Ah, maledetto destino che generai tanti figli gagliardi
in Troia spaziosa, e non me ne resta nessuno.
[…] mi restano solo i vigliacchi,
i ballerini, i bugiardi, che eccellono nei passi di danza,
buoni solo a rubare in patria agnelli e capretti.
Impreca Priamo nell’ultimo libro dell’Iliade quando, per riscattare il corpo di Ettore, accetta di portare da solo dei doni al terribile Achille, che lo tiene in ostaggio per oltraggiarne i resti mortali, furioso verso l’eroe troiano uccisore del suo amato Patroclo.
L’Iliade come tutta la letteratura greca è simbolica per eccellenza e ci permette di galoppare il tempo, come fosse una sterminata prateria, dove schiere di uomini e donne continuano a ripetere incessantemente gli stessi errori, a vivere gli stessi dolori.
Non mi perderò certo nei meandri del grande poema omerico, di cui hanno parlato penne altisonanti, piuttosto l’Iliade di Omero è uno spunto per ragionare sui nostri tempi e sulla nostra storia recente; un modo come un altro per dimostrare che la Poesia vive con noi, ci parla di noi.
Così come Priamo anche l’Italia, assurta per metonimia a rappresentare il popolo italiano, piange i suoi figli migliori, uccisi barbaramente dal dopoguerra a oggi.
La lista dei nomi è lunga e dolorosa. Ognuno di quei morti merita di essere narrato con rispetto, ma non è questo l’intento del mio scrivere. Io vorrei ragionare, utilizzando il grande poema omerico, sul perché oggi ci troviamo a fare i conti con «i ballerini, i bugiardi… buoni solo a rubare in patria…»
Questi versi sono stati come una folgore che squarcia il cielo di una notte senza luna, ho trovato le parole giuste per piangere il mio dolore. Ora al pari di Priamo, abbiamo la consapevolezza che il nostro Achille ha una forza impareggiabile. Non da meno del re troiano noi dovremmo, caricato il carro della nostra onestà, della nostra coerenza, della nostra fermezza e della nostra dialettica, affrontare con coraggio quest’Achille; al pari dei grandi, ormai ridotti in polvere dalla morte: donne e uomini che hanno lasciato un’orma indelebile nella nostra cultura, di cui siamo indegni epigoni.
Il colore del vile si cambia in cento maniere,
il cuore non sa tenerlo a seder senza tremito,
ma si rannicchia e siede or su un piede or sull’altro,
e il cuore, dentro, fortissimo palpita
pensando alla morte, gli battono i denti:
ma il colore del bravo non cambia, né troppo
si turba al momento che si accovaccia in agguato,
brama gettarsi al più presto nella strage sinistra
nessuno allora potrebbe negarti forza e coraggio.
Quando guardiamo sfilare le innumerevoli facce di bronzo, impeccabilmente rosee, senza traccia di vergogna o tremito e leggiamo questi versi, non possiamo non interrogarci sul perché le società umane non abbiano lavorato per il trionfo della vera essenza dell’Umanità.
Valore e coraggio sono stati gradatamente ridotti a vuote parole, buone per slogan da social network. Eppure il Valore di un essere umano è anche il coraggio con il quale affronta le difficoltà quotidiane, la sua onestà morale e intellettuale, la sua mano tesa al dialogo, la mente sempre accesa sui particolari insignificanti e non prona ai poteri forti.
Belle parole, tutte condivisibili ma vuote in una società che fonda la sua prosperità sulle sole leggi di mercato. Dove la millanteria e la sbruffonaggine sono premiate dalla massa, abituata a privilegi di cui non conosce la storia e che pertanto non apprezza e non difende.
È terrificante il grado di sottocultura, mascherata da un titolo di studio rubacchiato oppure rosicchiato a stento, che non lascia traccia di acculturazione, retaggio di un’abitudine disastrosa tutta italiana, fatta d’incompetenze e incapacità, premiate dalle più svariate forme di raccomandazione.
La tanto millantata competizione non è sui meriti, ma sulla lunghezza delle lingue, con le quali si lustrano i mantelli dei potenti: politici e non.
È un discorso amaro, purtroppo noto. Eppure se pensiamo a quante donne e uomini di valore ha prodotto questo suolo antico, che sono state uccise oppure ridotte al silenzio da fiumi di droghe e dalla violenza, creata e voluta da un potere senza volto e senza ideale, non possiamo non essere arrabbiati, amareggiati, svuotati.
Guerre inutili, combattute da uomini, da donne, dai bambini e dai vecchi, che muoiono a migliaia ogni giorno. Sangue e dolore dei molti innocenti inermi è sparso per l’ingordigia e la crudeltà di multinazionali, trafficanti d’armi e quant’altro.
Dice bene il nostro Omero, mettendo in bocca agli dei delle considerazioni umanissime, il cui significato, pur compreso, non diventerà mai il significante nella vita degli uomini, che piangeranno in eterno gli stessi dolori.
Sciolta è la lingua degli uomini e ci son molte parole,
svariate, un ricco pascolo di nomi, tanto di qua che di là:
qualunque parola tu dica, udrai parola a tono.
Perché dunque liti e piati dobbiamo per forza
piatire, uno di fronte all’altro, […]
Vorrei interpellare alcuni amici, per arricchire queste considerazioni sulla desolazione di questi tempi, ponendo loro due quesiti, che ultimamente pongo a me stessa, soprattutto quando mi accingo a scrivere.
Dalla moda alla letteratura non si fa altro che riprodurre il Novecento, “secolo divoratore di poeti “ come dice Biancamaria Frabotta e non solo poeti, allora mi chiedo e chiedo a Bartolomeo Bellanova, Paolo Baroni e Gabriele Stilli, il più giovane dei tre, nostro co-redattore:
Come riusciremo a superare il Novecento, cui siamo fortemente attaccati per i valori importanti, le conquiste sociali e quant’altro, dei quali siamo con ferma volontà seguaci, attingendo dalla realtà contestuale del nuovo millennio le novità positive, da trasformare in un linguaggio che arrivi a toccare il suolo, cioè raggiunga tutti?
Quanto è determinante la conoscenza della letteratura antica, nella ricerca di un linguaggio comprensibile e illuminante? Linguaggio composto di forme che si evolvono e involvono seguendo il cammino circolare della vita?
Cominciamo da te Gabriele, che sei il più giovane, il Novecento ti ha visto bambino, per lo più lo hai conosciuto attraverso i libri e l’innumerevole produzione filmica e documentaristica; per noi rappresenti pertanto il nuovo millennio, che mi dici in merito a questi interrogativi?
Una volta un amico mi disse: esci dal Novecento! Gli ho risposto che ci dovrei ancora entrare. Ragionare per secoli ė comodo, ma ci porta a grandi semplificazioni. Per esempio, molte delle idee feconde attribuite normalmente al Novecento, come la laicità, il protagonismo delle masse, l’emancipazione femminile, le istanze di libertà e uguaglianza sono in realtà nate e cresciute almeno un secolo prima. La vera grande novità del Novecento è, al contrario, il fascismo: un’idea così nuova, un ibrido così strano che nessuno, all’inizio, aveva gli strumenti per capirlo. Nessuno dei politici europei dell’epoca aveva un’idea chiara di cosa fosse, nella realtà, il fascismo, quanto fosse pericoloso. In questo senso vedo certamente un Novecento da superare; anzi, vedo un Novecento che non se n’è mai andato, nella sua perpetua e fittizia lotta tra un fascismo antisistema e un sistema economico-finanziario che ha progressivamente impresso il suo marchio sul mondo.
Come superarlo? Certamente un linguaggio semplice può essere utile. Ma un linguaggio semplice è un linguaggio poco preciso e inaffidabile. Non credo che ci servano parole più semplici. Ci servono le parole giuste. Poi, a volte, capita che quelle giuste siano anche le più semplici. Ma non deve essere obbligatorio, soprattutto nell’arte. Non credo che gli antichi cercassero un linguaggio comprensibile, anzi: la poesia affonda le sue radici nella salmodia religiosa, che deve essere di altro tenore rispetto a ciò che si può comprendere.
Piuttosto, cercando, come tutti i poeti, una parola che fosse bella e giusta insieme, spesse volte si sono ritrovati tra le mani versi di una grande semplicità, di una grande limpidezza. Catullo in questo era forse il più bravo. Ma se leggiamo Omero, o i tragici, o Virgilio (per non parlare di Lucano) le cose cambiano abbastanza, e tradurre non è più così immediato. Se poi prendiamo i prosatori, i più belli sono i più difficili: Tacito, Demostene, Cicerone, Tucidide, per certi versi Seneca… anche Cesare, l’autore facile per eccellenza, ogni tanto dà lezioni di oscurità.
Più che per un linguaggio comprensibile, leggere i classici è fondamentale per un linguaggio giusto, ricco, articolato. I greci avevano un verbo per qualsiasi cosa, dal comportarsi come un ubriaco al vendere le olive in salamoia; scrivevano frasi lunghissime piene di incisi e considerazioni e precisazioni: questo ė indice di una visione del mondo estremamente libera, versatile; i latini, d’altro canto, compensavano la loro lingua regolare con una grande dose di eleganza. A rendere grande la letteratura classica credo sia proprio questo insieme di rigore e vitalità, solennità e dolcezza, questa grande capacità di mettere insieme qualità apparentemente distanti: solennità, dolcezza, rigore, esuberanza, complessità: c’ė chi dice che nella letteratura classica ci sia già tutto. Esagera, certo. Eppure…
Adesso passiamo la parola a Bartolomeo Bellanova, un poeta di Bologna, di cui ho parlato su questo blog a proposito del suo ultimo libro di poesie Gocce Insorgenti edito dalla casa editrice Terra d’ulivi.
Bartolomeo sei un poeta impegnato a tutto campo, usi quindi il messaggio poetico in modo umanamente vivo: cosa mi dici in merito ai quesiti che ho posto sopra?
Credo che questi primi diciotto anni del ventunesimo secolo siano una zattera incerta tra correnti opposte e contrarie che la sballottano tra le eredità pesanti, scomode o positive del secolo scorso e le incertezze e le sperimentazioni di questo scorcio di nuovo secolo. Nella politica, nella società e nella letteratura portiamo quotidianamente un fardello invisibile sulle spalle, costituito dalle ideologie e dalle forme mentali del secolo scorso che ci condizionano. Io credo che occorra molta attenzione, perché è estremamente facile cadere nel pericolo di “ buttar via il neonato con l’acqua sporca”.
Intendo dire che provo anch’io la necessità di liberarmi dai troppi “ismi” che hanno portato nel secolo scorso a realizzare brutture, genocidi e lutti mai visti nella storia umana e che ancora stanno abbondantemente sanguinando il pianeta, ma il Novecento, non dimentichiamoci, è stato anche il secolo di Uomini grandi e immortali per i loro insegnamenti o per la loro grandezza letteraria. Mi riferisco a Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela e a tutti quegli anonimi ragazzi e ragazze partigiani morti con la serena convinzione di fare la cosa giusta. Mi riferisco ai versi di Federico Garcia Lorca, Pablo Neruda, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Mahmoud Darwish e Leopold Sedar Senghor, solo per citarne alcuni. Ognuno di loro ha lottato con la propria parola viva contro omofobia, dittatura, guerra, esilio obbligato dalla propria terra, colonialismo e razzismo.
La parola può essere anche oggi, in questo deserto di semplificazione e sfruttamento legalizzato, il grimaldello dell’uomo contro ogni oppressione.
Di questo tempo tecnologico dobbiamo prenderci il meglio: la possibilità, impensabile fino a qualche anno fa, di conoscere parole e lotte di uomini di altri continenti in pochi secondi, grazie ai contenuti liberi e gratuiti tramite la rete. Questo ci permette di crescere, di diventare meticci del linguaggio e delle espressioni attraverso l’arricchimento che proviene da altre tradizioni letterarie e sociali, rispetto a quella europea. Le visioni altre del mondo rispetto quella eurocentrica ci permettono di pensare alla possibilità di nuovi paradigmi sociali, nuove narrazioni che vengono da popoli ignorati da buona parte della nostra cultura del novecento.
La possibilità di organizzarci, connettere azioni dal basso in modo preciso e veloce come era impensabile prima dell’avvento dei social media, devono consentire di diffondere queste conoscenze alla gente, di “costringerla” a pensare che un altro mondo è possibile.
Questa per me è la grande sfida in corso e futura: saper penetrare nei meccanismi offerti dall’organizzazione di questa società capitalistica e da questo Impero spietato, per cercare di cambiarlo alla radice, rinnovando e vivificando i valori di umanità, democrazia, partecipazione e antirazzismo che fanno parte della migliore elaborazione culturale del novecento con nuove declinazioni affinché diventino valori umani condivisi e non appannaggio solo di un élite di occidentali benestanti.
Un altro amico poeta che stimo immensamente è Paolo Baroni, di cui vi ho parlato a proposito del suo splendido libro di liriche intitolato Le Parole della Musica, edito da A.L.A. edizioni. Paolo è il più grande di tutti noi e del Novecento ha vissuto i momenti migliori e peggiori. Insegnante in pensione, poeta da sempre e appassionato di musica, con i suoi versi ricerca l’essenza dell’emozione, il delicato fruscio della nota musicale, ma nella costruzione a spirale della poesia c’è l’incanto e l’orrore del vissuto e della storia.
Paolo caro, ti rivolgo le stesse domande poste a Bartolomeo, perché sono di largo respiro e lasciano ognuno di voi in grado di spaziare nella risposta.
Cara Silvia, è vero, molto possiamo imparare dal Novecento. Esso è vita vissuta, da noi, da me che ne ho visto oltre la metà degli anni e dai nostri padri, nostra memoria e nostre radici.
Senza dubbio quegli anni sono stati insanguinati da guerre orribili, stragi inenarrabili, ma le guerre si ripetono, con insensata ferocia, solo che oggi alcune vengono chiamate “peace keeping”. Nel Novecento abbiamo visto uccidere uomini giusti, per le loro idee rivoluzionarie, per il loro sguardo rivolto all’unione di tutti gli uomini e alla fratellanza, ma i giusti e i portatori di pace cadono sotto i colpi del potere e delle folle insensate anche oggi e non meno di ieri. Abbiamo visto il morbo di novecentesche dittature marionetta infestare l’animo dei popoli, ma molti burattini reggono anche oggi le sorti del mondo. Io sono fermamente convinto che il Novecento non vada semplicemente superato, ma che occorra impararne l’insegnamento. La conoscenza, lo studio della storia e la cronaca di ieri deve spingerci verso la pace e la tolleranza e il progresso dell’umanità. Non è facile, ma è nostro dovere intraprendere questo cammino.
Dovremmo rivolgere il nostro sguardo verso le vicende e i personaggi che hanno illuminato quegli anni. Parliamo ai nostri figli e nipoti di Gandhi, di Martin Luther King, di Emmeline Pankhurst, di Rosa Parks, di Marie Curie, di Albert Einstein, di Rita Levi Montalcini, di Margherita Hack. Non dovremmo perpetuare solo il lascito di crudeltà e ingiustizia del Novecento, ma anche i pensieri e le parole di coloro che ci hanno donato saggezza e poesia, esempio e coraggio. Cantiamo allora le canzoni di De André, recitiamo i versi di Pasolini, leggiamo Virginia Woolf, Bertrand Russell, raccontiamo di Falcone e Borsellino, di Maria Montessori e di tutte le grandi e belle persone che ci hanno insegnato con il pensiero e con l’azione.
E soprattutto coltiviamo e tramandiamo l’uso e il piacere della parola. Il linguaggio schietto, elegante, ricercato ma comprensibile, accurato, conciso e significativo. Aboliamo gli slogan tanto di moda oggi, le felpe usate come stendardi, i post riciclati, i “cinguettii” copiati e diffondiamo le parole nostre, ma che siano sagge, meditate, collegate con il pensiero, frutto di studio, di lettura, di ricordo, di vita.
Leggo e rileggo le risposte di questi amici, che ringrazio per il prezioso contributo. Sono tre visioni complementari del problema. Il Novecento ha tracciato un segno indelebile dal quale distaccarsi è impossibile, soprattutto perché ha aperto la strada al pensiero libero e alle libere correnti artistiche, letterarie e politiche. C’è una forte spinta negazionista che mette in discussione le conquiste raggiunte, abbiamo grosse sfide da affrontare se non vogliamo affondare in questa melmosa palude nella quale ci stanno infilando. Pertanto lasciamoci con la domanda che Odisseo pone ad Agamennone, nel libro 14°, mentre gli espone i suoi scellerati piani di guerra; quesito che potremmo rivolgere ai tanti parolai dei nostri giorni:
Atride, quale parola sfuggì dalla siepe dei denti?