedra.
Danila Talamo e Marco Rodi, sono sposati da tanti anni e hanno in comune la passione per la lettura, lei di più, e per la scrittura, sicuramente più lui che ha all’attivo già diversi romanzi. Questo libro è la loro prima avventura letteraria insieme, che sembra dimostrare la massima di Lacan, ricordata da Virginio Baio nel suo commento finale:
insegnare è uno degli impossibili.
Continua il percorso: La flipped classroom